mercoledì 4 febbraio 2009

Nella 'Guantanamo' libica, dove finiscono gli immigrati fermati

TRIPOLI - La porta di ferro e' chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di un egiziano. L'odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull'altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall'Italia e dall'Unione europea. I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: "Aiutateci!". Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C'e' scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso e' quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che e' ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica e' impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l'Italia siglo' con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell'immigrazione, e spedi' oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare questi centri. "La gente soffre! Il cibo e' pessimo, l'acqua e' sporca. Ci sono donne malate e altre incinte". Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l'arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora, lui nel frattempo e' stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha piu' notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti dai nuovi gendarmi della frontiera italiana. All'Europa invece aveva pensato Y.. C'aveva pensato e come. Disertore dell'esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due mesi fa per Lampedusa. Ma e' stato fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno e' rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d'arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all'orecchio. Lui fa cenno di si' col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde "Everything is good". Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli puo' costare un pestaggio. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sara' deportato. Nel giro di qualche settimana sara' trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono concentrati i prigionieri di nazionalita' eritrea. (gdg)(Dires - Redattore Sociale) 4 febbraio 2009

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