venerdì 26 giugno 2009

Orizzonti: Una preghiera per chi è «morto di speranza»

A Santa Maria in Trastevere la celebrazione, presieduta dall'arcivescovo Vegliò, per ricordare i migranti vittime dei viaggi verso l'Europa: 375 solo nei primi quattro mesi del 2009 di Massimo Camussi Circolo S. Pietro, Messa del cardinale Bertone Adam sopra i jeans indossa la jallabia, l'elegante tunica diffusa nel suo Paese d'origine, il Sudan, come in tutto il mondo arabo. Sorride e saluta amici italiani e stranieri: la sua cordialità trasmette gioia di vivere e fiducia nel futuro. «Io mi sento fortunato - dice -; cinque anni fa, quando dall'Africa sono arrivato in Italia, ho subito trovato persone disposte ad accogliermi ed aiutarmi». Adam ha 29 anni e viene dal Darfur, regione che da circa un quarto di secolo è teatro di feroci conflitti interetnici per il controllo delle risorse naturali. «I paramilitari avevano distrutto le nostre case, disperso e perseguitato la mia famiglia. Così sono dovuto scappare. Non avevo né documenti, né una meta precisa. Ho camminato per sette giorni nel deserto, altri sette li ho passati a bordo di un camion scoperto, prima di arrivare in Libia. Da lì, insieme ad altre 172 persone, abbiamo provato ad attraversare il mare a bordo di un piccolo battello. Quattro giorni dopo, stremati e assetati, siamo stati portati a terra dalla Guardia Costiera italiana». Ieri sera, con un gesto simbolico, Adam ha reso omaggio a chi invece non ce l'ha fatta, ed è morto nel tragitto verso quel sogno chiamato Occidente. Insieme ad altri migranti e rifugiati politici provenienti dall'Asia, dall'Africa e dal Sud America ha portato di fronte all'altare della basilica di Santa Maria in Trastevere una candela accesa, simbolo di una vita spezzata. Come quelle di Alì, Abdou e Ayoub, tre ragazzi irakeni tra i 21 e i 25 anni, trovati morti nella cella frigorifera di un tir alle porte di Trieste il 14 luglio 2007, o come Arif e Myat, due giovani pakistani soffocati in un camion diretto in Gran Bretagna. La processione delle luci, scandita dai nomi delle vittime e dal canto corale del Kyrie, è stato senza dubbio uno dei momenti più suggestivi della preghiera ecumenica “Morire di speranza. In memoria delle vittime dei viaggi verso l'Europa”, promossa ieri, in occasione della Giornata Mondiale dei Rifugiati, dalla Comunità di Sant'Egidio, dall'Associazione Centro Astalli, Caritas Italiana, Fondazione Migrantes, Federazione Chiese Evangeliche in Italia e Acli. Una liturgia interconfessionale alla quale hanno partecipato, tra gli altri, rappresentanti delle chiese valdesi, ortodosse, luterane, greco-cattoliche. «Le persone che accogliamo - spiega Daniela Pompei, della Comunità di Sant'Egidio - ci parlano dei loro amici e parenti perduti. Ecco perché una volta l'anno rinnoviamo questo appuntamento: custodiamo così uno spazio necessario di umanità e spiritualità, nell'incontro fraterno tra le diverse fedi, ricordando nella preghiera i nomi e le storie di chi è morto, perché non siano solo un numero nella massa». L'intera cerimonia, ricca di musiche e ritmi tradizionali africani, è stata presieduta dall'arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti. «Quante speranze, quante ansie, quanti drammi dolorosi - ha ribadito monsignor Vegliò nella sua omelia -! Nel nostro mondo se ne parla poco. Sembra che tanti non vogliano vedere per compatire, per accogliere chi ha tanto rischiato e sofferto per approdare a questa sponda». Eppure i dati statistici descrivono un dramma difficile da ignorare: 642 tra morti e dispersi nei viaggi verso l'Italia nel 2008; 375 solo nei primi quattro mesi del 2009; 14.357 le vittime accertate tra il 1990 e il 2009 durante le traversate verso l'intera Europa. «Possa arrivare a chi si trova in viaggio, sperando di poter cominciare una vita nuova altrove - esorta l'arcivescovo, citando la tempesta placata da Cristo, nel Vangelo di Marco - la bonaccia di una accoglienza calorosa su una sponda nuova». E infine, con l'aiuto dell'immagine sacra distribuita ai presenti alla fine della celebrazione, monsignor Vegliò rinnova l'impegno comune nella preghiera: «Come l'Arca salvò la vita di Noè durante il diluvio, così noi pregheremo affinché i numerosi uomini e donne che ora stanno viaggiando per terra e per mare, per fuggire dalla tempesta in cui si sono trovati, possano essere accolti e non respinti nei paesi in cui regna la pace, vige la libertà, abbonda il pane per tutti». 26 giugno 2009

Riccardi: «Così i fascisti trucidarono i cristiani» 18 giugno 2009

Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, storico, ricorda che il fascismo trucidò «centinaia di monaci, cantori, giovani, diaconi» nel corso dell’esperienza coloniale in Etiopia. «Non si deve dimenticare che questa Chiesa ha conosciuto numerosi nuovi martiri, martiri del Novecento, prima di tutto durante l’occupazione fascista», ha detto Riccardi introducendo stamane il convegno “Etiopia: un cristianesimo africano” a Roma. «Mi sono recato al grande monastero di Debra Libanos, uno dei cuori di questa Chiesa monastica e di popolo. Di fronte al monastero - ha proseguito Riccardi - un tumulo ricorda le centinaia di monaci, cantori, giovani, diaconi, trucidati. Il maresciallo Graziani eseguì con durezza il terribile ordine ricevuto da Mussolini: “Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi”». All’incontro è intervenuto, tra gli altri, il patriarca della chiesa ortodossa in Etiopia Abuna Paulos, ricevuto più tardi dal Papa in Vaticano. «Sua Santità - ha detto Riccardi - rappresenta, con la sua stessa persona, una parte importante di questa storia. Giovane ha conosciuta la violenza dell’occupazione italiana e fascista, che ha duramente colpito lo Stato etiopico e la Chiesa ortodossa Tewahido».

PILLOLE DI ‘900. «ITALIA, IN PIEDI!»

L’Italia fascista si lancia nelle conquiste coloniali e va all’attacco dell’Etiopia. La Società delle Nazioni, distratta da Hitler, lascia correre, mentre la Chiesa appoggia l’atto di guerra. Di Ciro Raia Il 1935 è segnato dalle operazioni che portano alla conquista dell’Etiopia. Le truppe italiane in Eritrea, al comando del generale Emilio De Bono, sferrano l’attacco al negus Hailè Selassiè. Dopo mesi di preparazione, il regime fascista trova l’occasione per la sua avventura internazionale. Nonostante l’Italia abbia firmato, infatti, nel 1928, un trattato d’amicizia e di non aggressione con l’imperatore Selassiè, il capo dell’esecutivo italiano, prendendo a pretesto un futile motivo, ordina l’occupazione della terra etiope: "Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta l’Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari! Ascoltate!.. Abbiamo pazientato 40 anni! Ora basta!..Italia proletaria e fascista, Italia di Vittorio Veneto e della Rivoluzione, in piedi!". Le potenze europee, in verità, sono più preoccupate, però, dalla politica di Hitler che da quella di Mussolini e non tengono conto della richiesta di tutela, che l’Etiopia ha inoltrato alla Società delle Nazioni. A nulla vale, quindi, l’accertamento che a provocare gli scontri di Ual Ual -località in cui 1500 soldati abissini assaltarono 200 soldati italiani- siano state bande di irregolari. L’Italia battezza così, ufficialmente, la sua spedizione militare contro l’Etiopia. Anche la Chiesa appoggia la conquista coloniale. L’arcivescovo di Genova, il cardinale Mario Giardina, firma un manifesto in cui invita la popolazione ed i cattolici a sostenere i valorosi soldati italiani, chiamati a compiere il loro dovere sul suolo africano. Il cardinale di Milano, Ildefonso Schuster, benedice i soldati italiani in Africa ed invia un pensiero grato all’esercito fascista, che si sta battendo per portare la luce della civiltà in Etiopia. La guerra coloniale provoca il blocco delle esportazioni nel nostro paese, le cosiddette sanzioni economiche, da parte della Società delle Nazioni. La decisione, però, invece di danneggiare il regime fascista, lo rende più forte ed unito. Nomi illustri della politica e della cultura (Luigi Albertini, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Arturo Labriola), prima critici nei confronti del fascismo, dichiarano ora il loro appoggio al governo. E Mussolini sfrutta l’embargo, per richiamare il popolo a reagire alla decisione della Società delle Nazioni. "Date oro alla patria", chiede il Duce. Le fede nuziali, i gioielli, le auree capsule dentarie sono fusi per aiutare la patria. L’Italia deve bastare a se stessa: è autarchia! Si rilancia l’industria, migliora l’economia. La crisi sembra esser lontana. Un manifesto pubblicizza un soldato, che scrive sul muro: "Fate fondere le nostre brande. Il soldato italiano sa dormire per terra!". Per le strade, intanto, non si ascolta che il ritornello di una canzone: "Faccetta nera,/ bella Abissina,/ aspetta e spera che già l’ora si avvicina!/ quando saremo insieme a te,/ noi ti daremo un’altra legge e un altro re". http://www.ilmediano.it/aspx/visArticolo.aspx?id=6070

Santa Sede: le disparità economiche, causa delle nuove schiavitù

L'Arcivescovo Marchetto interviene a un convegno a Roma ROMA, mercoledì, 24 giugno 2009 (ZENIT).- Il drammatico fenomeno delle nuove schiavitù, purtroppo in costante espansione, ha origine nelle disparità economiche tra Paesi diversi e all'interno di uno stesso Stato. Lo ha affermato l'Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, intervenendo venerdì 19 Giugno a Roma al Convegno del Consiglio Nazionale Forense sul tema “La difesa dei diritti umani e il ruolo della professione legale”. Nel suo discorso, intitolato “Migrazione e nuove schiavitù”, il presule ha innanzitutto ricordato che i migranti internazionali sono più o meno 200 milioni. L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) si occupa di circa 32,9 milioni di persone, di cui 9,9 milioni sono rifugiati, 12,8 milioni sfollati interni che ricevono assistenza umanitaria sia specifica sia attraverso altri interventi in cui l’UNHCR è agenzia leader o partner, 5,8 milioni risultano apolidi. Altri 4,2 milioni di rifugiati ricadono sotto l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente). I migranti, ha osservato, possono purtroppo cadere vittima di varie forme di nuova schiavitù, soprattutto della tratta di esseri viventi, definita dalle Nazioni Unite come il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone con mezzi impropri come minaccia, ricorso alla forza o ad altri mezzi di coercizione, sequestro, frode, inganno, abuso di potere o stato di vulnerabilità “a scopo di sfruttamento”. Ciò include anche la prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù e perfino l’asportazione di organi. Secondo il rapporto globale dell’International Labour Organization (ILO) sul lavoro forzato, le persone che vivono in condizioni di schiavitù sono almeno 12,3 milioni, anche se per Kevin Bales, autore di Disposable People: New Slavery in the Global Economy, la stima sale a circa 27 milioni. Per l’ILO, ha ricordato monsignor Marchetto, ci sono tre tipi di schiavitù moderna: quella imposta dallo Stato, quella che rientra nell’ambito del commercio sessuale organizzato da privati e lo sfruttamento economico anch’esso operato da privati. Nella prima categoria sono inclusi “i lavori forzati imposti dalle forze armate, la partecipazione obbligatoria ai lavori pubblici, e il lavoro penitenziario forzato [non soltanto nei campi di prigionia ma anche]… nelle moderne prigioni semi o completamente privatizzate”, così come il reclutamento forzato di soldati, soprattutto di bambini; nella seconda sono comprese “le persone che sono entrate, contro la loro volontà, nella prostituzione o in ogni altra forma di attività sessuale a scopo di lucro, o che, essendovi entrate volontariamente, non possono più affrancarsene. Vi sono ugualmente inclusi i bambini costretti a forza alla pratica di attività sessuali a fini commerciali”. La terza categoria ingloba infine “ogni tipo di lavoro forzato non a fini sessuali imposto da privati per sfruttamento economico”, come “la servitù per debiti, il lavoro domestico forzato o i lavori forzati in agricoltura e in zone rurali remote”. Di fronte alle moderne forme di schiavitù “la Chiesa non è rimasta indifferente o silenziosa”, ha dichiarato l'Arcivescovo. Per questo, ha sottolineato più volte “il bisogno di solidarietà nelle comunità cristiane e tra le congregazioni religiose, i movimenti ecclesiali, le nuove comunità e le istituzioni e associazioni cattoliche al fine di combattere questa piaga della società e venire in aiuto alle vittime”. La Chiesa, ha ricordato, “è impegnata in vari Paesi nell’assistenza alle vittime della tratta, con presenza tra di loro, con l’ascolto, l’aiuto, il sostegno per sfuggire alla violenza sessuale, creando alloggi sicuri, aiutandoli ad integrarsi nella società del paese ospitante o a tornare nella propria terra d’origine in maniera sostenibile”. “Nei Paesi in cui c’è un’esplosione di conflitti violenti – ha aggiunto –, essa si occupa anche del recupero dei bambini soldato mediante attività per favorire il loro reinserimento socio-economico nella società, ma anche per sanare le ferite di questi ex combattenti e delle famiglie e/o comunità che li ricevono”. Per il presule, “la causa principale di questo orrendo fenomeno delle nuove forme di schiavitù è anzitutto l’enorme divario economico esistente tra Paesi ricchi e poveri e tra ricchi e poveri all’interno di uno stesso Paese e che spinge molta gente a lasciare, in un modo o nell’altro, la propria terra alla ricerca di opportunità migliori all’estero”. Per questo, ha esortato “ogni persona di buona volontà a rispondere al vigoroso appello dell’Istruzione Erga migrantes caritas Christi ad 'essere promotori di una vera e propria cultura dell'accoglienza' (n. 39) e, per i cristiani, a rispondere all’invito di San Paolo 'accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio' (Rm 15:7) (n. 40)”. Allo stesso modo, ha rivolto un appello “all'intera Chiesa del Paese di accoglienza a sentirsi interessata e mobilitata nei confronti dei migranti” e a trovare “il modo adeguato di creare nella coscienza cristiana il senso dell'accoglienza, specialmente dei più poveri ed emarginati, come spesso sono i migranti”. Un'accoglienza, ha concluso, “tutta fondata sull'amore a Cristo”, “nella certezza che il bene fatto al prossimo, particolarmente al più bisognoso, per amore di Dio, è fatto a Lui stesso”. http://www.zenit.org/article-18745?l=italian

