martedì 12 maggio 2009

Diritti umani e sicurezza

di ANTONIO CASSESE Alla base del respingimento in alto mare di centinaia di migranti clandestini vi è un grave scontro tra interessi nazionali e valori della comunità internazionale. L'immigrazione clandestina è certo un problema molto serio, soprattutto ora che essa aumenta a ritmi vertiginosi. Spesso i clandestini non hanno documenti, e quindi è difficile identificarne la nazionalità; tra essi si nascondono criminali; soprattutto, i flussi migratori, aumentando rapidamente, incidono seriamente sul nostro mercato del lavoro. Tuttavia, respingendo centinaia di clandestini verso la Libia, si viola un principio essenziale della comunità internazionale, un principio di solidarietà consacrato nell'Articolo 33 della Convenzione sui rifugiati del 1951: che impone ad ogni Stato contraente di non espellere o respingere un rifugiato verso territori in cui "la sua vita e la sua libertà possono essere minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o opinione politica". Dopo il 1951 questo principio si è esteso a tutti gli immigranti, anche a coloro che non hanno ancora lo status di rifugiato ma intendono acquisirlo o chiedere asilo politico. Anche se tra le centinaia di clandestini che il ministro Maroni ha fatto rinviare in Libia vi erano solo 30 o 40 perseguitati politici o cittadini di paesi profondamente autoritari, essi avevano diritto di ingresso in Italia, perché venisse accertato e riconosciuto il loro status. L'azione italiana, facendo prevalere interessi di sicurezza ed economico-politici nazionali sull'obbligo internazionale di rispettare i diritti umani, si è posta in conflitto con quei diritti. Ma il problema è serio, e non ci si può limitare a criticare il Governo perché adotta misure di corto respiro e contrarie a valori internazionali. E' evidente che bisogna porre mano a soluzioni destinate nel lungo periodo a ridurre e controllare i flussi migratori, in armonia però con le norme internazionali che siamo tenuti a rispettare. Penso a due direttrici di azione. Anzitutto, si potrebbe chiedere alla Libia di consentire a nostri funzionari di assistere le autorità libiche nell'identificare i migranti che abbiamo respinto e respingiamo verso la Libia. Insieme potrebbero accertare se tra essi si trovano persone che hanno diritto allo status di rifugiato (perché sono perseguitate, o temono di essere perseguitate, nei loro paesi di origine, per ragioni politiche, razziali, religiose, ecc.) o che hanno diritto all'asilo politico previsto dall'Articolo 10 della nostra Costituzione (che lo concede a chi non può godere in patria delle libertà democratiche che noi garantiamo in Italia). In tal modo si potrebbe salvaguardare l'interesse a non far entrare nel nostro territorio valanghe di clandestini, assicurando però il rispetto dei diritti di cui alcuni di essi devono godere. Un'altra misura si avvarrebbe del concorso dell'Europa e si basa sul concetto che è bene che gli altri paesi dell'Unione europea facciano la loro parte (concetto su cui ha giustamente insistito Maroni qualche settimana fa). Esiste dal 2004, con sede a Varsavia, un agenzia dell'Unione, chiamata Frontex, che si occupa della "gestione delle frontiere esterne". Ebbene, quest'agenzia potrebbe aiutare le nostre autorità sia a pattugliare le coste, sia ad identificare gli immigrati e a facilitare il rimpatrio dei clandestini che non hanno diritto allo status di rifugiato o il diritto di asilo. Queste ed altre misure di ampio respiro potrebbero forse prevenire ulteriori lesioni di importanti valori internazionali. (12 maggio 2009)

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