mercoledì 28 novembre 2007

Il Papa: Immgrazione

IMMIGRAZIONE 15.0428/11/2007 Il Papa: ''Siate rispettosi delle leggi e non lasciatevi mai trasportare dall'odio'' Nel messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato la richiesta alle istituzioni di idonee strutture di accoglienza e di formazione ROMA - Un invito ai migranti ad essere rispettosi delle leggi dei paesi nei quali si recano e a non lasciarsi trasportare dall"odio e dalla violenza, ma anche la richiesta rivolta alle pubbliche istituzioni a mettere in campo tutte le possibili azioni per un loro corretto inserimento sociale, culturale e professionale. E’ quanto Benedetto XVI scrive nel Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebrerà domenica 13 gennaio 2008, e il cui testo è stato diffuso questa mattina dalla sala stampa vaticana. Il messaggio del papa si incentra in modo particolare sui "giovani migranti”, occupandosi poi anche della condizione dei rifugiati e di quella dei giovani stranieri che emigrano per motivi di studio. Se “dai paesi d’origine - afferma papa Ratzinger – se ne va spesso la gioventù dotata delle migliori risorse intellettuali, nei paesi che ricevono i migranti vigono normative che rendono difficile il loro effettivo inserimento”, il che crea in un gran numero di migranti problemi legati alla cosiddetta “difficoltà della duplice appartenenza”, cioè la fatica di “inseririsi organicamente nella società che li accoglie, senza che tuttavia questo comporti una completa assimilazione e la conseguente perdita della propria cultura d’origine”. Il papa ricorda, pur nella complessità dei contesti, la necessità di puntare sul supporto dela famiglia e della scuola: “Il sistema scolastico dovrebbe tener conto delle loro condizioni e prevedere per i ragazzi immigrati specifici itinerari formativi d’integrazione adatti alle loro esigenze”, in modo da “garantire la loro preparazione fornendo le basi necessarie per un corretto inserimento nel nuovo mondo sociale, culturale e professionale”. Tutto questo in un “clima di reciproco rispetto e dialogo tra tutti gli allievi, sulla base di quei principi e valori universali che sono comuni a tutte le culture”, e non mancando di considerare - in ambito familiare - il fenomeno dello “scontro” tra “genitori rimasti ancorati alla loro cultura e figli velocemente acculturati nei nuovi contesti sociali”. Dopo aver messo in risalto la particolare condizione dei migranti temporanei che si trovano lontano da casa per ragioni di studio (e ai quali chiede di “aprirsi al dinamismo dell’interculturalità, arricchendosi nel contatto con altri studenti di culture e religioni diverse”), Benedetto XVI si rivolge poi direttamente a tutti quelli che chiama “cari giovani migranti”: “Preparatevi a costruire accanto ai vostri giovani coetanei una società più giusta e fraterna, adempiendo con scrupolo e serietà i vostri doveri nei confronti delle vostre famiglie e dello Stato. Siate rispettosi delle leggi e non lasciatevi mai trasportare dall'odio e dalla violenza. Cercate piuttosto di essere protagonisti sin da ora di un mondo dove regni la comprensione e la solidarietà, la giustizia e la pace”. Nel messaggio, c’è spazio anche per la denuncia delle inumane condizioni di vita alle quali sono esposti i migranti forzati, i rifugiati, i profughi e le vittime del traffico di esseri umani, e in particolare le ragazze, “più facilmente vittime di sfruttamento, di ricatti morali e persino di abusi di ogni genere”, e gli adolescenti e i minori non accompagnati, che “finiscono spesso in strada abbandonati a se stessi e preda di sfruttatori senza scrupoli che, più di qualche volta, li trasformano in oggetto di violenza fisica, morale e sessuale”. “Impossibile” – scrive Benedetto XVI – “tacere di fronte alle immagini sconvolgenti dei grandi campi di profughi o di rifugiati, presenti in diverse parti del mondo”, come pure di fronte ai quei “bambini e adolescenti che hanno avuto come unica esperienza di vita i 'campi’ di permanenza obbligatori, dove si trovano segregati, lontani dai centri abitati e senza possibilità di frequentare normalmente la scuola”. E a loro riguardo, dice, se “molto si sta facendo” già ora, “occorre tuttavia impegnarsi ancor più nell'aiutarli mediante la creazione di idonee strutture di accoglienza e di formazione”. (ska) WWW.redattoresociale.it © Copyright Redattore Sociale