giovedì 25 giugno 2009

Passpartù 35: La dimensione umana delle cose

A cura di Marzia Coronati • 19 Giugno 2009 Xenofoba, nazionalista, intollerante. L’Europa, dopo le elezioni europee del 6 e 7 maggio, riconferma i suoi vecchi adagi: di fronte alla crisi cerca rifugio nelle ideologie estreme. L’Italia, con la vittoria schiacciante della Lega, è uno degli esempi più lampanti. Ma cosa c’è alla base xenofobia? In questa puntata di Passpartù cercheremo di rispondere a questa domanda insieme ai nostri ospiti. In chiusura, Ritmi, la rubrica musicale di Elise Melot, che questa settimana ci porterà in Libano. Quattro seggi al partito anti-islamico olandese, due al partito ultranazionalista rumeno, uno alla formazione della Slovacchia nota per i suoi attacchi contro gli ungheresi, e poi l’Inghilterra, l’Austria, l’Ungheria, e infine l’Italia, con i nove seggi assegnati alla Lega Nord. I risultati delle elezioni al Parlamento Europeo parlano chiaro: la xenofobia è diffusa a macchia d’olio. Ma perchè? Noi lo abbiamo chiesto al giornalista Khaled Chaouki, redattore dell’agenzia di informazione Minareti. “I fattori sono diversi: paura del futuro, necessità di trovare un capro espiatorio, svuotamento dei valori. Ma i risultati” spiega Khaled “attestano anche una debolezza del fronte opposto e una mancanza di risposta da parte delle comunità stesse. Sicuramente le elezioni hanno evidenziato il declino dei modelli storici di accoglienza e integrazione”. Antonio Umberto Riccò è l’autore del romanzo “Biscotti al cardamomo”, edito dalla Alpha Beta edizioni. Il cadavere di un giovane afgano viene rinvenuto del Lago di Garda. Suicidio? Incidente? Assassinio a sfondo xenofobo? La risoluzione del giallo sarà il pretesto per indagare sul sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia ma soprattutto su come gli italiani si rapportano con gli stranieri. La decisione di iniziare a scrivere questo romanzo, ci ha raccontato l’autore, è venuta sotto la spinta di un fatto di cronaca: nel gennaio del 2008 a Panighina di Bertinoro, in provincia di Forlì, un ragazzo è morto dopo un lungo tragitto intrapreso legandosi sotto un camion spagnolo. Proveniva da Patrasso, aveva viaggiato di nascosto su un traghetto per Ancona, e da lì aveva proseguito il suo viaggio sotto il tir. Le cinghie che assicuravano il giovane probabilmente non erano state ben strette. Il cadavere è stato trovato perchè un motociclista ha notato una striscia rossastra sulla carreggiata. Durante le ricerche per il suo libro, Riccò è venuto a contatto con molte persone che lavorano con i richiedenti asilo in Italia. “Accanto alla realtà xenofoba, esiste un’altra parallela che è fatta dei tanti volti della solidarietà” racconta il professore. “Gente di destra e di sinistra, religiosi confessionali o laici”. Il fil rouge che lega chi è dedito alla cultura dell’ospitalità e dell’accoglienza sembra essere la caratteristica di dare importanza al lato umano delle cose. L’attenzione all’aspetto umano è una caratteristica che da sempre distingue l’agenzia Habeshia, l’associazione romana fondata da Mussie Zerai che da anni si occupa dell’accoglienza dei richiedenti asilo nella capitale. Oggi Zerai ha curato, insieme al professor Michele Colloca, un libro, “Dall’Etiopia a Roma, lettera alla madre di una migrante in fuga”. Il testo racconta la storia, drammaticamente vera, di due donne, mamma e figlia, che dall’Etiopia tentano il viaggio verso l’Europa. Lungo l’attraversamento del deserto libico la donna più anziana perde la vita, e da quel giorno la figlia inizia una corrispondenza con la madre morta che non cesserà neanche una volta arrivata a Roma. Il diario è stato tradotto da Mussie Zerai e edito da Terre di Mezzo. “Con questo libro vogliamo dimostrare che dietro ogni persona c’è una storia, e spesso la storia di un richiedente asilo è drammatica” ha detto Zerai ai nostri microfoni. Ospiti della puntata: Khaled Chaouki, Antonio Umberto Riccò, Mussie Zerai Il brano proposto da Ritmi è di Rabih Abdou Khalil, tratto dall’album “Aljadida” in redazione: Elise Melot Passpartù è un programma a cura di Marzia Coronati

mercoledì 24 giugno 2009

CHI? A CHI? VUOLE RESPINGERE?

“Si vogliono dimenticare i 380.000 ASCARI sacrificati per il Tricolore e Patria Italia?” “Uno di loro era mio nonno e prima di lui anche mio bisnonno” Firmato: Generazioni Ascari d’Italia E-mail: italianidimenticati@yahoo.it CHIEDIAMO UNA RISPOSTA Anche l’Italia come tutte le nazioni ha la propria storia che chichessia non può debellare e alla quale ci riconosciamo per i sacrifici contribuiti dei nostri antenati per la costituzione dell’Italia ed italianità che oggi ci viene negata dalle istituzioni, addirittura emendatori del nostro respingimento. IL REGNO D’ITALIA Non è forse il paese che oggi è chiamato “Repubblica Italiana?” ed italiani sono i discendenti di quelle popolazioni del Regno d’Italia? CHI? Vengono commemorati in questo storico monumento Altare della Patria Monumento Milite Ignoto - P.za Venezia - Roma Ascari d’Italia caduti nella guerra italo-austriaca 1916 (n.6.000) Oggi archiviati e dimenticati MEDITATE SU QUESTE DOCUMENTAZIONI PER DARE UNA RISPOSTA ALLE COSCIENZE Imbarco Ascari d’Italia al porto di Napoli per sacrificarli in nome della Patria Italia ed il suo tricolore. Guerra italo-turco-ottomana alla conquista della Tripolitania e Cirenaica oggi Libia, facendoli attraversare il Mediterraneo nel 1911, a tutt’oggi sepolti nel cimitero libico, 73.000 caduti in nome del Regno d’Italia che le coscienze storiche vogliono celare e dimenticare I primi a deporre la Corona di Commemorazione agli Eroi caduti in varie guerre nel 1911 furono proprio questi “Ascari d’Italia” che oggi nessuno vuole ricordare QUESTO SAREBBE IL RICONOSCIMENTO PER QUEI CADUTI PER LA PATRIA ITALIA? Pattugliamento e Guardia Imperiale Documento d’identità degli Ascari dal 1876 al 1948 Generazioni dei patrioti Ascari d’Italia ai quali si emanano leggi di respingimento. Questo documento era valido per tutti i cittadini del Regno d’Italia sino al 1948, sia per i cittadini di pelle bianca che per quelli dalla pelle scura che inspiegabilmente dalla proclamazione della Repubblica è stato riconosciuto solo a coloro che avevano la pelle bianca. Motivazioni di cui siamo in attesa di sapere... Al Colonnello Gheddafi, viene riconosciuto tutto ciò che reclama per il risarcimento del periodo dell’era coloniale, ma la Libia esisteva come nazione prima della conquista del Regno d’Italia? Chi padroneggiava in quella terra? E contro chi ha combattuto il Regno d’Italia? - Storicamente sino alla riunificazione di due paesi Tripolitania e Cirenaica con seguito di proclamazione “Stato Libia” 1911, dal Regno d’Italia territorio sotto il dominio turcoottomano, alla guerra vinta, pagando sacrifici di 85.000 caduti di cui 73.000 Ascari d’Italia contro i dominanti turchi ottomani, non contro le popolazioni libiche all’epoca non identificate come popolazione libica, ma cirenaica e tripolitani sudditi dei turchi ottomani. - Tante volte il colonnello Gheddafi, in particolare nel 1977 intimò all’Italia di riprendersi le salme italiane giacenti nel cimitero libico, consapevole che la maggior parte di quelle salme appartengono agli ex italiani dalla pelle scura ed è controproducente per i dominatori dell’occultamento Storia d’Italia, se quei resti (salme) sarebbero ritornate in Italia, sicuramente il popolo italiano avrebbe chiesto chi sono e perché non sono mai stati ricordati e perché? Discriminati. - In attesa di divulgare una precisa storia Libia-Italia, riteniamo opportuno chiedere giustificazioni sul patto di assumere un debito per costruire un’autostrada lunga 5.000 Km. In favore della Libia al costo di $ 5.000.000.000 (Cinque miliardi di dollari), lasciando emarginata l’autostrada Salerno-Reggio Calabria da quasi mezzo secolo (50 anni), in attesa di ripristinamento, terra italiana messa nel dimenticatoio. LA SHOAH? …………………………………….. Giusto commemorare LE FOIBE? ……………………………………… Giusto commemorare Ed i sacrificati Ascari d’Italia meritano forse di essere dimenticati? Che aggettivo si può dare a questo comportamento? Senza dimenticare che a tutt’oggi vivono defenestrati nei paesi del Corno d’Africa, figli di italiani bianchi e madre dalla pelle scura, discriminati ed umiliati con sotto identità “figli di N.N.”. In attesa di trovare una giusta risposta a questa ingiustizia di discriminazione, invitiamo tutti i cittadini italiani amanti della verità a mobilitarsi per concordare insieme UNA STORICA MANIFESTAZIONE CONTRO COLORO CHE VOGLIONO DISCRIMINARE UNA PARTE DI STORIA ITALIANA CONTATTATECI E CONTATTA CHI VUOLE LA VERITA’ E.mail: italianidimenticati@yahoo.it

martedì 23 giugno 2009

Immigrati, provocazione di Nogaro e Zanotelli: «Permessi in nome di Dio»

