martedì 3 giugno 2008

La riscoperta degli ascari eritrei

La riscoperta degli ascari eritrei di Angelo Del Boca Dopo un silenzio durato più di sessant’anni, gli italiani hanno riscoperto gli ascari eritrei, i più coraggiosi e fedeli tra i sudditi coloniali. Ha dato il via una mostra di fotografie e di cimeli a Roma. Il tema è stato poi ripreso da quotidiani e da settimanali, mentre il governo della Repubblica decideva di erogare, alle poche decine di ascari superstiti, anziché la pensione mensile, una sorta di liquidazione. Alessandro Volterra, uno studioso che da dieci anni si occupa dell’Eritrea, in particolare dell’impatto delle strutture amministrative e giudiziarie italiane sulla società indigena, ha dedicato infine un libro all’argomento dal titolo Sudditi coloniali. Ascari eritrei 1935-1941 (Franco Angeli, Milano 2005, pp. 240) con una prefazione di Luigi Goglia. Anche il lungo silenzio sul contributo determinante degli ascari nelle guerre coloniali e nella difesa dell’impero dell’AOI fa parte della totale rimozione di quel periodo storico. Eppure le cifre parlano chiaro. Si prenda, ad esempio, la battaglia di Cheren, che lo stesso Churchill annovera fra le più difficili e sanguinose dell’intera seconda guerra mondiale. Le perdite degli italo-eritrei, in 56 giorni di combattimenti, ammontano a 12.147 morti e a 21.700 feriti, ma il contributo di sangue degli eritrei supera di gran lunga quello degli italiani. Si pensi che il solo 4° battaglione Toselli perde, in meno di un’ora, sulla sommità del Falestoh, 12 ufficiali e circa 500 fra graduati ed ascari. Eppure la propaganda britannica aveva usato tutti i mezzi per scoraggiare gli indigeni e per farli disertare. In un volantino lanciato dagli aerei, in 80 mila esemplari, sulle difese di Cheren si poteva leggere : «Il nostro vile nemico italiano vi deruba della vostra fertile terra e vi impedisce di allevare il bestiame. Esso stermina i vostri giovani nelle sue interminabili guerre. Voi pagate agli italiani un alto tributo di sangue ed essi, in compenso, vi insultano chiamandovi carne venduta. Attraversate le linee prima che inizi il terribile assalto finale». Soltanto 1.500 ascari accoglieranno l’invito a disertare, ma la maggioranza di essi non erano eritrei, ma amhara e tigrini. Come spiegare questa fedeltà alla bandiera italiana mantenuta sino all’estremo quando ormai era chiaro che l’Italia avrebbe perso il suo impero coloniale sotto l’urto degli eserciti britannici? Alessandro Volterra, che ha condotto una preziosa ricerca sul campo intervistando 26 ex ascari, affaccia questa ipotesi: «Molti ascari, ancora oggi, percepiscono la loro come una partecipazione attiva e collettiva all’edificazione dell’AOI. […] Emerge dalle interviste che molti, probabilmente la maggioranza, degli ascari vedevano il Governo italiano come il “loro” Governo e che quello bisognava servire. Soltanto con l’occupazione britannica e la prospettiva di una federazione con l’Etiopia si cominciarono ad affacciare i primi dubbi e le prime riflessioni» Dichiara, infatti, uno degli intervistati, Ghebregherghis Enrabie Tesfa: «Eravamo giovani, eravamo soldati, non avevamo studiato, e non davamo peso alle leggi razziali. Per noi il Governo italiano era tutto. Pensavamo di essere una parte del Governo italiano. Noi ci sentivamo parte dell’Italia, non conoscevamo altro». C’erano, ovviamente, altre motivazioni che spingevano i giovani eritrei ad arruolarsi: per cominciare la paga, modesta ma sicura; il prestigio sociale; il sentirsi partecipi di eventi di una grande rilevanza. Si pensi, soltanto, che l’intero peso della riconquista della Libia, tra il 1920 e il 1932, gravò sui battaglioni di ascari eritrei. Il colonnello Antonio Miani, che con un pugno di ascari aveva conquistato il Fezzan, attribuiva la catastrofe di Gars bu Hadi e la perdita di quasi tutta la Tripolitania nel 1915, al fatto che il ministro delle Colonie Martini gli aveva negato l’invio di altri battaglioni dall’Eritrea. Tanto sangue in cambio di poco, quasi di nulla. «Noi eravamo sempre davanti - ha dichiarato a Volterra Isaac Hagos Godofa - e i soldati italiani arrivavano sempre quando il terreno era libero». Accadde a Mai Ceu, alla conquista di Gondar e della stessa Addis Abeba. Gli ascari erano sempre in testa ai reparti nazionali, spesso marciando a piedi nudi. «Noi combattevamo senza scarpe - ha raccontato Tekeste Tewuoldeberhan Ghebremariam - ci arrangiavamo con quelle portate da casa o quelle tolte ai morti, ma ci davano soltanto i vestiti, quelli kaki, e le scarpe le davano ai graduati, ma a noi no». Ma ciò che umiliava maggiormente gli ascari eritrei, ancor più delle punizioni a base di «curbash» (da 20 a 70 frustate a seconda dei reati), era la legislazione razzista, che separava drasticamente gli italiani dagli indigeni nei cinema, nei bar, sugli autobus, in tutti gli uffici pubblici. Il centro di Asmara, ad esempio, era precluso agli eritrei e veniva chiamato dagli italiani «campo cintato». La separazione era totale. Ha dichiarato Berhane Ghebregherghis: «Anche noi ascari eravamo separati dai soldati italiani. Loro bevevano con il bicchiere e noi con un recipiente di metallo, la “cubaja”». E Tesfamichael Beyu ha aggiunto: «I fascisti di Mussolini erano cattivi e ci dicevano “sporchi negri”. Invece nel combattimento ci dicevano siete bravi. Alcuni ufficiali erano bravi, ci davano coraggio e combattevano al nostro fianco, alcuni invece non erano assolutamente bravi». Nel solo periodo preso in esame da Alessandro Volterra, tra il 1935 e il 1941, hanno combattuto per la bandiera italiana da un minimo di 55 mila ad un massimo di 70 mila ascari eritrei. Nessuno ha mai tentato di quantificare le perdite subite dagli indigeni. Ai superstiti, infine, è stata accordata una pensione ridicola, quasi un’elemosina. Del resto che cosa potevano pretendere degli analfabeti, usati soltanto come carne da cannone? «Portare gli indigeni a livello degli europei - aveva sentenziato nel 1938 Andrea Festa, il direttore di tutte le scuole dell’Eritrea - creerebbe soltanto degli spostati e degli ambiziosi».

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