Appello al Presidente della Repubblica

COMITATO STUDI CITTADINANZA ITALO - ERITREI ናይ ሓናፍጽ መሰል ኣቦነት ንምርግጋጽ ዘጽንዕ ጉጂለ c/o Cattedrale B.V. del Rosario - Asmara - Eritrea - P. O. Box 1263 Tel. 002911/552501 – (cell.) 002917-123129 - E-mail: [prode_40@yahoo.it] - Fax 002911/552501 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA On. le Giorgio NAPOLITANO AL MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI On. le Massimo D’ALEMA P. le della Farnesina N. 1 ROMA AL VICE MINISTRO PER GLI ITALIANI NEL MONDO On. le Franco DANIELI P. LE DELLA FARNESINA 1 ROMA AL SINDACO DEL COMUNE DI ROMA On. le WALTER VELTRONI Piazza del Campidoglio 1 ROMA ALL’AMBASCIATORE D’ITALIA IN ERITREA Sua Eccellenza Ambasciatore GAETANO MARTINEZ TAGLIAVIA ASMARA - Eritrea c. p. c. : Comune di Roma, Ufficio Cottadinanza Barone Amedeo Guillet Lista Amici Italo-Eritrea [italo-eritrea@yahoogroups.com] ASPER [www.asper-eritrea.com] Agenzia Habesha [agenzia_habeshia@yahoo.it] Maitacli [maitacli@maitacli.it] ANRRA [ANRRA@libero.it] Giulia Barrera [giuliabarrera@tiscali.it] Asmara, 24 Novembre 2007 Prot. CC/003/07 Signor Presidente, Le invio questo appello prendendo lo spunto dal 10° anniversario da quello che il Comitato cittadinanza Italo – Eritrei, che ha la sede presso la Cattedrale cattolica di Asmara, presentò al suo predecessore On. Oscar Luigi Scalfaro nell’occasione della visita di Stato all’Eritrea (vedi allegato n. 1). Un anniversario che a noi, richiedenti per diritto la cittadinanza italiana, significa solo delusione, in quanto il Governo Italiano non ha fatto nulla per sanare in radice una situazione di ingiustizia subita, perciò non voluta e tanto meno procurata. Purtroppo è così! Anche i nostri appelli presentati alle varie personalità politiche in visita all’Eritrea: il Ministro per gli Italiani all’estero Mirko Tremaglia e Gianfranco Fini; e quelli inviati ai vari Ministeri in Italia, non sono andati oltre alle belle parole e a promesse mai mantenute, tanto che le nostre istanze sono ancora ferme al Comune di Roma, dopo essere state rigettate dalla Procura di Roma. Signor Presidente, è un nostro sacrosanto diritto ottenere quello che ci spetta ed è un dovere imprescindibile per il Governo Italiano trovare una giusta soluzione a questa grave mancanza; perciò chiedo a Lei la volontà di trovarvi una soluzione. Si tratta di un caso di enorme portata morale ed umana che porterebbe rimedio, anche se tardivo, a torti causati dalla legislazione razziale di allora, subiti da molti figli, frutto dell’unione di soldati italiani con donne eritree, durante la lunga presenza coloniale Italiana in Eritrea. Le leggi, all’epoca in vigore, ed altri fattori contingenti, impedivano agli italiani di riconoscere i loro figli naturali e si può immaginare con quali conseguenze per questi ultimi in una società patriarcale come quella Eritrea. All’epoca le “Norme relative ai meticci” (L.13 maggio 1940 n. 822) proibirono esplicitamente al padre italiano di riconoscere il proprio figlio meticcio (art.3) oltre a disporre altri odiosi provvedimenti discriminatori. I figli non riconosciuti di padre italiano, si sono trovati nella situazione, del tutto inedita in Eritrea, di non avere un nome paterno da affiancare al proprio. Situazione nuova, perché la normativa locale prevede che la madre può, con dichiarazione giurata, individuare il padre del proprio figlio. Da questa dichiarazione inappellabile della madre, derivano all’uomo tutti gli onori e oneri della paternità. Quindi in Eritrea prima dell’arrivo degli italiani, non esistevano figli di padre ignoto. Il figlio non riconosciuto è stato dunque sempre immediatamente identificabile, e portare il nome della madre anziché quello del padre, ha equivalso ad un marchio d’infamia. In Eritrea, l’identità della persona è fondata sull’appartenenza