Caserta, distribuiti permessi di soggiorno, consegnato un questionario ai cittadini sull’integrazione razziale Il vescovo Nogaro con i permessi di soggiorno in nome di Dio Il vescovo Nogaro con i permessi di soggiorno in nome di Dio CASERTA — Prima doman­da: «Qual è l’unico Paese in Europa a non avere una vera e propria legge sull’immigra­zione e sull’Asilo Politico? Ri­sposta A: L’Isola che non c’è; B: Il Paese dei Balocchi. C: L’Italia. Metti una croce dove ti dice il buon senso». Inizia così il questionario provoca­torio che è stato distribuito ai casertani sabato pomeriggio mentre agli immigrati veniva­no consegnati permessi di soggiorno straordinari, con­cessi direttamente «in nome di Dio». Con tanto di firma del vescovo Raffaele Nogaro e del padre comboniano Alex Zanotelli. Ai casertani, inve­ce, poi, il quiz in tredici do­mande a risposte multiple da compilare con un pizzico di amara ironia. Domanda nu­mero quattro: «E’ ormai cosa nota che gli immigrati ci ruba­no il lavoro. Quali sono le pro­fessioni più soggette a tale in­tollerabile furto? Risposta A: Dirigente d’azienda; B: Consu­lente finanziario; C: Manova­le a giornata nei campi (12 ore per 20 euro)». LA GIORNATA DEL RIFUGIATO - Caserta ha aderito alla giornata mondiale del Rifugiato e alla campagna nazionale «Io non respingo», con il Centro Sociale ex cana­pificio di Caserta, il Movimen­to dei Migranti e dei Rifugiati di Caserta, la Caritas, i Missio­nari Comboniani di Castel Volturno, gli Scout. Sotto gli stand sistemati lungo il corso Trieste, si fa speakeraggio e sensibilizzazione. Parlano gli immigrati, parlano le associa­zioni, parla l’esponente della comunità senegalese di Caser­ta, Mamadou Sy. Intervengono anche Noga­ro e Zanotelli. Il prelato parla di accoglienza e di multicultu­ralità dell’esigenza che Caser­ta diventi il simbolo dell’acco­glienza. Il missionario attacca soprattutto l’accordo Italia-Li­bia sui respingimenti. I PERMESSI - Intan­to firmano permessi di sog­giorno in nome di Dio. I pas­santi si fermano incuriositi, buttano un occhio, e ritirano il sacchetto che arriva dal ser­vizio centrale di protezione dei rifugiati e che a Caserta è stato arricchito con lo specia­le questionario da compilare. Domanda numero 6: «A Ca­serta la Polizia Municipale controlla gli appartamenti de­gli immigrati per essere sicu­ri che non vendano cd o dvd contraffatti (perché questo, si sa, è la piaga numero 1 di Caserta). In cosa altro vorrem­mo vederli altrettanto effi­cienti? a: Con i parcheggiatori abusivi; b: Multare come Dio comanda i deficienti che par­cheggiano in terza fila su Via Roma; c: Farsi trovare quan­do servono». «È necessario far comprendere anche a Ca­serta e ai casertani che sulla questione dei rimpatri — spiega Fabio, del centro socia­le ex canapificio — si gioca una partita importante. In Li­bia non si può tornare, lì non c’è futuro, anzi lì si rischia la vita. Deve essere chiara una cosa: chi viene rispedito in Li­bia non torna al proprio pae­se d’origine perché la Libia è spesso solo terra di passag­gio, e questo, ovviamente, rende il respingimento anco­ra più pericoloso». Il centro sociale ha raccolto anche le te­stimonianze di immigrati. Co­me quella di Stephen, del Ghana, che ha una ferita sul polpaccio sinistro e che dice: «Durante il mio viaggio attra­verso il deserto sono stato venduto e ho dovuto lavorare come uno schiavo venivo continuamente frustrato». Antonella Palermo 23 giugno 2009

Da un Cpt di Lampedusa il salto nel buio di Tesfaldet

STORIA DI UN INTRUSO Ieri sorrideva. Un ghigno inconsapevole. Era seduto sulla sedia a rotelle, un infermiere lo accompagnava fuori dall' ufficio della Polaria di Ciampino. E sorrideva, Tesfaldet (foto). Perché la sua impresa è andata ben oltre le sue aspettative, ben oltre le speranze di chi intraprende un viaggio della speranza a bordo di una carretta del mare. Dall' Eritrea a Lampedusa, un anno fa, sano e salvo, nel Cpt. Ed è il primo miracolo. Clandestino, Tesfaldet è riuscito a restare in Italia, ed è il secondo miracolo. Il resto è storia di un trentunenne fragile, protetto, come si dice dei «matti», dal cielo. CONTINUA A PAGINA 3 * * * STORIA DI UN INTRUSO Tesfaldet, salto nel buio da Lampedusa alla pista SEGUE DALLA PRIMA (/IP0Il primo mese nel Cpt di Lampedusa, come da prassi. Fuori dal centro di prima accoglienza, di Tesfaldet si perdono le tracce. Solo poche informazioni su quell' uomo piccolo di statura, magro, dallo sguardo un po' allucinato. Un precedente per esibizionismo (pare che ami i gesti eclatanti con cui catturare l' attenzione), un ricovero lungo un mese in un centro di igiene mentale capitolino. Una permanenza romana durata un anno senza fissa dimora, così come capita, facendo base al Collatino, nello stadio occupato da eritrei ed etiopi. La richiesta di aiuto a padre Giovanni La Manna, del centro Astalli, al quale ha chiesto quali procedure seguire per chiedere l' asilo politico. Parla inglese, Tesfaldet. Ma ieri, dopo aver invaso la pista dell' aeroporto di Ciampino con il suo zainetto militare in spalla, non ha dato nessuna spiegazione, non ha voluto rispondere alle domande degli agenti. Sorrideva soltanto. Un ghigno che non aveva motivo di essere. Tesfaldet, intrufolandosi oltre il recinto che protegge il secondo scalo romano, aveva fatto scattare il piano antiterrorismo. Dopo gli allarmi di New York, Glasgow e Londra, il primo pensiero di chi ha visto sul radar quel puntino verde sullo schermo radar è stato di un attentato. Solo dopo aver fatto brillare lo zainetto dell' intruso, con dentro soltanto qualche straccio, gli investigatori si sono accorti di avere a che fare con un innocuo senzatetto, clandestino, in evidente stato confusionale. Uno dei quindicimila eritrei di Roma che per realizzare il loro sogno di libertà hanno pagato duemila dollari a delinquenti scafisti pur di arrivare sulle coste europee. La convenzione di Dublino, poi, vincola i disperati a rimanere nel paese dove sono state prese loro le impronte digitali. Deve essere andata così a Tesfaldet, mente fragile, non certo un terrorista. «Anche perché il terrorismo è completamente estraneo alla nostra cultura e alle nostre abitudini», spiega Mussie Zerai, responsabile dell' agenzia Habeshia. «Purtroppo Tasfaldet non è l' unico con problemi di esaurimento mentale a causa dell' assenza totale di un percorso di integrazione. Ovvio che poi, per l' esasperazione, l' abbandono e la solitudine si finisca con il diventare vagabondi e perdere il senno». L' eritreo di Ciampino è stato ricoverato lunedì notte, subito dopo che gli inquirenti hanno appurato la sua innocuità. Ora è un paziente come gli altri, la legge sulla privacy è uguale per tutti. Elvira Serra Frignani Rinaldo, Serra Elvira

venerdì 19 giugno 2009

Comunicato Stampa Agenzia Habeshia: i continui respingimenti mettono a rischio il diritto di asilo.

Roma, 19 giugno 2009 In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, l'AHCS accoglie con apprezzamento i messaggi inviati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal Presidente della Camera Gianfranco Fini all’importante conferenza dell’UNHCR di stamane. Il Presidente Napolitano fa riferimento al Patto sull’Immigrazione e sull’asilo del Consiglio Europeo del dicembre scorso, l'AHCS vorrebbe ricordare che in tale Patto “il necessario rafforzamento dei controlli alle frontiere europee non deve impedire l' accesso ai sistemi di protezione da parte delle persone che hanno diritto di beneficiarne”. “Non si può non ricordare in questa giornata”, sottolinea il Presidente Mussie Zerai”, la politica italiana di respingimenti indiscriminati di rifugiati e migranti dal Mediterraneo verso la Libia e, come successo lo scorso fine settimana, anche verso il Nord Africa. Le ultime notizie ci ricordano come questi avvenimenti siano drammaticamente attuali: la scorsa notte sono stati respinti verso la Libia altre 72 persone.” “Apprezzando i progressi fatti in questi ultimi anni in Italia per il miglioramento delle garanzie per richiedenti asilo ammessi al territorio e alla procedura di protezione internazionale, l' AHCS”, afferma il Presidente Mussie Zerai, esprime la sua grave preoccupazione per le persone che non vengono accolte e lasciate del tutto prive di protezione. Non si può non segnalare le gravi carenze del sistema di accoglienza in Italia, che auspichiamo che il governo metta mano migliorarlo portandolo a livello di standard europeo. Agenzia Habeshia

giovedì 18 giugno 2009

ll Patriarca d'Etiopia: "Il mondo conoscerà l'Arca dell'Alleanza"

Il Patriarca ortodosso, Abuna Pauolos vuole svelare il millenario segreto e in un'intervista esclusiva all'ADNKRONOS spiega: ''Sono maturi i tempi per dire la verità". Ad Axum sorgerà un museo per il simbolo sacro Roma, 17 giu. (Adnkronos) - Presto il mondo potrà ammirare l'Arca dell'Alleanza descritta nella Bibbia come il contenitore delle Tavole della Legge che Dio consegnò a Mosè e al centro, nei secoli, di ricerche e studi. Lo ha detto in un'intervista video esclusiva all'ADNKRONOS, visibile sul sito Ign, testata on line del sito Adnkronos (www.adnkronos.com), il Patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia Abuna Pauolos, in questi giorni in Italia per il 'G8 delle Religioni', e che domani incontrerà il Papa Benedetto XVI per la prima volta e al quale, "se lo chiederà - ha proseguito il Patriarca - racconterò tutta la situazione attuale dell'Arca dell'Alleanza". "L'Arca dell'Alleanza - ribadisce Pauolos - si trova in Etiopia da molti secoli. Come patriarca l'ho vista con i miei occhi e soltanto poche persone molto qualificate hanno potuto fare altrettanto, finora". Secondo il patriarca è custodita in una chiesa, ma per difendere quella autentica, una copia del simbolo religioso e' stata collocata in ogni chiesa del Paese. L'annuncio ufficiale che l'Etopia consegnerà al mondo le chiavi del segreto millenario dell'Arca, verrà dato venerdì prossimo nel corso di una conferenza stampa alle 14 all'Hotel Aldrovandi a Roma dallo stesso Patriarca ortodosso d'Etiopia, insieme al principe Aklile Berhan Makonnen Haile Selassie, e al duca Amedeo D'Aosta, che sarà a Roma già domani mattina. Secondo alcuni studi l'Arca venne trafugata da Gerusalemme dal figlio di re Salomone e portata ad Axum, considerata la Gerusalemme d'Etiopia. E proprio ad Axum sorgerà il Museo chiamato a ospitare l'Arca, il cui progetto è stato finanziato dalla Fondazione del principe, erede designato al trono da Haile Selassie poco prima di morire, Crhijecllu, acronimo delle iniziali dei nomi dei figli del principe: Christian, Jessica, Clarissa, Lucrezia. Qualche settimana fa aveva fatto il giro del mondo la notizia secondo la quale sarebbe stata vista da un giornalista l'Arca autentica in una chiesa etiope. E' stato allora che il Patriarca Pauolos ha maturato la decisione di "dire una volta per tutte al mondo la verita'" sulla cassa di legno e oro con le Tavole della Legge di Dio. Il Patriarca ha giudicato maturi i tempi per chiudere definitivamente il capitolo sul quale fino ad ora nessuno storico, nessun ricercatore, nessun 'Indiana Jones', era riuscito a scrivere la parola fine. Il Patriarca dell'antichissima Chiesa ortodossa d'Etiopia ha voluto accanto a sé in questa avventura il nipote dell'ultimo Negus, capo di una famiglia importane, il cui ruolo è riconosciuto sia in Etiopia che all'estero. Il principe erede che due anni fa riuscì a rappacificare le fazioni musulmana e cristiana al centro in Etiopia di un duro contrasto. E' iniziato così il conto alla rovescia per svelare finalmente il mistero della sacra Arca dell'Alleanza, capace, secondo la leggenda, di sprigionare lampi di luce divini e folgori in grado di incenerire chiunque ne fosse colpito, come del resto efficacemente descritto nel cult movie 'I predatori dell'Arca perduta'. Dalla finzione cinematografica si passerà ora alla realtà. Venerdì prossimo la conferenza stampa con l'annuncio ufficiale, un evento che è stato possibile anche grazie alla collaborazione di Paolo Salerno, collaboratore del principe e del giornalista Antonio Parisi, che da qualche anno segue le vicende storiche delle famiglie reali e di quella Etiope in particolare, e naturalmente dell'Arca dell'Alleanza. Ma cos'è l'Arca dell'Alleanza , uno dei più grandi misteri dell'antichità sul quale fantasia, leggenda e storia hanno continuato a intrecciarsi per secoli? L'Arca, nella tradizione ebraica, contiene le Tavole della legge, cioè i Dieci comandamenti; il manufatto, in legno d'acacia, fu costruita da Mosè. All'esterno aveva decorazioni in oro ed è stata a lungo conservata dal popolo ebraico: ha accompagnato le sue vicissitudini, le battaglie e le sconfitte, le peregrinazioni e le lotte contro i filistei ed è stata conservata in diversi luoghi finché il Re Davide non l'ha collocata nella Rocca di Gerusalemme. Ma è Salomone, figlio e successore di Davide, a far sistemare l'Arca nel Tempio di Gerusalemme da lui stesso fatto costruire. Questa narrazione s'intreccia poi con eventi storici e altre tradizioni religiose e nazionali. Di fatto l'Arca dell'Alleanza scompare nel 586 a.C. con la conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi e la conseguente distruzione del tempio di Gerusalemme. Tuttavia della sua effettiva rovina non c'è testimonianza scritta; da allora l'Arca diventa simbolo eternamente cercato dagli uomini e rintracciato in varie parti del mondo, dall'Africa al Medio Oriente. La tradizione etiope colloca l'Arca nel regno di Axum, dopo che Salomone l'aveva donata al figlio della Regina di Saba, Menelik I. Qui, sarebbe rimasta nel corso dei secoli protetta dai monaci ortodossi nella citta' santa di Lalibela nei pressi di Axum, dove si troverebbe tuttora. L'Arca, che non è visibile a nessuno tranne un monaco che la custodisce, viene preservata nel complesso della cattedrale di Santa Maria di Sion, e' dunque nascosta a tutti e viene portata in processione una volta all'anno ma avvolta in un panno. L'Arca ha accesso la fantasia di archeologi, scrittori, gruppi religiosi, sette di ogni tipo. Nella tradizione infatti si afferma che emana un potere particolare ma anche che chi la tocca veniva fulminato. Un oggetto che data anche la sua collocazione - Il Tempio di Gerusalemme - è stato di volta in volta al centro di storie legate alla Massoneria o ai Templari. Tuttavia va ricordato che sono molte in Etiopia le chiese nelle quali e' conservata un'''arca'', così come diversi studiosi - muovendosi spesso al limite del mistero e della leggenda - la collocano in varie parti del mondo.

