mercoledì 4 febbraio 2009

Non fa più rumore l’assedio eritreo di Gibuti?

di Simone Petrelli * E’ una guerra in piena regola. Anche se nessuno sembra vederla. Con gli eritrei penetrati in Gibuti sin dalla scorsa estate, una striscia di terreno larga chilometri occupata e l'esercito locale forzato a mobilitare in tutta fretta due terzi dei suoi effettivi, non può che trattarsi di guerra. L'Onu a forza di risoluzioni chiede al governo eritreo di ritirare i suoi uomini, ma Asmara non ci sta. Rivendica per sé un territorio che, per quanto arido e misero, non va ceduto. E il Corno d'Africa non è mai stato così bollente. Soldati gibutini stazionano lungo il fronte, a Ras Doumeira, e nei pressi dell'isola di Doumeria. Una zona strategica alle porte del Mar Rosso. Tutta terra di Gibuti, ora occupata dall’Eritrea. Eppure, il governo di Asmara non ritiene di essere in guerra. Né di aver invaso un altro Paese. E’ per questo che non rispetterà l’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu: una deadline, quella lanciata dai caschi blu, che dà all'esercito eritreo cinque settimane per ritirarsi. E che è come se non fosse mai esistita. Perché il governo non può accettare una risoluzione che chieda all'esercito di ritirarsi da un suo territorio. Asmara non è la città degli sciocchi. Hanno preso la palla al balzo, loro, perché un appiglio concreto ce l’hanno. La frontiera tra i due Paesi non è mai stata delimitata in maniera precisa. E c’è il fantasma di un affidamento antico, basato su vaghi trattati coloniali siglati da Francia ed Etiopia nel 1897. C’è perfino una pergamena datata 1901, stipulata con l'Italia. Ma nessuno si stupisce. Perché gli attriti qui non sono una novità. A metà anni Novanta il contenzioso aveva già provocato frizioni. Così, ad aprile l'Eritrea si è presa Ras Doumeira. Finendo per scontrarsi con l'esercito gibutino solo tre mesi dopo. E’ stato l'unico episodio di resistenza armata degno di questo nome. Finito con nove vittime tra i gibutini, mentre il bilancio da parte eritrea non è mai stato ufficializzato. Pur potendo contare su un trattato che vincola Parigi all’assistenza militare. Nonostante il territorio pulluli dei mille uomini in divisa di FFDJ, e dei consiglieri che affiancano parecchie figure dell’amministrazione. Nonostante con Enduring Freedom siano arrivati i soldati americani ed i marinai tedeschi contro la pirateria. Gibuti preferisce tirare il fiato. E tenere un profilo basso, bassissimo, appellandosi alla comunità internazionale ed evitando qualsiasi altro scontro. Non si combatte, a Gibuti, ma si paga. Questa situazione ha un costo per tutti. Un costo che il minuscolo porto franco venuto su col sogno di replicare il sogno di Dubai (quello di un solido punto di riferimento per tutto il continente) deve ora pagare. 30 milioni di dollari in sei mesi. Non ci sono risorse naturali, e il primario e il secondario sono marginali. Tutte le risorse sono puntate sul terziario, sui trasporti. Porto, Nuovo Porto di Doralé ed Aeroporto Internazionale sono i fulcri attorno ai quali ruota l’economia: infrastrutture sorte in fretta, soprattutto grazie ad ingenti investimenti dall’estero: Francia, Usa, Paesi arabi. Gibuti è uno staterello con 700.000 abitanti. Soprattutto, è un Paese che ritiene di stare pagando anche per un altro contenzioso di confine: la guerra tra Eritrea ed Etiopia che dal 1998 ha fatto 70.000 morti.

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