al lignaggio paterno: i bambini vengono educati secondo la religione e le tradizioni paterne, e parlano la lingua del padre (infatti gli Italo-Eritrei parlano sempre l’italiano a volte meglio della stessa lingua locale). Nel 1997 nacque, presso la Cattedrale della B.V. del Rosario di Asmara, un Comitato Cittadinanza Italo-eritrei, il quale, prendendo occasione della visita all’Eritrea dell’allora Presidente della Repubblica On. Oscar Luigi Scalfaro, presentò domanda per un suo personale intervento alla soluzione dell’annoso problema degli Italo-Eritrei. Il medesimo Comitato, incoraggiato dalle promesse del Presidente e dalla partecipazione fattiva dell’Ambasciata d’Italia in Asmara e all’entrata in vigore della Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (L.218/1995), diede via al processo di riconoscimento degli Italo-Eritrei, presso l’Alta Corte di Asmara. Vennero così ottenute le sentenze di riconoscimento giudiziale di paternità emesse dall’Alta Corte di Asmara e conseguentemente gli stessi soggetti maggiorenni, resero presso l’Ambasciata italiana la dichiarazione di acquisto della cittadinanza italiana, così come previsto dall’art. 2 n.2 della legge 5.2.1992 n. 91. La stessa autorità consolare, che ha peraltro emesso l’accertamento positivo della sussistenza dei requisiti in merito alla dichiarazione resa dagli interessati (art.16 DPR 572|93), inoltrava le sentenze e gli atti di cittadinanza ai vari Comuni italiani, richiedendone la trascrizione nei registri di stato civile in applicazione di quanto disposto dalla legge 31 maggio 1995, n. 218, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato. Non tutti i Comuni hanno potuto aderire alla richiesta di trascrizione, in particolare il Comune di Roma, il quale prima di effettuare la trascrizione delle sentenze di riconoscimento giudiziale di paternità pronunciate dall’Alta Corte di Asmara, ha preventivamente chiesto parere alla Procura locale, in merito appunto alla possibilità di procedere alla registrazione nei registri di stato civile. La Procura di Roma si esprimeva negativamente osservando che nelle sentenze in questione non apparivano rispettate le condizioni richieste dagli artt. 64 e 65 dalla legge 218/1995, ribadendo peraltro la facoltà da parte egli interessati a rivolgersi per il ricorso alla Corte d’Appello italiana (art.67 L.218/1995). Tale parere venne successivamente confermato dal Ministero dell’Interno, ormai competente in materia (art. 9 DPR 396/2000). Si tiene a precisare che tale procedura risulta non percorribile per molti degli interessati, in considerazione del fatto che questi risiedono in Eritrea e che versano in precarie condizioni economiche. A seguito dei pareri espressi, i riconoscimenti giudiziali di paternità nonché le dichiarazioni di cittadinanza, si sono definitivamente arenati nel Comune di Roma. Voglio ricordare che dietro a queste pratiche ci sono altrettante famiglie, con la medesima storia di un doloroso passato, che hanno seguito la stessa procedura, ma evidentemente risultano più fortunate, in quanto le loro pratiche sono state inviate ad altri Comuni italiani, i quali hanno provveduto alle trascrizioni e, quindi, i “favoriti dalla sorte”, hanno ottenuto il pieno riconoscimento della cittadinanza italiana a decorrere dal giorno successivo alla dichiarazione resa presso l’autorità italiana. Non riusciamo a comprendere questa disparità di trattamento e diversità di procedura tra Comune e Comune, nonché il parere espresso dalla Procura di Roma che sembra non conforme alla legge 31 maggio 1995, n. 218. Le trascrizioni delle sentenze sono state richieste dall’Ambasciata d’Italia in Asmara in conformità alla succitata legge n. 218, (Riforma il sistema italiano di diritto internazionale privato), che ha innovato il sistema, seguito dal codice