mercoledì 17 giugno 2009

ISRAELE: EBREI DALL'ETIOPIA, LA DIFFICILE INTEGRAZIONE

(di Luciana Borsatti) (ANSAmed) - TEL AVIV/ROMA - Per lo Stato di Israele - nato dall'utopia egualitaria dei pionieri del secolo scorso - e' forse l'integrazione piu' difficile. Perche' il gap culturale tra chi ha vissuto fino a pochi anni fa in un remoto villaggio africano e la modernita' che si respira a Tel Aviv non e' di quelle che si superano facilmente, nemmeno in una generazione. Lo sanno bene i Falascia' o Falasha, popolazione di pelle nera dell'Etiopia settentrionale, di lingua semitica e religione ebraica, che tra gli anni '80 e '90 - ma gli arrivi continuano ancor oggi, anche se con numeri inferiori a quelli del passato - sono emigrati in massa nella Terra Promessa grazie ad epiche operazioni israeliane, come la storica ''Salomone'' del 1991. E lo sa anche l'Agenzia Ebraica - l'organismo nato durante il Mandato britannico per agevolare l'immigrazione degli ebrei in Palestina - che ha trovato nel recente ingresso di un milione di ebrei russi ma anche dei Falascia' la fonte di delusioni e di costi molto salati per lo Stato. Gli ebrei etiopi infatti, agricoltori che non sapevano leggere e scrivere la lingua ebraica, sono divenuti rapidamente dei diversi, se non degli emarginati, comunque condannati ai lavori meno qualificati. Mentre la loro comunita' ha raggiunto le 105 mila persone, la maggior parte delle quali sotto i 20 anni. Un rapporto di fine 2008 dell'Acri, associazione israeliana per i diritti civili, individuava proprio negli immigrati russi ed etiopi i gruppi piu' socialmente svantaggiati. Ma quella dell'integrazione nella societa' israeliana e' una scommessa che l'Agenzia Ebraica - che dal 1948 ha gestito l'ingresso di quasi tre milioni di nuovi immigrati - ancora non vuol dare per persa. E presenta con orgoglio ai visitatori centri di accoglienza come quello di Mevasseret Zion, il piu' grande Absortion Center del Paese. Una citta' nella citta', con casette basse dove vivono 1.200 etiopici che gli operatori dell'Agenzia assistono costantemente nel loro sforzo di superare senza traumi la distanza culturale con la societa' della nuova patria. Non si tratta infatti solo di dare loro un tetto temporaneo, spiegano al centro, ma molto di piu': il metodo e' quello di un ''approccio olistico'' all'integrazione. E se stupiscono le capanne africane costruite in alcuni cortili per rendere meno traumatico l'adattamento ad altri stili di vita, l'immagine che piu' colpisce e' quella dei bambini che giocano nella sala computer, alle prese con software d'avanguardia che, divertendoli, li introducono all'alfabeto e alla modernita'. Come la strada dell'emancipazione sociale passi del resto per l'istruzione lo sanno bene all'Ono Academic College di Kyriat Ono, nei pressi di Tel Aviv. Un istituto universitario che punta - spiega il vicepresidente Doron Haran - non solo all'eccellenza accademica, ma anche ad accompagnare fino alla fine degli studi, sostenendoli nei loro specifici punti deboli, anche i soggetti piu' svantaggiati: dagli ebrei ultraordodossi (il 50% dei quali vive, proprio per le conseguenze della propria specificita' religiosa, al di sotto della linea di poverta') agli etiopi. Nato come progetto pilota nel 2002, ora il programma conta circa 180 studenti, 26 dei quali gia' impegnati in corsi post-graduate. Il corso di studi offerto, sostenuto da borse di studio, permette loro non solo di raggiungere l'obiettivo del titolo finale, ma anche - con l'aiuto dello staff del College - uno sbocco professionale. La studentessa Orit-Itzhak-Yasu racconta ad un gruppo di giornalisti i drammi dell''aliah', l'approdo in Israele, della sua famiglia quando era ancora bambina: la fuga notturna dal villaggio, le settimane di marce forzate con i genitori e i fratellini fino al campo profughi e l'attesa dell'aereo della salvezza. La sua storia e' quella di mille altre israeliane di origini etiopi come lei, ora e' il suo futuro che deve cambiare. (ANSAmed).

Una radio eritrea on air da Parigi

Libera informazione per l’Eritrea. È nata “Radio Erena”, la prima radio libera che trasmette da Parigi in Eritrea. Il progetto, frutto della volontà di alcuni giornalisti eritrei, è stato sostenuto da Reporters sans frontières. “Solo pochi paesi – spiega Jean-François Julliard, segretario generale dell’organizzazione – quali la Birmania, il Turkmenistan, la Corea del Nord e l’Eritrea sono soggetti a una repressione tanto forte da impedire completamente l’esistenza di media indipendenti. Proprio la totale assenza di mezzi di informazione indipendenti in Eritrea ci ha convinti a sostenere questo progetto di portata storica”. Otto anni fa, infatti, nel settembre del 2001, il presidente Issaias Afeworki fece chiudere i pochi giornali indipendenti rimasti e arrestare i direttori di queste testate. Da allora, le uniche notizie in lingua locale sono diffuse dai mezzi di comunicazione di stato, quali Eri-TV, Radio Dimtsi Hafash e Hadas Eritrea. In Eritrea, a tutti gli effetti, non esiste libertà di stampa. Infatti, il paese è già da due anni in ultima posizione nella classifica annuale redatta da Reporters sans Frontières. Per quanto riguarda il 2009, dovrebbero essere 19 i giornalisti imprigionati dalle autorità all’inizio dell’anno, a cui si sono poi aggiunti altri 20 a partire dallo scorso febbraio. Nella maggior parte dei casi non si sa neanche dove siano detenuti. In un panorama così liberticida, la possibilità di ricevere la neonata “Radio Eritrea” assume importanza notevole. Per chi abita in Eritrea potrebbe davvero essere l’unico filo di collegamento con il mondo esterno. Per consentirne la diffusione anche tra i tanti espatriati, presto “Radio Eritrea” trasmetterà anche sul web.

La realtà dei profughi e dei rifugiati e il mito italiano. di Umberto Mazzantini

LIVORNO. Il rapporto “Global trend 2008” dell’Agenzia per il rifugiati dell’Onu (Unhcr) è stato relegato dai giornali italiani (quando è andata bene) in qualche striminzito trafiletto, eppure si tratta di una questione che infiamma l’opinione pubblica, fa la fortune elettorali di qualche partito, riempie di ronde le strade e cementa l’accordo energetico-economico-politico con Gheddafi e la sua dittatura. Peccato, perché quella lettura è sorprendente e potrebbe risvegliare chi legge le cifre del rapporto da un brutto sogno della ragione che alimenta paure e genera mostri. Infatti, secondo il rapporto, l’80% dei rifugiati e richiedenti asilo del mondo si trova nei Paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati. «Sfatiamo un mito – sottolinea la portavoce dell’Unhcr Laura Boldrini - non è vero che tutti i profughi extracomunitari, le persone che fuggono da guerre e persecuzioni, vogliono venire in Europa. E non è vero che l´Italia è l´unico Paese europeo a farsene carico». Il nostro Paese ospita solo 47 mila rifugiati, appena lo 0,5% del totale mondiale, il contingente più basso tra quelli dei maggiori Paesi europei. “Global trends” spiega che il numero mondiale comprende 16 milioni di rifugiati e richiedenti asilo e 26 milioni di sfollati all’interno del proprio paese, sia per guerre che per persecuzioni etnico-politiche che per motivi ambientali e di scarsità di cibo spesso legate a quest’ultime. Una cifra in aumento anche a causa di «un brusco rallentamento dei rimpatri e ad una maggior durata dei conflitti, risultante in forme di esilio protratto. Sebbene la cifra totale di 42 milioni sia minore di 700 mila unità rispetto all’anno precedente, i dati provvisori del 2009, non rappresentati nel rapporto, riflettono già un mutamento di tendenza». Presentando il rapporto l’Alto commissario António Guterres ha spiegato che «Nel 2009 abbiamo già assistito a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia. Se alcune forme di fuga possono avere breve durata, altre possono durare anni e perfino decenni in attesa di una soluzione. Sono diverse le situazioni di popolazioni sradicate da ormai molto tempo: in Colombia, Iraq, Repubblica democratica del Congo e Somalia. Ciascuno di questi conflitti ha inoltre generato rifugiati che hanno oltrepassato le frontiere». La situazione è tragica per 5,7 milioni di rifugiati in 22 Paesi che vivono in un vero e proprio limbo: 29 gruppi diversi, ognuno di oltre 25.000 rifugiati esiliati da oltre 5 anni, senza nessuna prospettiva di una soluzione immediata». Nel 2008 sono tornati a casa loro 2 milioni i rifugiati e sfollati, meno che nel 2007. I 604.000 rimpatriati sono il 17% in meno, mentre gli sfollati che sono tornati nei loro luoghi di origine sono stati 1,4 milioni, meno 34%. «Il rimpatrio, tradizionalmente considerata la soluzione durevole più diffusa per i rifugiati – sottolinea il rapporto - ha raggiunto il secondo livello più basso negli ultimi 15 anni. Questo declino riflette in parte il deterioramento delle condizioni di sicurezza principalmente in Afghanistan e Sudan. E’ un’indicazione che i rimpatri su vasta scala del passato hanno subìto una decelerazione, con circa 11 milioni di rifugiati tornati a casa negli ultimi 10 anni, la maggior parte dei quali con l’assistenza dell’Unhcr. Nel 2008 l’Unhacr ha proposto a 121.000 persone il reinsediamento in Paesi terzi e più di 67 mila sono effettivamente partiti». Dal 2005 il numero degli sfollati di cui si interessa l’agenzia per i rifugiati è più che raddoppiato ed attualmente si occupa di 25 milioni di persone, compresi 14,4 milioni di sfollati, il 3,7% in più in un anno, e 10,5 milioni di rifugiati. Altri 4,7 milioni di rifugiati sono i palestinesi assistiti da un’altra Agenzia: l’Unrwa. La Colombia ha una delle più numerose popolazioni di sfollati interni, intorno ai 3 milioni di persone. Alla fine del 2008 In Iraq ce n’erano 2.6 milioni, 1,4 milioni dei quali sfollati negli ultimi tre anni. Nel Darfur, in Sudan, gli sfollati sono almeno 2 milioni. Nel 2008 le guerre e hanno costretto alla fuga 1,5 milioni di persone nell’est della Repubblica democratica del Congo e 1,3 milioni di somali. «All’inizio dell’anno – sottolinea l’Unhcr - abbiamo assistito a massicci movimenti forzati di popolazione in Kenya, mentre il conflitto in Georgia ha messo in fuga 135 mila persone. Il numero di sfollati è altresì aumentato in Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Yemen». Numeri enormi e con conseguenze sociali, ambientali e politiche devastanti nelle aree dove si creano i campi o dove cercano rifugio i profughi, ma che sarebbero ancora più grandi, visto che «la popolazione di competenza dell’Unhcr è calata per la prima volta dal 2006 a causa della revisione e dell’aggiornamento delle stime riguardanti il numero di rifugiati e di persone in “situazioni simili ai rifugiati” in Iraq e Colombia. Il numero dei rifugiati è sceso dagli 11,4 milioni del 2007 a 10,5 milioni per il 2008». Ma mentre calano i rifugiati aumenta per il secondo anno consecutivo il numero di richiedenti asilo: «nel 2008 sono stati 839 mila, con un incremento del 28%. I paesi che hanno ricevuto il maggior numero di domande di asilo sono il Sud Africa (207 mila), gli Stati Uniti (49.600), la Francia (35.400) ed il Sudan (35.100)». Manca come si vede l’Italia delle ronde che ha appaltato alla dittatura libica l’esame delle richieste di asilo politico di chi fugge da altre dittature amiche di Gheddafi. Una misura propagandistica e inefficace visto che il popolo dei disperati dei gommoni è un’infima minoranza, la più disperata, del flusso migratorio clandestino che raggiunge il nostro Paese con altri mezzi e sistemi. «I paesi in via di sviluppo hanno ospitato l’80% dei rifugiati nel mondo – dice l’Unchr - a sottolineare la sproporzionata pressione che grava su quei paesi che hanno meno mezzi e maggior bisogno si assistenza internazionale. Fra i principali paesi di accoglienza di rifugiati nel 2008 troviamo il Pakistan (1,8 milioni), la Siria (1,1 milioni), l’Iran (980 mila), la Germania (582.700), la Giordania (500.400), il Ciad (330.500), la Tanzania (321.900) e il Kenya (320.600). I principali paesi di origine sono stati l’Afghanistan (2,8 milioni) e l’Iraq (1,9 milioni) paesi che, da soli, rappresentano il 45% dei rifugiati di competenza dell’Unhacr. Altri paesi di origine sono la Somalia (561 mila), il Sudan (419 mila), la Colombia, compresi coloro in situazioni simili ai rifugiati (374 mila) e la Repubblica Democratica del Congo (368 mila)».

