mercoledì 6 maggio 2009

Viaggio in Eritrea, nelle acque dei pirati

Terza puntata del reportage di Laura Guglielmi. Una traversata in mare aperto e qualche pernottamento sulle isole, tra bunker e ordigni bellici Ora sì che è arrivato il momento: siamo su un molo del porto di Massawa e sta per arrivare a prenderci il sambuco che ci porterà in giro per un’intera settimana nell’arcipelago delle isole Dalak. Siamo vicini al golfo di Aden dove i pirati somali in questi giorni stanno imperversando, domenica hanno perfino cercato di attaccare una nave da crociera e sono stati respinti. Eccolo, sta arrivando il sambuco, un’imbarcazione un po’ malbecciata, come dicono i genovesi. A prima vista direi che non dovrebbe far gola ai pirati, è tutta di legno, graziosa ma vecchia. È già tanto se non affonda. Assomiglia un po’ alle carrette del mare che attraversano il Mediterraneo con i clandestini a bordo. Ora la mia paura di essere rapita dai pirati si sta trasformando nella paura di affondare. Poco fuori da Massawa una nave italiana affondata nella Seconda Guerra Mondiale, una carcassa arrugginita che sorveglia il porto da più di sessant’anni. L’Eritrea è stata la prima colonia del nostro Paese, tracce evidenti nell’architettura della capitale. I vecchi parlano ancora la nostra lingua. Accidenti, mi avevano detto che il Mar Rosso è liscio come l’olio, invece questa barca balla come una danzatrice alle prime armi. Mi viene la nausea, ma presto sono attratta dai cinque eritrei che compongono l’equipaggio, persone gentili, non parlano mai ad alta voce, tra di loro sussurrano. Siamo nove italiani, un’argentina e cinque eritrei di equipaggio. Si sta stretti in quindici su questo sambuco, ma gli altri viaggiatori, tutti amici tra loro ed affiatati, sanno vivere la vita di gruppo. Non sono certo vacanze comode, eppure nessuno si lamenta, niente liti, tutti sanno adattarsi alle circostanze. Unico neo, i maschi sono sempre lì a rubare la vita ai pesci, pescano come dei forsennati, molto di più di quello di cui abbiamo bisogno per sostentarci. È straziante vedere i pesci boccheggiare e morire assetati con l’arpione nella pancia. Se arrivano i pirati possiamo sempre dar loro come riscatto tutto questo pesce che invade la prua. Le isole non sono le più belle del mondo come dice la guida, ma sono belle comunque. Molte di loro sono piccole lingue di sabbia con qualche arbusto. Strisce di terra che non vengono mai disturbate dagli umani, gli unici esseri viventi veramente pericolosi per il pianeta. Si contano sulle dita di una mano le persone che le calpestano. Sembra di essere in una altra dimensione. Gli altri stanno esplorando la barriera, coralli e pesci di tutti i colori, io sono qui sola, in compagnia di stormi di uccelli, il sambuco ancorato dall’altra parte dell’isola. Non vedo nessuno. Solo mare aperto. Sono sola al mondo. La sera approdiamo su un’altra isola deserta, l’equipaggio monta le nostre tende, io dormo sola. Cuciniamo il pesce alla brace, poi tutti nel sacco a pelo appena fa buio. È il momento più intenso della giornata, con la luna tonda che invade il cielo. Stanno già dormendo tutti, alcuni russano, io coccolo la mia insonnia, fissando nella mente le emozioni della giornata. Ogni sera un’isola diversa dove dormire. È la terza notte, abbiamo appena montato la tenda e cominciamo ad esplorare il territorio prima di mangiare. A pochi metri dalla mia dimora notturna scopro una bomba inesplosa. Mi viene un colpo. Gli altri sono tutti tranquilli. Mi dicono che è un’ogiva di proiettile di mortaio. Di non girarci attorno. Su tutta l’isola residuati bellici della recente guerra d’indipendenza contro l’Etiopia. Sull’altopiano vicino alla spiaggia dove ci siamo accampati, mitragliatrici arrugginite, bunker, proiettili ovunque, barili di petrolio cementati che servono da trincea. Guido trova un’altra ogiva in un bunker alla fine della spiaggia. Sono pericolose? Nessuno sa dirlo e i nostri amici eritrei non ci fanno tanto caso, ci sono abituati. Magari ce n’è un’altra sotto alla sabbia proprio dove abbiamo montato le tende. Notte insonne senza muovermi di un centimetro all’interno del sacco a pelo. Ormai i pirati sono l’ultima delle mie preoccupazioni. Sopravviviamo e la notte seguente, dopo aver scorazzato tra le barriere coralline tutto il giorno, sbarchiamo su un’altra isola. A duecento metri dal nostro accampamento vedo un party improvvisato di una decina di persone, tutti bianchi e turisti. Barche a vela e catamarani, ancorati lì vicino. Devo assolutamente farmi i fatti loro, capire chi sono e perché sono lì. Mi incammino e li raggiungo. Si sono dati appuntamento via radio per conoscersi. Stanno tutti risalendo il mar Rosso fino al canale di Suez. Ognuno ha portato qualcosa da bere e da mangiare. Comincio a chiacchierare con una coppia di spagnoli, sono in viaggio da cinque anni, un viaggio intorno al mondo. Hanno un golden retriever che hanno adottato in Thailandia. Un’altra coppia, sono neozelandesi, si è imbarcata due anni fa. Ci sono anche persone anziane, individui che non sono fatti per stare con i piedi per terra, e per farsi intrappolare dalle imposizioni della società. E scelgono di trascorrere interi anni fuori dalle regole. La sera intorno al fuoco mi metto a far combriccola con gli eritrei. Mi chiedono cosa ne penso di loro. Gli rispondo che sono come gli svedesi, silenziosi e gentili, molto diversi dai senegalesi, rumorosi e invadenti, con cui ho convissuto nello stesso condominio del centro storico di Genova. Davvero? Mi chiedono stupiti. E molto più discreti degli italiani, aggiungo. Infatti quando siamo a bordo del sambuco la loro presenza non si percepisce neanche. Il turismo non ha stravolto gli equilibri, in pochi vengono a fare le vacanze in Eritrea: guerriglia ai confini con l’Etiopia e con il Sudan. Gli eritrei stessi per muoversi da una città all’altra hanno bisogno di un permesso governativo. Per fortuna che non mi sono fatta spaventare, e che ora sono qui, a godermi questo angolo del pianeta incontaminato e popolato da gente ospitale. Tanti sono i posti del mondo che sembrano pericolosi per il viaggiatore ed è proprio lì che bisogna andare. La gente non è corrotta dal denaro e non ti rivolge la parola solo per spillarti qualche euro. I viaggi sono l’unico lusso che mi concedo: fra breve andrò in Libano.

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