di procedura civile previgente in tema di efficacia nella Repubblica italiana, delle sentenze straniere e dei provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione. Quindi vorrei qui di seguito elencare alcune riflessioni legislative che ritengo sia opportuno tenere in considerazione: · Con la riforma, è stato introdotto il principio del riconoscimento in Italia delle sentenze e dei provvedimenti stranieri, senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento. La legge, pertanto, non specifica se, in materia di stato civile e nei casi in cui le sentenze e di provvedimenti stranieri devono essere trascritti, iscritti o annotati in pubblici registri occorra o meno l’accertamento giudiziale dei requisiti richiesti dalla citata legge per il riconoscimento. · Peraltro l’art. 33 della legge 218 nel disciplinare la filiazione, considera preminente la tutela della posizione del figlio nel contesto della legge nazionale, che è quindi quella che regola principalmente i rapporti in questione. · L’art. 35 della medesima legge regola le condizioni per il riconoscimento del figlio naturale. La legge regolatrice è designata ricorrendo a più criteri alternativi: la legge nazionale del figlio al momento del riconoscimento o, se più favorevole, la legge nazionale di chi fa il riconoscimento nel moment in cui questo avviene (comma 1). La forma del riconoscimento è regolata dalla legge dello Stato in cui esso è fatto o da quella che ne disciplina la sostanza (comma 3). · Il terzo comma dell’art. 35, che regola la forma del riconoscimento, prevede, come legge applicabile, l’alternativa tra la legge dello Stato in cui esso è fatto e quella che ne disciplina la sostanza (la legge nazionale del figlio, oppure quella dell’autore del riconoscimento). · Se il citato art. 35 nulla afferma circa la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, è evidente che la disciplina di questa dovrà espirarsi, in via analogica, a quella prevista dalla legge per il riconoscimento del figlio naturale, fondata sul principio del ”favor filiationis”. · Pertanto si ritiene che le dichiarazioni giudiziali di paternità pronunciate dall’Alta Corte di Asmara sono da considerarsi forme di riconoscimento regolate dalla legge applicabile in questo caso, che è la legge dello Stato in cui il riconoscimento è fatto. Esse pertanto, dovrebbero essere riconosciute in Italia senza che sia necessario un controllo giudiziale in ordine all’accertamento dei requisiti. Signor Presidente, nei nostri volti sono inconfondibilmente stampati i lineamenti dei nostri italianissimi padri. Allora perché ci viene negato, proprio dall’Italia, ciò che per la legge eritrea il diritto al riconoscimento dei paternità è estremamente pacifico? Oggi, con questa mia, a nome dei figli di Italiani, che per troppo tempo furono colpevolmente dimenticati da chi ne aveva il sacrosanto dovere, mi permetto di chiedere di dare un esito positivo al legittimo diritto di quanti sono nati da sangue italiano e si appellano alla volontà politica per avere pari trattamento a quello ottenuto dai “favoriti dalla sorte” che hanno conseguito con la regolare registrazione nei Comuni italiani il pieno riconoscimento della cittadinanza italiana. Alle luce di quanto sopra Le chiediamo un intervento personale presso la Divisione Cittadinanza del Ministero dell’Interno, per il riconoscimento al diritto di cittadinanza ai figli di Italiani. Chiediamo giustizia, e soluzione alla situazione anomala dei figli di Italiani, ormai stanchi di portare il pesante fardello di essere chiamati “figli di nessuno”. Firmato Padre Protasio Delfini Presidente Comitato cittadinanza ____________________________________ All. n. 1: Appello all’On. Oscar Luigi Scalfaro All. n.: Lista (da perfezionare) degli Italo-eritrei richiedenti la cittadinanza.