La realtà dei profughi e dei rifugiati e il mito italiano: di Umberto Mazzantini

LIVORNO. Il rapporto “Global trend 2008” dell’Agenzia per il rifugiati dell’Onu (Unhcr) è stato relegato dai giornali italiani (quando è andata bene) in qualche striminzito trafiletto, eppure si tratta di una questione che infiamma l’opinione pubblica, fa la fortune elettorali di qualche partito, riempie di ronde le strade e cementa l’accordo energetico-economico-politico con Gheddafi e la sua dittatura. Peccato, perché quella lettura è sorprendente e potrebbe risvegliare chi legge le cifre del rapporto da un brutto sogno della ragione che alimenta paure e genera mostri. Infatti, secondo il rapporto, l’80% dei rifugiati e richiedenti asilo del mondo si trova nei Paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati. «Sfatiamo un mito – sottolinea la portavoce dell’Unhcr Laura Boldrini - non è vero che tutti i profughi extracomunitari, le persone che fuggono da guerre e persecuzioni, vogliono venire in Europa. E non è vero che l´Italia è l´unico Paese europeo a farsene carico». Il nostro Paese ospita solo 47 mila rifugiati, appena lo 0,5% del totale mondiale, il contingente più basso tra quelli dei maggiori Paesi europei. “Global trends” spiega che il numero mondiale comprende 16 milioni di rifugiati e richiedenti asilo e 26 milioni di sfollati all’interno del proprio paese, sia per guerre che per persecuzioni etnico-politiche che per motivi ambientali e di scarsità di cibo spesso legate a quest’ultime. Una cifra in aumento anche a causa di «un brusco rallentamento dei rimpatri e ad una maggior durata dei conflitti, risultante in forme di esilio protratto. Sebbene la cifra totale di 42 milioni sia minore di 700 mila unità rispetto all’anno precedente, i dati provvisori del 2009, non rappresentati nel rapporto, riflettono già un mutamento di tendenza». Presentando il rapporto l’Alto commissario António Guterres ha spiegato che «Nel 2009 abbiamo già assistito a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia. Se alcune forme di fuga possono avere breve durata, altre possono durare anni e perfino decenni in attesa di una soluzione. Sono diverse le situazioni di popolazioni sradicate da ormai molto tempo: in Colombia, Iraq, Repubblica democratica del Congo e Somalia. Ciascuno di questi conflitti ha inoltre generato rifugiati che hanno oltrepassato le frontiere». La situazione è tragica per 5,7 milioni di rifugiati in 22 Paesi che vivono in un vero e proprio limbo: 29 gruppi diversi, ognuno di oltre 25.000 rifugiati esiliati da oltre 5 anni, senza nessuna prospettiva di una soluzione immediata». Nel 2008 sono tornati a casa loro 2 milioni i rifugiati e sfollati, meno che nel 2007. I 604.000 rimpatriati sono il 17% in meno, mentre gli sfollati che sono tornati nei loro luoghi di origine sono stati 1,4 milioni, meno 34%. «Il rimpatrio, tradizionalmente considerata la soluzione durevole più diffusa per i rifugiati – sottolinea il rapporto - ha raggiunto il secondo livello più basso negli ultimi 15 anni. Questo declino riflette in parte il deterioramento delle condizioni di sicurezza principalmente in Afghanistan e Sudan. E’ un’indicazione che i rimpatri su vasta scala del passato hanno subìto una decelerazione, con circa 11 milioni di rifugiati tornati a casa negli ultimi 10 anni, la maggior parte dei quali con l’assistenza dell’Unhcr. Nel 2008 l’Unhacr ha proposto a 121.000 persone il reinsediamento in Paesi terzi e più di 67 mila sono effettivamente partiti». Dal 2005 il numero degli sfollati di cui si interessa l’agenzia per i rifugiati è più che raddoppiato ed attualmente si occupa di 25 milioni di persone, compresi 14,4 milioni di sfollati, il 3,7% in più in un anno, e 10,5 milioni di rifugiati. Altri 4,7 milioni di rifugiati sono i palestinesi assistiti da un’altra Agenzia: l’Unrwa. La Colombia ha una delle più numerose popolazioni di sfollati interni, intorno ai 3 milioni di persone. Alla fine del 2008 In Iraq ce n’erano 2.6 milioni, 1,4 milioni dei quali sfollati negli ultimi tre anni. Nel Darfur, in Sudan, gli sfollati sono almeno 2 milioni. Nel 2008 le guerre e hanno costretto alla fuga 1,5 milioni di persone nell’est della Repubblica democratica del Congo e 1,3 milioni di somali. «All’inizio dell’anno – sottolinea l’Unhcr - abbiamo assistito a massicci movimenti forzati di popolazione in Kenya, mentre il conflitto in Georgia ha messo in fuga 135 mila persone. Il numero di sfollati è altresì aumentato in Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Yemen». Numeri enormi e con conseguenze sociali, ambientali e politiche devastanti nelle aree dove si creano i campi o dove cercano rifugio i profughi, ma che sarebbero ancora più grandi, visto che «la popolazione di competenza dell’Unhcr è calata per la prima volta dal 2006 a causa della revisione e dell’aggiornamento delle stime riguardanti il numero di rifugiati e di persone in “situazioni simili ai rifugiati” in Iraq e Colombia. Il numero dei rifugiati è sceso dagli 11,4 milioni del 2007 a 10,5 milioni per il 2008». Ma mentre calano i rifugiati aumenta per il secondo anno consecutivo il numero di richiedenti asilo: «nel 2008 sono stati 839 mila, con un incremento del 28%. I paesi che hanno ricevuto il maggior numero di domande di asilo sono il Sud Africa (207 mila), gli Stati Uniti (49.600), la Francia (35.400) ed il Sudan (35.100)». Manca come si vede l’Italia delle ronde che ha appaltato alla dittatura libica l’esame delle richieste di asilo politico di chi fugge da altre dittature amiche di Gheddafi. Una misura propagandistica e inefficace visto che il popolo dei disperati dei gommoni è un’infima minoranza, la più disperata, del flusso migratorio clandestino che raggiunge il nostro Paese con altri mezzi e sistemi. «I paesi in via di sviluppo hanno ospitato l’80% dei rifugiati nel mondo – dice l’Unchr - a sottolineare la sproporzionata pressione che grava su quei paesi che hanno meno mezzi e maggior bisogno si assistenza internazionale. Fra i principali paesi di accoglienza di rifugiati nel 2008 troviamo il Pakistan (1,8 milioni), la Siria (1,1 milioni), l’Iran (980 mila), la Germania (582.700), la Giordania (500.400), il Ciad (330.500), la Tanzania (321.900) e il Kenya (320.600). I principali paesi di origine sono stati l’Afghanistan (2,8 milioni) e l’Iraq (1,9 milioni) paesi che, da soli, rappresentano il 45% dei rifugiati di competenza dell’Unhacr. Altri paesi di origine sono la Somalia (561 mila), il Sudan (419 mila), la Colombia, compresi coloro in situazioni simili ai rifugiati (374 mila) e la Repubblica Democratica del Congo (368 mila)».

lunedì 15 giugno 2009

Dall'Etiopia a Roma Lettere alla madre di una migrante in fuga

Collane: Periferie a cura di Michele Colloca e Mussie Zerai Yosief Dall'Etiopia a Roma Lettere alla madre di una migrante in fuga Quando scappa con la madre per la prima volta, Simret è poco più che una bambina. Destinazione: Sudan. Nel 2005 un nuovo viaggio con altri migranti porta le due donne in Libia, verso l’Europa. Proprio nel deserto libico la madre muore. La ragazza, lacerata dal dolore, è costretta a proseguire, ma da quel momento inizia a scriverle una serie di lettere commoventi. Il viaggio, alla fine, la condurrà fino a Roma e a una nuova vita. Una testimonianza eccezionale e attualissima Michele Colloca, ingegnere biomedico e ricercatore presso l’Università “La Sapienza”, e Mussie Zerai Yosief, studente di teologia, collaborano con l’Agenzia Habeshia di Roma, organizzazione per l’assistenza a rifugiati e richiedenti asilo politico di cui Mussie è anche fondatore. NELLE LIBRERIE DI TUTTA ITALIA E IN STRADA PER MANO DEI VENDITORI DEL GIORNALE DI STRADA DAL 24 GIUGNO 2009

you know the problems of Eritrean people?

Debesay (1:18): Guys, I send to you my grateful, honour and spiritual greetings. Sometimes normally I like to send small...small messages for understanding things. So this is my question, you know the problems of Eritrean people? You think about the matter? Somebody says: isaias is the matter of eritreans.so, if the matter of Eritreans is isaias and isaias also has a matter of knowledge! If the above is correct. This is also correct; the matter of feeding is not luck of food: it is a matter of hard work... Even if you recognize my proverb, the matter of the first case is luck of hard work. So Eritreans please come up working together. Because sometimes things become hard, if you think simple become simple. GOD bless you Eritreans! Mussie: Hello, thanks for your message, we all know what the problem of Eritrea. 1. The lack of freedom 2nd The absence of democracy and free elections. 3rd The Constitution includes the rights and duties of citizens Eritreans 4th One Justice free from political power 5th A free press from any of the Executive interfernze 6. A limit to military service 7th A right to conscientious objection for those who do not want to do military service, which can be impigata civil service. 8th Investing in youth training, development of a country, not to close universities as Isaias 9th Choose a project compatible with our people, not the Chinese communism 50 years ago. would be much better socialism of the Scandinavian countries. Isaias Afewerki and then one of the many obstacles for us in the country, but not the only one. Changing the class direct current military tropes popt does not go well, there can be a democracy in a country ruled by the military. Eritreans in the world must be consistent in asking the final solution to the border issue with Ethiopia, this problem is one of the obstacles for the country, an excuse for those who want to stay long in power. I think over the situation in Eritrea today.

sabato 13 giugno 2009

Grazie, Gheddy!

di Carlo Blangiforti Sarà che crediamo veramente di essere brava gente, sarà che non ricordiamo bene il passato, sarà che siamo intimamente convinti di essere un popolo di santi, sarà che siamo distratti da veline e gossippari, ma noi italiani non ci rendiamo conto che qualche conto in sospeso con la storia ce lo abbiamo. Ormai da tempo (da sempre) se si chiede all’uomo della strada o alla casalinga di Voghera quali siano stati i crimini commessi dal Fascismo, ci si sente rispondere: la partecipazione alla II Guerra Mondiale e le leggi razziali del 1938. Questi due fatti assolutamente esecrabili, vengono però affievoliti da distinguo e attenuanti varie: “Mussolini non si doveva mettere con quel pazzo di Hitler”, “non c’erano altre scelte, però grazie al Fascismo c’è la pensione di vecchiaia” ecc. Distinguo degni di un popolo affetto da infantilismo cronico: per chiarire bisogna ribadire che qualsiasi governo è libero di fare le sue scelte (il Portogallo del dittatore Salazar o la Spagna di Franco rimasero neutrali) e deve pagarne le conseguenze (l’Olanda, Il Belgio, la Norvegia ecc. furono invase dai tedeschi); bisogna ribadire che le politiche sociali in molti paesi sono state frutto di lotte sindacali e di civiltà (Francia, Inghilterra, Stati Uniti ecc.) e via discorrendo. Anche se bastano le leggi razziali antisemite per connotare indelebilmente la natura del Fascismo si tende ad omettere altre nefandezze commesse dal regime: la persecuzione degli oppositori politici (omicidi, esili, ergastoli e confini), il generale immiserimento spirituale della nazione, l’asservimento morale ad un’ideologia totalitaria e, last but not the least, i massacri commessi durante le occupazioni militari nel corso della Seconda Guerra Mondiale e delle guerre coloniali in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia. Questo è il nodo. Si può pure parlare del sangue dei vinti, ed è giusto farlo, ma si deve parlare anche del sangue degli altri vinti, dei neri, degli slavi e dei greci vittime delle italiche guerre d’aggressione. Per decenni quei soldati italiani che arrostivano al sole del deserto o che gelavano sui monti del Pindo o in Russia hanno avuto il volto simpatico di Alberto Sordi, di Totò o di Raffaele Pisu [1]. E a noi andava bene così. Gli italiani nelle colonie avevano «essenzialmente costruito strade, scuole, ferrovie, ponti ecc.» I cattivi erano gli altri, i tedeschi, i nazisti, i giapponesi, poi i russi violentatori o i terribili infoibatori di Tito, il resto è storia o cronaca. Si è preferito dimenticare che le spirali di violenza non sono responsabilità di una sola parte. Poiché gli italiani (i repubblichini) erano buoni, tanto buoni da farsi traviare da quei bruti degli hitleriani, si è fatta opera epocale di rimozione, le carte si sono chiuse negli armadi e i criminali di guerra non hanno conosciuto una Norimberga italiana. A questo riguardo la censura in Italia è stata ed è generalizzata. Gli storici queste cose le scrivono, ma chi ha voglia di prendere in mano un tomo da 600 pagine? All’estero non si è così indulgenti con i fascisti, spesso anche se si raffigura Mussolini come una macchietta violenta e scimmiesca, non si omette di denunciarne le brutalità in film e documentari. Dalle nostre parti invece si è assolutamente impermeabili all’argomento: “Chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato; scurdammose 'o passato...” La memoria italiana è corta, anzi cortissima. In altri paesi la memoria la coltivano. Due generazioni di tedeschi hanno fatto i conti quotidianamente con i crimini commessi dai loro padri, i francesi cercano faticosamente di liberarsi degli spettri dei collaborazionisti e di riparare alle mostruosità commesse nelle colonie; i giapponesi hanno da 60 anni il fungo atomico impresso del loro immaginario. Non basta, chiaro. Non si cancellano coi sensi di colpa i crimini di guerra. Ma almeno quelli ci provano, da noi il nulla [2]. Si potrebbe dire che le recenti ammissioni di responsabilità profferite dal buon Berlusconi sono un passo nella giusta direzione [3]. Si potrebbe, ma non è possibile. I motivi sono legati unicamente alla Realpolitik e poco hanno a che fare con la riflessione dello storico. È paradossale che la maggior parte di quelli che subiscono le ultime leggi sui clandestini siano proprio eritrei, somali ed etiopi e che gli esecutori siano proprio libici. Una forma di neocolonialismo, si direbbe. In momenti diversi si sono aperti dibattiti più o meno vivaci riguardo alle vendette dei “partigiani rossi” contro i fascisti nell’immediato dopoguerra. Panza docet. Episodi più o meno isolati, giustificabili dal caos del momento, ma non riconducibili (su questo nessuno mi pare dissenta) ad una regia politica: atti di individui contro individui e quindi materia di diritto penale. [4] I crimini di stato durante il ventennio (contro gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici e i sudditi delle colonie) rispondevano invece ad una strategia politica ben precisa. La violenza del potere non si giudica solo nei tribunali, ma è la storia che deve dare un giudizio. La storia dell’Italia coloniale è quella che è. Inizia con la torbida vicenda della Baia d’Assab in Eritrea [5], passa per la guerra di Libia e la repressione contro i senussi di Al-Mukhtar, giunge alle vergogne della guerra d’Etiopia. La scia di sangue prosegue fino alle vicende somale degli anni ‘80 e ‘90. Sulle responsabilità coloniali dello stato italiano si è posato un velo d’oblio, de eso no se habla, e spesso è stata stesa una cortina di censura. L’ormai arcinoto caso del film Il leone del deserto è argomento di questi giorni [6], ma c’è il caso di documentari che non sono stati trasmessi o lo sono stati solo parzialmente. Nel 1989 la BBC produsse Fascism Legacy (L’eredità del Fascismo), nel documentario si trattavano le responsabilità italiane nei massacri di civili, nella distruzione di interi villaggi, nell’eliminazione delle élite intellettuali e politiche, nell’uso di armi chimiche, nella distruzione delle colture e del bestiame per ridurre alla fame la popolazione sia delle colonie (Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia) che dei paesi occupati militarmente (Grecia, jugoslavia, Albania ecc.). Il documentario non è mai stato trasmesso integralmente. Dieci anni fa il regista etiope Hailé Gerima realizzo Adwa, un documentario sulla sconfitta italiana ad Adua nel 1896. La Rai non volle partecipare alla produzione. È purtroppo vero che gli italiani amano la retorica dei sentimenti, dei buoni sentimenti. Fino a pochi anni fa, quando eravamo emigranti, accusavamo gli altri di razzismo (la vicenda di Sacco e Vanzetti, del gangsterismo in America e a Marsiglia, la trama del film “Pane e Cioccolata”, le sofferenze dei connazionali detti macaronì, rital, Tschink, Spaghettifresser ecc.), oggi che la pressione dei nostri ex-sudditi si fa sempre più forte accusiamo gli altri di essere clandestini e per tenerli alla larga arruoliamo (5 miliardi di euro in 20 anni) chi ascari libici in una logica assolutamente coloniale: no, i conti con la storia non si fanno certo così. Grazie a Gheddy oggi, e per qualche giorno, si parla dei crimini commessi da noi, brava gente. È triste che a ricordarcelo sia proprio un dittatore vestito, come Totò, da Pazzariello. Beh, meglio di niente, questo passa il convento.

venerdì 12 giugno 2009

Atm «vietata» agli immigrati I sindacati si spaccano

Il caso di Mohamed Hailowa. La Cgil: vergogna. La Cisl: sì a uguaglianza. La Uil: non è una priorità MILANO - «Voglio fare il tranviere. O addirittura l’elettricista al­l’Atm». Le ambizioni di Moha­med Hailowa, 18 anni, maroc­chino, non sono frequenti tra i ragazzi della sua età. Ieri, fuori dal tribunale, accompagnato dai legali di Avvocati per niente e dell’Associazione studi giuri­dici sull’immigrazione che lo rappresentano nell’azione lega­le contro Atm, Hailowa — ma­glietta arancione e zainetto sul­le spalle — ha raccontato il suo sogno ai cronisti. La decisione del giudice arriverà tra una set­timana. Nell’attesa la vicenda continua a far discutere. Il giovane marocchino conte­sta il fatto che gli extracomuni­tari non possano lavorare come tranvieri. Atm ha risposto con una memoria depositata in tri­bunale in cui si dice, in sostan­za, che l’assunzione di stranieri potrebbe influire (in negativo) sulla sicurezza sui mezzi pubbli­ci. I legali di Mohamed hanno chiesto al giudice di andare ol­tre il regio decreto del 31 che impedisce il lavoro nel traspor­to pubblico locale a chi non ha la cittadinanza. In teoria, il giu­dice potrebbe anche sollevare eccezione di incostituzionalità davanti alla Consulta. Dal canto suo il Comune già ieri ha condiviso la posizione di Atm. Il vicesindaco, Riccardo De Corato, ha fatto notare che «gli ultimi inquietanti progetti di attentati islamici nella metro­politana invitano a non modifi­care il regio decreto, visto che l'Expo costituisce un fattore pre­disponente ad azioni crimino­se». «Questa tesi è inaccetta­bile sul piano culturale e infondata su quello giu­ridico — contesta Al­berto Guariso, legale di Avvocati per niente —. Non è lo stato giuridico di cittadino che ga­rantisce una con­dotta Nell’attesa della sentenza il rapporto difficile tra gli stra­nieri e i mezzi pubbli­ci (nei mesi scorsi la Le­ga aveva auspicato posti riservati agli italiani su tram e bus) divide il sindacato. La Cgil già da tempo si è detta fa­vorevole all’apertu­ra delle assunzioni a chi non ha la citta­dinanza. «La relazio­ne negativa tra sicurez­za e stranieri stabilita dal Comune è gravissima — aggiunge il segretario ge­nerale della Camera del Lavoro, Onorio Rosati —. Siamo all’as­surdo: pretendiamo l’Expo e di­scriminiamo gli stranieri». La Cisl dice sì a uguaglianza e integrazione dei cittadini extracomunitari anche nel settore dei trasport: è la posizione di Gigi Petteni, segretario generale della Cisl della Lombardia. Walter Galbusera, segretario ge­nerale della Uil milanese e lom­barda, invece, è esplicito: «L’apertura delle aziende del trasporto pubblico agli immi­grati non è una priorità. Anche perché sarebbe suscettibile di creare tensioni tra italiani e stra­nieri». Ma se l’azienda non tro­va gente da assumere? «Meglio aumentare gli stipendi. Così più italiani si renderanno dispo­nibili». Rita Querzé http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/09_giugno_11/atm_immigrati_ricorso_mohamed_sindacati_regio_decreto-1601452800986.shtml