Testimonianza di uno dei Missionari espulsi

Eritrea: guerra e fame stanno distruggendo una intera popolazione di Angela Ambrogetti/ 27/11/2007 Padre Javier è uno dei missionari espulsi dal governo eritreo. A Korazym.org, la sua esperienza tra la gente Kunama, tribù poverissima che vive al confine con l'Etiopia ancora legata alle religioni tradizionali. Una missione che non piace al governo. La scorsa settimana sono rientrati in Italia i missionari cattolici, a cui il governo di Asmara non ha rinnovato i permessi di soggiorno. Ufficialmente i motivi sono legati al rifiuto dei religiosi a svolgere il servizio militare e al divieto di permanenza oltre i due anni per le Organizzazioni non governative. Di fatto la Chiesa è sottoposta a forti pressioni e si teme per la stessa sorte per le istituzioni cattoliche. Padre Javier è un comboniano messicano, uno dei tredici espulsi. Il suo sogno è sempre stato africano? "Sono stato in Eritrea 10 anni. Il mio sogno è sempre stato di andare in un paese africano per evangelizzare ed annunciare la parola di Dio. Mi sono trovato in un paese cristiano da tanti anni, molto prima del Messico, ma ci sono dei gruppi non ancora evangelizzati e seguono le religioni tradizionali, e fra questi gruppi, i kunama. E' con loro che svolgiamo il nostro lavoro". Come sono stati questi ultimi anni di guerra e di carestia? "Pochi mesi dopo il mio arrivo è scoppiata la guerra per l'indipendenza dall'Etiopia, e questo ha complicato la nostra attività perché i bisogni della gente erano cambiati. C'era bisogno di cibo, medicinali, educazione. Una situazione di emergenza nella quale noi abbiamo dovuto far fronte ai bisogni primari e ci siamo trovati a dover fare tanti lavori di sviluppo e promozione umana. Non tanto quindi una predicazione della parola di Dio. Un po' alla volta mi sono reso conto che proprio questo era l'annuncio della Buona Novella. Non solo la predicazione, le parole, ma i fatti perché la gente ha necessità materiali". Una guerra quasi civile tra popoli fratelli… "Tra Eritrea ed Etiopia c'è stata una guerra di indipendenza nel 1993, ma la situazione non si è mai stabilizzata, e la guerra è proseguita per la definizione dei confini. Poi si è aggiunta la siccità. Il paese è molto secco, una savana e la gente vive di pastorizia, agricoltura stagionale. Quando manca l'acqua manca tutto. La gente non ha altri mezzi di sostentamento. Con la guerra e l'arruolamento obbligatorio, gli uomini sono tutti dovuti andare al fronte e non è rimasto nessuno a lavorare nei campi. Questa è l'origine di tutti i problemi. La gente si impoverisce perché gli uomini non possono mantenere la famiglia". Cosa fate e in che zona? "Siamo nella zona del basso piano dell'Eritrea verso il confine con il Sudan, una regione dove la maggioranza è islamica, e c'è poi questa tribù che segue la religione tradizionale i Kunama. E' una regione arida ed ostile. L'evangelizzazione è recente ed è stata iniziata dai frati cappuccini 90 anni fa. Poi è stata interrotta dalla guerra che è durata 30 anni, e pochi anni fa noi comboniani abbiamo ricominciato il lavoro. La diocesi è di recente istituzione ed è sta eretta nel 1995. La maggioranza dei cristiani è copto ortodossa, poi ci sono i cattolici ma sempre di rito copto. Da tanti anni la Chiesa cattolica cerca di entrare in Etiopia ed Eritrea. Ci sono stati problemi perché i copti non vedono molto bene la Chiesa cattolica, perché la collegano al periodo coloniale". Allora, qual è il vostro lavoro? "Lavoriamo soprattutto per la prima