Capo Rizzuto, libertà vigilata

In dieci anni sono 80mila i migranti passati dalle strutture del centro calabro Scritto per noi da Gian Luca Ursini Due giorni di forte scirocco hanno dissuaso dai controlli la guardia costiera e le molto più efficienti pattuglie delle ‘ndrine locali che non vogliono sbarchi di clandestini su spiagge adibite di solito al traffico di kalashnikov. E così un gruppo di decine di curdi è riuscito a raggiungere le coste calabresi a bordo di un veliero di lusso rimediato in Turchia, che li ha portati fino a Caulonia, confine tra le province di Reggio e Catanzaro. Poche ore dopo - era il 3 di giugno - la polizia ha recuperato 32 di questi curdi di nazionalità turca tra la stazione ferroviaria e la statale Jonica mentre cercavano di raggiungere a piedi l'aeroporto di Crotone, a cento chilometri di distanza. Dopo le prime cure fornite dalle Ong locali e dai comuni di Caulonia, Stignano e Riace, che aderiscono a un programma comunitario (‘Sprar') di accoglienza per i richiedenti asilo, i malcapitati si sono resi conto di aver commesso un grave errore nel prendere in consegna il tre alberi di lusso con interni in tek birmano da chissà quale armatore di fortuna di Izmir (Smirne) per arrivare fin in Calabria e non a Lampedusa: sono stati subito tradotti verso il più infausto dei dieci Centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo d'Italia: quello di Crotone, o meglio Sant'Anna, di Isola di Capo Rizzuto. Capo Rizzuto, Alabama Attorno a questo ex Cpt i media locali stanno costruendo una campagna di demonizzazione da almeno 6 mesi, da quando si scoperse che i posti letto nel centro erano inadatti ad ospitare gli attuali 2.500 ospiti, molti dei quali si arrangiavano al porto di Crotone, dentro le vecchie ‘carrette del mare' sulle quali spesso erano sbarcati in Italia, sequestrati dalla Finanza e tenuti in rada nel piccolo porto turistico pitagorico. Il Cpt è meno ‘infernale' di Lampedusa o Gradisca d'Isonzo, perché gli ospiti sono liberi di uscire al levare del sole e dalle 1.500 alle 2.000 persone ogni giorno si riversano per il borgo di S'Anna, 1300 anime di frazione di Capo Rizzuto che comunque ne conta appena 15mila. "Crotone e Isola sembrano cittadine dell'Alabama anni ‘50" titolava l'ultraconservatore quotidiano principe in Calabria, la "Gazzetta del Sud'' pro- berlusconiana, per sottolineare che i locali vedevano come disvalore la convivenza con i profughi, in gran parte africani. Centro di prima 'accoglienza'. Capo Rizzuto venne creato nel 1999 presso l'aeroporto di Crotone per ospitare i profughi dal conflitto del Kosovo nei Balcani. In 10 anni ha ospitato 80mila migranti; ora è la destinazione principale di chi sbarca a Lampedusa dai barconi degli scafisti, dopo pochi giorni nel Cpt siciliano. La libera circolazione dei migranti ha finora creato problemi più che altro agli stessi stranieri: una moldava ha denunciato lo stupro da parte di un calabrese e alcune nigeriane ad opera di ignoti, ma sui verbali nei giorni seguenti è stato riportato "ad opera di connazionali". I giornali locali riportano le voci dei crotonesi secondo i quali "le nigeriane quando escono dal campo mettono su un bordello a cielo aperto sulla statale Jonica"; Crotone è lontana 8 chilometri ma il sindaco Peppe Vallone vuole mantenere quanto più ampie le distanze coi nuovi arrivati: ha disposto il raddoppio delle forze di polizia urbana con nuove assunzioni e impedito l'accattonaggio sul suo territorio comunale da marzo. "Se questi non li vuole nessuno, perché ce li dobbiamo accattare (prendere, ndr) noi?", attacca con logica elementare. "Abbandonati da Berlusconi" Ben più umanitaria di Vallone è la sua collega che governa Isola Capo Rizzuto con una giunta di centro: Carla Girasole. "Siamo abituati ad ospitare migranti, visto che già in 3mila lavorano qua stabilmente nella zootecnia e agricoltura per 25 euro al giorno; va meglio alle loro donne che hanno trovato impiego a Crotone nelle pulizie domestiche per una media di 6 euro l'ora". Il problema principale della signora sindaco è creare strutture per l'integrazione. "Il culto, cristiano e non, è ancora in gran parte abusivo: esistono moschee non autorizzate nei garage per marocchini tunisini e ghanesi, albanesi, mentre ucraini rumeni e moldavi presenziano a funzioni di rito ortodosso nelle nostre chiese. L'accoglienza abitativa è di emergenza: occupano tutti casolari di campagna abbandonati o seconde case al mare che i calabresi non reclamano. D'altronde non pagano tributi e noi non possiamo offrire servizi; ma i migranti che vengono qua a lavorare sono integrati nella comunità, quelli al S. Anna sono di passaggio e la loro presenza è vissuta con ansia dai miei concittadini. Oramai quasi nessuna donna vuole rimanere in casa da sola durante il giorno". Isola però deve tanto al centro di prima accoglienza: 2 milioni 900 mila euro in due anni per tenere pulizia, manutenzione locali e i due impianti di depurazione. "Una miseria - protesta la sindaco - ci faccio lavorare poche decine di dipendenti comunali. E' vero però che il Centro è forse il maggior datore di lavoro a Isola per la ricaduta di lavoro che ha sulla ‘Misericordia' (che dovrebbe offrire servizi sanitari, ndr): in 3 anni questa Onlus ha ricevuto 46 milioni, sicché nel Cpa lavorano almeno 130 operatori di ‘Misericordia' e 50 di altre ong; una piccola azienda, che oltre a questi 200, offre altri posti di lavoro con l'indotto: pasti e vendita di beni di prima necessità come bevande e sigarette. Adesso però diciamo allo Stato e al Governo che servono altri soldi: devo assumere una decina di vigili urbani per controllare di giorno Sant'Anna quando i migranti escono dal Centro, dove porteremo un camper con interpreti e mediatori culturali; e abbiamo in mente anche altri progetti: un mercato permanente per servire gli immigrati e un centro di raccolta per gli stagionali agricoli. Abbiamo un edificio fatiscente, Villa Ilici, da destinare a ricovero per chi non ha un tetto, così come altri immobili confiscati alle cosche mafiose, per dare abitazioni a stagionali e asilanti. Ma se da Berlusconi non arriva un soldo..."

il libro. “Italiani, brava gente?” di Angelo Del Boca

(Giuseppe Licandro - LucidaMente, maggio 2009) Angelo Del Boca (Novara, 1925), storico e narratore, può essere considerato il maggiore studioso del colonialismo italiano. Tra le sue opere più importanti ricordiamo Gli italiani in Africa Orientale e in Libia (Laterza) e La nostra Africa (Neri Pozza editore). Del Boca è stato uno tra i primi storici a parlare delle atrocità compiute in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia dai militari italiani, i quali fecero largo uso di armi chimiche e allestirono disumani campi di concentramento, assumendo comportamenti fortemente razzisti nei confronti della popolazione locale. Il suo lungo saggio Italiani, brava gente? Un mito duro a morire (Neri Pozza editore, pp. 336, € 12,00), pubblicato nel 2005, è stato recentemente ristampato dalla casa editrice vicentina. Ne consigliamo la lettura, molto istruttiva, che serve a sfatare una leggenda tuttora persistente nell’immaginario collettivo popolare: la presunta bontà degli italiani. Imbarazzanti pagine di storia – Ripercorrendo le vicende del Belpaese dai primi decenni postunitari fino agli avvenimenti più recenti, Italiani, brava gente? prende in esame «alcuni episodi, particolarmente efferati, accaduti in Italia, in alcuni paesi europei occupati dalle forze dell’Asse e nelle colonie italiane d’oltremare». Del Boca descrive talune fra le pagine più imbarazzanti, e perciò spesso sottaciute, della storia d’Italia, utilizzando fonti assolutamente attendibili, tra cui i documenti ufficiali redatti dalle autorità militari e politiche che attestano quanto accaduto. Tra i misfatti più gravi vengono menzionati in particolare: i massacri perpetrati dall’esercito “piemontese” contro le popolazioni meridionali negli anni del brigantaggio (tra cui le stragi di Casalduni e Pontelandolfo, due paesi del Beneventano); la repressione messa in atto contro abissini ed eritrei durante l’avventura coloniale del 1885-1896, nel corso della quale fu aperto un greve penitenziario per i prigionieri politici nell’isola di Nocra (rimasto in funzione fino al 1941); le violenze commesse agli inizi del Novecento dal contingente italiano che fece parte della coalizione internazionale di truppe inviate in Cina per reprimere la rivolta dei boxers; lo schiavismo praticato dai coloni italiani in Somalia; la deportazione nei campi di concentramento della Sirtica di circa centomila libici della Cirenaica, che avvenne nei primi anni Trenta e fu diretta dal generale Rodolfo Graziani; l’invasione dell’Etiopia nel 1935, che venne realizzata anche grazie all’uso di gas asfissianti (iprite e fosgene) e fu contrassegnata da tremendi eccidi, come quello di duemila monaci e diaconi del convento di Debrà Libanòs; la “bonifica etnica” che il fascismo tentò di attuare nella Venezia Giulia contro sloveni e croati; le stragi compiute – soprattutto dai militi della Repubblica sociale italiana, ma anche da parte di qualche gruppo partigiano – durante la guerra civile seguita all’8 settembre 1943. La parte finale del volume è dedicata all’Italia repubblicana e contiene una serie di riflessioni sugli eventi che ne hanno reso instabile la vita politica e sociale, a partire dalla repressione delle proteste contadine degli anni Quaranta dello scorso secolo fino all’avvento del “berlusconismo”. Del Boca rievoca anche i vari tentativi di golpe, la strategia della tensione, gli “anni di piombo” e Tangentopoli, descrivendo la parabola discendente intrapresa dal sistema partitico della Prima repubblica, che è sfociata, infine, in un nuovo assetto del quadro politico. La leggendaria “bontà italiana” – Il mito della “bontà italiana” nacque nel secondo Ottocento, all’interno degli ambienti politico-militari impegnati dapprima nella costruzione dello stato unitario e in seguito nell’espansione coloniale, trovando i suoi divulgatori in letterati di successo come Edmondo De Amicis ed Emilio Salgari. L’immagine edulcorata degli italiani, rimossa in parte durante il fascismo (che invece privilegiò l’ideale del conquistatore intrepido e implacabile), fu riproposta dopo la Seconda guerra mondiale, anche per differenziare il comportamento mantenuto dai soldati nostrani rispetto a quelli tedeschi durante le operazioni belliche. Il luogo comune sulla proverbiale pacatezza delle nostre truppe è stato alimentato, oltre che dalla stampa, persino da talune opere cinematografiche, alcune delle quali d’indubbia qualità: ci riferiamo, ad esempio, a vecchi film come I due nemici di Guy Hamilton o Italiani brava gente di Giuseppe De Santis e al più recente Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Questo mito, a giudizio di Del Boca, «appare in realtà, all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita» e non possiede «alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico». È vero, infatti, che «gli italiani, in talune circostanze, si sono comportati nella maniera più brutale, esattamente come altri popoli in analoghe situazioni». Ecco perché gli artefici delle efferatezze descritte nel libro «non hanno diritto ad alcuna clemenza, tantomeno all’assoluzione». Giudizi imparziali – L’obiettività dei giudizi formulati da Del Boca è testimoniata dal fatto che egli, pur essendo stato partigiano, non sottace le violenze ingiustificate compiute da talune formazioni appartenenti alla Resistenza («tra la fine del 1945 e l’estate del 1946, soprattutto in Emilia-Romagna e, in modo particolare, nel “triangolo della morte”»), né dimentica la vicenda delle Foibe, le cavità naturali in cui oltre un migliaio di cittadini italiani residenti in Istria e in Dalmazia furono uccisi dall’Armata popolare di liberazione della Jugoslavia guidata dal maresciallo Tito. Lo studioso novarese, comunque, inserisce correttamente questi tristi avvenimenti all’interno del contesto storico in cui accaddero, delineando gli aspetti salienti della guerra civile che contrappose i fascisti agli antifascisti e tracciando il quadro complessivo dei conflitti etnici esplosi nella Venezia Giulia. Senza dimenticare, pertanto, né i campi di concentramento (Arbe, Gonars, Monigo, ecc.) creati dal governo fascista per annientare la resistenza di croati e sloveni, né gli eccidi compiuti dalle truppe nazifasciste tra il 1943 e il 1945 (a Bardine di San Terenzio, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Vallucciole, ecc.). «Fare gli italiani» – Del Boca si sofferma a esaminare un altro tema particolarmente caro all’intellighencija nostrana: la necessità, già espressa a suo tempo da Massimo D’Azeglio, di «fare gli italiani», cioè di dar corpo a una identità nazionale ben definita, forgiando il carattere dei cittadini. Se la classe dirigente liberale tentò, con metodi spesso inadeguati e risultati deludenti, di sviluppare nella popolazione «il civismo e la coscienza morale», con l’avvento del fascismo si volle creare un «uomo nuovo», ovvero «un soldato nuovo, più tenace, più aggressivo, persino più crudele». Gli esiti disastrosi della Seconda guerra mondiale minarono la credibilità di questo modello antropologico, lasciando spazio ad altre schematizzazioni, quali il “buon padre di famiglia” della tradizione cattolica e “l’operaio” della cultura social-comunista. Agli inizi del Nuovo millennio, una diversa tipologia d’italiano («un grande lavoratore e produttore, ma anche [...] un instancabile consumatore di beni») sembra aver preso il posto degli stereotipi precedenti. Questo nuovo tipo di cittadino appare il «chiaro prodotto del consumismo, dell’ignoranza e dell’egoismo», a cui Del Boca contrappone «l’esercito dei quattro milioni di volontari, che ogni giorno, in silenzio, quasi in segreto, scende nelle strade dell’Italia e del mondo per combattere la sofferenza nei suoi mille aspetti». Sono questi gli italiani che, a suo avviso, possono veramente fregiarsi dell’epiteto di «brava gente». Il “leone del deserto” – Nel libro di Del Boca si menziona anche la storia di Omar al-Mukhtàr, l’anziano capo dei guerriglieri senussiti che in Libia tenne testa alle truppe italiane dal 1923 al 1931, finché non fu catturato dal generale Graziani e, dopo un processo sommario, impiccato. La strenua resistenza delle milizie libiche, che portò alla luce le debolezze militari dell’esercito italiano insieme alle sue crudeltà, è stata completamente rimossa dalla memoria storica del nostro paese, al punto che il film Lion of the Desert (1980), dedicato ad al-Mukhtàr e diretto dal regista siro-statunitense Moustapha Akkad, venne addirittura censurato nel 1982 dal governo italiano, il quale ne vietò l’uscita nelle sale cinematografiche con una motivazione del tutto pretestuosa: «lesivo dell’onore dell’esercito». Le ragioni di tale ostracismo dipendono, come ha giustamente scritto Angela Luisa Garofalo nell’articolo Lion of the Desert: il caso di una rimozione storica (Rnotes, n. 20, 2005), «dalla volontà di rimuovere ed occultare tracce che ricordano un’esperienza storica – quella del Fascismo e degli atti compiuti durante il regime – fallimentare ed infamante per l’immagine del nostro paese». Ricordiamo che ancora adesso (incredibilmente!) questa pellicola è irreperibile all’interno dei normali circuiti di distribuzione del cinema italiano. Giuseppe Licandro (LucidaMente, anno IV, n. 42, giugno 2009)