evangelizzazione tra i Kunama. Un gruppo etnico piccolissimo, la maggior parte di loro vive in una area remota ai confini con l'Etiopia e la guerra li ha costretti a scappare e vivere in uno stato di continua emergenza. Hanno bisogno di tutto". Siete dovuti tornare in Europa perché i vostri visti non sono stati rinnovati, ma che speranze avete di rientrare in Eritrea? "Per il momento non c'è nessuna possibilità perché il governo ha un programma di controllo della Chiesa. Questo è solo un primo passo e le cose possono solo peggiorare. Forse con un cambio di politica ci sarà qualche speranza. Noi tutti speriamo di tornare perché la gente ci vuole bene, ed ha tanto bisogno e abbiamo visto che è davvero un posto in cui il Signore ci chiama ed è molto necessario il lavoro pastorale e sociale. I cattolici sono solo il due per cento. Molte famiglie hanno preti e suore, ma hanno già molte attività ed è difficile che possano curare le missioni. In Eritrea poi ci sono nove culture diverse e spesso ci sono difficoltà tra una etnia e l'altra. Ad esempio un Kunama difficilmente accetta un prete o una suora della tribù tigrina. E questo rende tutto più difficile. Per questo è più facile per noi stranieri". A proposito di stranieri che ricordo hanno degli italiani? "Una cosa curiosa è che l'italiano è la seconda lingua più parlata nel paese. E anche per noi missionari nei villaggi più remoti si trova sempre qualcuno che sa l'italiano e questo è un bell'aiuto perché possiamo più facilmente entrare in contatto con loro e imparare la loro lingua. I Kunama ricordano con affetto gli italiani che li hanno molto aiutati. Erano attaccati da molti altri gruppi e rischiavano di sparire, ma gli italiani li hanno protetti, e ora il ricordo è bellissimo". Javier ora cosa farà? "Per ora torno in Messico, ma il mio sogno è tornare in Africa al più presto.

domenica 25 novembre 2007

La residenza nel Veneto negata a chi ha un reddito basso.

Siamo indignati di fronte all'iniziativa di un Sindaco veneto, che per concedere la residenza ai migranti mette un reddito minimo fissato da lui, come condizione. Chi non raggiunge quel reddito non può chiedere la residenza. Oggi nella "Veneto ricca" essere poveri è una colpa, peccato che i sindaci veneti hanno la memoria corta, si sono già dimenticati della povertà che li ha spinti in migliaia a lasciare la loro terra per cercare la fortuna altrove, nelle Americhe, in Australia, nel nord Europa. Erano poveri straccioni quando i veneti emigrarono. Troviamo assurdo che chi ha vissuto sulla propria pelle la povertà, oggi colpisca con provvedimenti discutibili chi ha un reddito basso, negandogli il diritto alla residenza nel territorio. Fa bene la magistratura ad intervenire, perché la povertà non può essere usata come fattore di esclusione da chi amministra un territorio. Questo è un atto di discriminazione da parte di un’istituzione come quella di un Sindaco. In nome della sicurezza non si possono ledere i diritti civili dei cittadini, giù la maschera di chi vuole discriminare gli immigrati nascondendosi dietro alle parole sicurezza e legalità. Anche i migranti vogliamo vivere nella legalità e nella sicurezza, ma sono consapevoli che ciò non si garantisce escludendo chi è nel bisogno, ma includendolo rendendolo partecipe della vita sociale, economica e culturale del territorio. Quindi diciamo NO a chi vuole fomentare discriminazioni e aumentare il divario tra ricchi e poveri. L'A.H.C.S Mussie Zerai

domenica 18 novembre 2007

Solidali con i Missionari espulsi dall'Eritrea!

Comunicato Stampa L'A.H.C.S condanna questo atto deprecabile del regime eritreo contro i missionari stranieri espulsi senza una reale ragione. Questo tentativo di bloccare le attività della chiesa cattolica, ricade sul popolo eritreo, perché questi missionari erano lì per sostenere, curare, istruire la popolazione del Paese. Le varie congregazioni presenti in Eritrea da sempre hanno contribuito allo sviluppo e al progresso del nostro Paese, quindi il regime espellendo loro commette un atto di grande inciviltà daneggiando la popolazione che per anni ha ricevuto aiuti dalle varie famiglie religiose alle quali appartengono gli 11 missionari espulsi. Siamo di fronte ad un regime allo sbando, non sa con chi prendersela, perché ormai la Chiesa Ortodossa è stata addomesticata, così anche le altre confessioni cristiane o mussulmane, l'unica che non sta al gioco è la Chiesa Cattolica, con questi atti il regime vuole intimidire la gerarchia ecclesiastica. Noi riteniamo queste ingerenze del regime negli affari religiosi un vergognoso e disperato tentativo per incamerare i beni ecclesiastici. Chiediamo alla comunità Europea di condannare quest'atto del regime eritreo e che venga sospeso ogni forma di aiuto al regime. Chiediamo alla comunità internazionale di porre fine alla questione irrisolta del confine conteso tra Eritrea ed Etiopia, che da sette anni ormai è l'alibi, che il regime eritreo usa per non rispettare ogni forma di libertà, di giustizia e di democrazia. Il Presidente dell'A.H.C.S

sabato 17 novembre 2007

Missionari espulsi dal regime Eritreo

Eritrea / Il rientro dei missionari 17/11/2007 Ostacoli al regime Sono giunti a Roma i religiosi cattolici “espulsi” dal regime eritreo, perché stranieri. Hanno raccontato di un paese allo stremo e di una Chiesa che non si vuole sottomettere ai diktat del presidente Isaias Afwerki, che la vorrebbe “nazionale”. Sono giunti a Roma i religiosi cattolici (nella foto) “espulsi” dal regime eritreo, perché stranieri. Hanno raccontato di un paese allo stremo e di una Chiesa che non si vuole sottomettere ai diktat del presidente Isaias Afwerki, che la vorrebbe “nazionale”. Sono arrivati alle 5 di stamani a Fiumicino. Erano in otto. Provenivano da Asmara. Sono missionari e missionarie espulsi dall’Eritrea del dittatore Isaias Afwerki. Dovevano essere in nove. Ma all’ultimo istante una suora americana è stata trattenuta dalle autorità locali nell’aeroporto eritreo, per gli ultimi intoppi “burocratici”. Sono i religiosi che hanno ricevuto, il 6 novembre, il benservito dal governo, che non ha rinnovato loro il permesso di soggiorno. Hanno ricevuto un visto d’uscita senza avere più la possibilità di un ritorno. La motivazione ufficiale è che la Chiesa cattolica è considerata una specie di ong. E come per tutte le organizzazioni non governative presenti in Eritrea, i membri non possono rimanere in quel paese per più di due anni. La realtà, come hanno raccontato gli stessi “espulsi”, è anche un’altra: si potrebbe trattare di una vera e propria ritorsione nei confronti dei cattolici, che rappresenterebbero un intralcio a un regime che di intoppi non ne vuole avere. Nella conferenza stampa, organizzata a Roma presso la casa generalizia dei comboniani all’Eur , i missionari allontanati hanno ripercorso le tappe di un rapporto incrinato. E di un paese allo stremo. Data fondamentale resta il primo novembre del 2006, quando i cinque vescovi dell’Eritrea (tra cui due “emeriti”) hanno detto no al governo che chiedeva la “militarizzazione” anche dei sacerdoti e dei religiosi. Nel paese del Corno i ragazzi e le ragazze, a partire dal diciottesimo anno di età, vengono reclutati. E se per le donne la leva è obbligatoria fino a 40 anni, gli uomini smettono la divisa a 60. Isaias avrebbe voluto che anche i sacerdoti e religiosi imbracciassero i fucili per difendere il patrio suolo. Il fermo no della Chiesa ha rotto i piani di un governo che ha già sottomesso la Chiesa ortodossa, di cui ha arrestato il patriarca Antonio, sostituito con un laico. E ogni domenica la subordinazione ortodossa arriva fino al punto che emissari governativi vanno nelle chiese del paese per portarsi via le elemosine dei fedeli. La Chiesa cattolica non è stata al gioco. Un’insubordinazione che ha irritato il regime che già da tempo aveva rispolverato il proclama 73 del 1995: la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici. Tutte le realtà cattoliche del paese sono state visitate da “esattori” del governo che hanno voluto fare l’inventario dei beni e delle proprietà ecclesiastiche. Lo scopo è evidente. Del resto, è apparso chiaro dai racconti dei religiosi tornati da Asmara che il regime, sempre più isolato internazionalmente, sta cercando di sopravvivere a una situazione economica disastrosa . I beni di prima necessità sono razionalizzati. Si può acquistare il pane con la tessera governativa ogni due giorni e spesso non in quantità sufficiente per sfamare famiglie numerose. Manca l’olio, lo zucchero, il caffè. Il blocco alle importazioni è catastrofico. E’ stata vietata, di fatto, l’attività commerciale, nazionalizzata pure quella. Le famiglie sono allo stremo: vedono i loro figli diventare militari o tentare una fuga disperata dal paese. E quella “diserzione” la pagano proprio i genitori, spesso arrestati e torturati. Per reggere una situazione economica al collasso, il regime gioca ancora la carta del pericolo etiopico e dei confini non rispettati. E l’appello lanciato agli organismi internazionali e ad Addis Abeba dai missionari, in particolare da suor Maria Angela Pagani, è stato proprio di far rispettare il verdetto della Commissione confini nel 2002, seguito agli accordi di Algeri del 2000 sulla fine del conflitto etiopico-eritreo. “Far rispettare quell’accordo”, ha ricordato suor Pagani “significa togliere l’alibi più forte a Isaias per mantenere soggiogato e militarizzato il suo paese”. E ora? I missionari hanno ricordato che la loro partenza forse metterà in difficoltà la Chiesa eritrea, “anche se sarà certamente in grado di reggere questo vuoto sostituendoci con i preti e religiosi locali”. Il compito degli “allontanati”, ora, sarà soprattutto quello di svegliare dal torpore una comunità internazionale che continua a chiudere gli occhi sull’Eritrea”. http://habeshia.blogspot.com

giovedì 8 novembre 2007

Italia: Accoglie 40 Eritrei provenienti dalla Libia

COMUNICATO STAMPA Agenzia Habeshia (A.H.C.S): La vera soluzione per i richiedenti asilo politico, è un programma di RESETTLMENT. Chiediamo la libertà per gli Eritrei attualmente nelle carceri libiche, e il rispetto dei diritti Umani e Civili, di questi ultimi, in Libia. Dopo mesi di denunce sulle condizioni di degrado in cui versano centinaia di eritrei nei centri di detenzione in Libia, abbiamo fatto nostro l’appello lanciato dall’UNHCR, affinché i paesi ricchi accolgano un gruppo di rifugiati. Oggi il primo passo concreto dell’Italia con l’arrivo delle prime 40 persone, di cui 5 uomini, 34 donne, e un neonato, tutti cittadini Eritrei già riconosciuti dall’UNHCR rifugiati. Questo grazie ad un programma di resettlment attuato in collaborazione con il Ministero degli Interni, la Provincia di Rieti, il Comune di Cantalice, il Consiglio Italiano per Rifugiati, e l’O.I.M. Ringraziamo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che ha sollecitato il Ministero degli interni italiano. Ringraziamo il Ministro Giuliano Amato, per la disponibilità data per l’accoglienza di una quarantina di cittadini Eritrei. Siamo riconoscenti per l’impegno profuso dal C.I.R, e dalla Provincia di Rieti e al Comune di Cantalice per l’accoglienza dei rifugiati eritrei. Riteniamo questo solo un primo passo verso un serio programma di resettlment annuale, perché pensiamo che questo sia uno strumento per la lotta all’immigrazione clandestina. Auspichiamo che l’Italia si faccia portavoce in Europa, spingendo in questa direzione affinché si trovino soluzioni concrete ai tanti richiedenti asilo politico che affollano le carceri libiche. Serve un ingresso legale e protetto per questi ultimi, per evitare che si sentano costretti ad affidarsi a trafficanti di carne umana, con tutto quello che ne consegue. Speriamo da qui a breve di non sentire più storie di naufragi e di barconi carichi di immigrati. L’ingresso legale di questi 40 rifugiati è una grande speranza per tanti altri. Tutto questo oggi è stato possibile grazie ad una volontà politica e a un investimento in termini economici e di risorse umane; ciò ha fatto si che si realizzasse il sogno di questi 40 rifugiati eritrei. Altre centinaia di persone nella stessa condizione sono in attesa che qualche altra nazione europea o l’Italia stessa si faccia avanti, per avviare o proseguire un programma di resettlment dalla Libia verso l’Europa. Denunciamo ancora una volta, la situazione di migliaia di cittadini eritrei richiedenti asilo politico e rifugiati politici, già riconosciuti tali dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che attualmente sono nelle carceri Sudanesi o Libiche, come quello di Zawiyah di cui abbiamo una viva testimonianza "Siamo in 500 immigrati di cui 103 eritrei 3 dei quali minorenni. Siamo continuamente maltrattati dalle guardie carcerarie libiche, il 01.09.2007 tutti noi eritrei siamo stati spogliati e picchiati con fruste, bastoni, e addirittura calci negli organi genitali, tutto questo davanti alle donne, e per lo più senza ragione. Il 22.10.2007 tre eritrei sono stati picchiati dalle guardie sulle piante dei piedi, al punto che non si reggevano più in piedi." Dal racconto drammatico dei detenuti emerge ancora " Siamo stati lasciati per 3-4 mesi senza un abito di ricambio e tuttora non abbiamo nulla per cambiarci, non abbiamo possibilità di fare il bucato perché non manca il sapone, la puzza è insopportabile" e anche "10 persone a causa della sporcizia hanno il corpo pieno di piaghe, e ci stanno contagiando tutti, in 4 mesi non abbiamo mai avuto possibilità di vedere un medico, per tre mesi non abbiamo visto la luce del sole. Siamo scalzi non abbiamo scarpe né coperte per difenderci dal freddo… siamo ammassati in una stanza in più di 50 persone e in totale assenza d’igiene" sono in condizione igieniche sanitarie vergognose. Sono anche vittime di discriminazione religiose "Qualche giorno fa stavamo pregando, sono arrivate le guardie ci hanno malmenato chiamandoci giudei" è questa la Libia ormai partner dell’Europa e membro del consiglio di sicurezza dell’ONU. Misratah, 250 km a est di Tripoli, più di 624 eritrei di cui 60 bambini al di sotto dei 12 anni e perfino alcuni che stanno per nascere. E’ preoccupante lo stato di salute dei detenuti, la diffusione delle malattie polmonari come TBC, oltre a scabbia e dermatiti, attacchi asmatici, problemi intestinali, in oltre denunciamo la carenza di cibo, acqua e coperte. Chiediamo all’UE e all’ONU che pretendano dalla Libia il rispetto dei diritti Umani e la firma delle convenzioni internazionali sui diritti dell’Uomo. Siamo esterrefatti dal fatto che la Libia oggi faccia parte del consiglio di sicurezza delle nazioni unite. Come è possibile che uno stato come la Libia, che non ha mai aderito a nessuna convenzione internazionale in materia di rispetto dei diritti civili ed umani, oggi si sieda nel consiglio di sicurezza delle nazioni unite? Chiediamo che si pretenda la firma delle varie convenzioni a partire dalla convenzione di Ginevra del 1951 con le relative ratifiche e la dichiarazione universale su diritto dell’Uomo. L’A.H.C.S & A.H.E.I chiedono il sostegno e collaborazione di tutti per destare l’attenzione dell’opinione pubblica e quella istituzionale su questo dramma che sta vivendo il popolo Eritreo in Libia. Per tanto invitiamo tutti gli organi di stampa a dare voce a questa richesta delle comunità di Eritrei in Italia, che chiedono al governo Italiano di farsi carico di questa situazione nelle sedi UE, ONU. Per ulteriori informazioni: UFFICIO STAMPA A.H.C.S Tel/Fax 06. 69610234 Cell.3384424202 E-mail: agenzia_habeshia@ yahoo.it http://habeshia. blogspot. com

giovedì 1 novembre 2007

Libia: esclusiva intervista con i rifugiati detenuti a Zawiyah

Libia: esclusiva intervista con i rifugiati detenuti a Zawiyah ROMA, 31 ottobre 2007 - "Non vediamo la luce del sole da mesi.. Siamo stati portati fuori, spogliati nudi e picchiati". Inizia così l'intervista a uno dei 500 migranti detenuti nel centro di detenzione di Zawiyah. Un documento esclusivo - prodotto da Fortress Europe, Agenzia Habeshia e Radio Parole - che documenta le condizioni degradanti in cui decine di migliaia di migranti e rifugiati sono arrestati e detenuti in Libia. Il loro reato? Essere candidati all'immigrazione clandestina verso la Sicilia. ASCOLTA L'INTERVISTA

Libia:Intervista di un detenuto nel carcere di Zawiyah