G8: Gheddafi, leader mettano soldi in Africa come fatto per banche

ROMA (MF-DJ)--Al G8 di luglio, che si terra' a L'Aquila, il leader libico Muammar Gheddafi chiedera' ai rappresentanti europei di riconoscere di "aver colonizzato l'Africa e depredato le sue risorse: se ce le restituiranno, gli africani potranno restare nei loro Paesi". Lo ha affermato Gheddafi nel corso del suo intervento all'Universita' La Sapienza, sottolineando che i Governi occidentali "hanno pompato miliardi di dollari nelle banche fallite", e che dovrebbero fare altrettanto per l'Africa: "non e' un regalo, ne' carita', e' un diritto". I Governi, ha proseguito Gheddafi, devono "mettere soldi in Africa come fatto nelle grandi banche, cosi' si fermera' l'immigrazione. Chiedero' questo al G8 e anche all'Assemblea generale dell'Onu". Il risarcimento dell'Italia alla Libia per il periodo coloniale "deve fare da esempio: tutti gli altri Paesi colonizzatori devono risarcire l'Africa e chiedere scusa per quello che e' successo". Elisabetta Rovis, http://www.borsaitaliana.it/borsa/area-news/news/mf-dow-jones/italia-dettaglio.html?newsId=611513&lang=it

Consolo: «I respingimenti, violazione dei diritti umani» 11 giugno 2009 | laura guglielmi

IL MEDITERRANEO è diventato un luogo di morte, sciagure umane, naufragi»: Vincenzo Consolo, sempre dalla parte degli umili e degli ultimi, non può non sentire il profondo senso di tragedia che porta con sé l’epopea di migliaia di esseri umani che, partendo dall’Africa, sbarcano sulle spiagge siciliane per venire respinti verso ignote destinazioni. Lo scrittore siciliano, 76 anni, autore di sofisticate opere come “Lo spasimo di Palermo”, “Lunaria” e “Retablo”, vincitore di numerosi premi fra cui il Pirandello, il Grinzane Cavour e lo Strega sarà oggi alle 17.45 a Palazzo Ducale di Genova, per il ciclo di incontri “Mediterranea”, assieme a Franco Cassano, docente di Sociologia della conoscenza all’Università di Bari. Insieme hanno scritto “Lo sguardo italiano. Rappresentare il Mediterraneo”, primo volume di una collana curata da Mesogea. «Quando gli immigrati arrivano a Lampedusa vengono rinchiusi in quei lager che chiamano centri di identificazione» continua Consolo «dove in molti compiono atti di autolesionismo. Ora, con le nuove leggi, li si rispedisce in Libia, così vanno a finire nelle mani di Gheddafi, che li ributta nel deserto. Non sappiamo neanche chi sono e perché vengono da noi, se stanno scappando dalla guerra o dalla fame di un continente impoverito anche per colpa nostra». Fin dall’antichità, la storia del mondo e, quindi anche la storia del Mediterraneo, è storia di immigrazione, un viaggio verso l’ignoto così ben raccontato già da Virgilio nell’Eneide: «Dopo la guerra di Troia, Enea è stato costretto a trovare una nuova terra. La Sicilia è stata colonizzata da tanti popoli, tra cui i Greci, che hanno portato la civiltà. Sotto il dominio normanno, c’erano trecento moschee, tante sinagoghe e chiese ortodosse, un’epoca di estrema tolleranza e pacifica convivenza». Gli italiani sono emigrati in massa, dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento, approdando in America del Sud e del Nord, o in Australia. Un viaggio per scappare dalla miseria ben raccontato da Edmondo De Amicis, in “Dagli Appennini alle Ande”. Poi una seconda emigrazione negli anni Cinquanta del Novecento. «Io vivevo già a Milano, ero studente, abitavo in piazza Sant’Ambrogio, che ho soprannominato piazza dei destini incrociati» racconta Consolo «Sulla piazza si affacciavano una caserma dei celerini di Scelba e un centro di orientamento per gli immigrati meridionali, che venivano mandati, nelle fabbriche del Nord Italia e della Germania o nelle miniere del Belgio. Una realtà che mi colpì molto: sia tra gli immigrati sia tra i celerini riconoscevo gente del mio paese. Poi, non bisogna dimenticare che nei primi del Novecento, molti italiani sono immigrati nel Maghreb, per costruire strade o lavorare in miniera, una comunità di più di centomila persone, a cui apparteneva la famiglia di Claudia Cardinale, che è nata in Tunisia». Uno scambio continuo, nei secoli, tra le sponde del Mediterraneo, una comunicazione tra popoli fratelli che non può essere interrotto. Il Mare Nostrum da sempre crocevia di popoli e merci, ora è diviso in due da un muro invisibile: «Dal 1968 in avanti tanti tunisini si sono insediati a Mazara del Vallo, come già accadde nell’800 dopo Cristo. Non ha senso adesso respingerli così, si ledono i diritti umani. Non siamo certamente un esempio di civiltà». La camorra e tutte le mafie sono una piaga, un conflitto che nel Mediterraneo non ha eguali, secondo solo a quello araboisraeliano. Roberto Saviano nel libro “Gomorra” ne ha denunciato le atrocità. «Conosco Saviano da anni, mi veniva a trovare quando ancora non aveva pubblicato niente» racconta Consolo «“Gomorra” è un libro importante, utile per far conoscere una realtà, ma non serve a risolvere la situazione. Neanche i libri di Sciascia sono serviti. Per dare risposte precise sono necessari i magistrati. Oppure i politici, purché non siano conniventi».

GHEDDAFI A ROMA: BAIO, LIBIA GARANTISCA DIRITTI UMANI

(IRIS) - ROMA, 11 GIU - 'La Libia deve garantire i diritti umani'. Lo dichiara la senatrice del Partito democratico Emanuela Baio. 'La politica estera italiana deve continuare ad essere attenta e puntuale nel mantenimento dei rapporti bilaterali tra Italia e Libia, ma non si possono dimenticare alcuni nei. Il dialogo istituzionale con la Libia non puo' prescindere da diverse priorita': la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra del 1951, relativa allo status di rifugiati, che la Libia non ha ratificato, e senza la quale i respingimenti di migranti richiedenti asilo, fermati in acque internazionali, risulterebbero contrari al diritto internazionale, perche' rinviati verso uno Stato che non garantisce assistenza ai richiedenti asilo; garantire la liberta' alle molte persone detenute per motivi politici e di coscienza. Come sempre e' avvenuto nei rapporti bilaterali, di fronte a Stati non liberali, lo Stato italiano ha sempre chiesto di liberare alcuni cittadini, speriamo che anche questa volta tale richiesta venga formulata con determinazione e autorevolezza, in particolare per Fathi el-Jahmi, prigioniero di coscienza detenuto dal 2004 e di Idriss Boufayed e di altre 11 persone che stanno scontando pene detentive fino a 25 anni'. Conclude Baio: 'Ci sono molti altri punti irrisolti, ma iniziamo con queste due richieste, perche' rappresentano le basi per un nuovo rapporto Italia - Libia'. MarDi

L'Etiopia aprirà al turismo il sito di un'antica moschea

L'Etiopia ha lanciato una serie di attività per fare della moschea Al Nejashi - considerata patrimonio mondiale dall'Unesco e denominata 'seconda Mecca' per la sua importanza - una destinazione turistica. Il ministro etiopico della Cultura e del Turismo, Mahamouda Ahimed Gaas, ha preannunciato una serie di iniziative per fare della moschea del re Ahmed Nejashi, situata nella provincia del Tigrè (circa 900 chilometri a Nord di Addis Abeba), una destinazione turistica di primo piano. Gaas ha spiegato che sono in corso i lavori per la messa a punto del progetto, che prevede la realizzazione di un moderno albergo, un'università islamica ed un istituto di ricerca. La moschea porta il nome del re etiopico che circa 1.400 anni fa diede ospitalità a numerosi profughi musulmani. L'edificio religioso è stato ritenuto il simbolo della buona coesistenza tra religioni diverse in Etiopia. L'Islam giunse nel Paese del Corno d'Africa nel 615 d.C., con l'arrivo dei primi musulmani che si installarono a Negash, un villaggio situato a 60 chilometri a Est di Mekele, capitale della provincia del Tigrè. http://www.ttgitalia.com/pagine/news_L_Etiopia_aprir%C3%A0_al_turismo_il_sito_di_un_antica_moschea.aspx?id_news=249634&idx=0&L=IT

Gheddafi contestato da studenti, critica politica Usa in Iraq

ROMA (Reuters) - Muammar Gheddafi è stato contestato oggi da un gruppo di studenti, durante la sua prima visita ufficiale in Italia, e si è lamentato della scarsa ricompensa ottenuta dalla Libia per aver rinunciato ai propositi di costruzione di armi di distruzione di massa. Gheddafi ha anche usato parole critiche nei confronti della guerra a guida Usa in Iraq. "Non possiamo accettare di vivere all'ombra dei missili intercontinentali e delle armi nucleari, che sono stati il motivo per cui abbiamo cambiato rotta", ha detto il leader libico ai senatori italiani. "Abbiamo sperato che la Libia potesse essere d'esempio per altri paesi. Ma non siamo stati ricompensati adeguatamente dalla comunità internazionale". La nazione nordafricana, un tempo accusata di sponsorizzare e sostenere il terrorismo, ha vissuto una stagione di disgelo nei rapporti con l'Occidente, dopo la promessa di Gheddafi di rinunciare alla ricerca di armi di distruzioni di massa. Le sanzioni a carico della Libia, infatti, sono state revocate nel 2003. L'Italia, che lo scorso anno si è ufficialmente scusata per le atrocità del periodo coloniale, è stata una delle nazioni promotrici di questo disgelo e ora la Libia fornisce un quarto delle risorse petrolifere italiane. Recentemente, poi, capitali libici sono stati investiti in società italiane. Ma Gheddafi ha comunque mantenuto un atteggiamento di sfida, arrivando all'aeroporto di Ciampino con un'immagine di Omar al- Mukhtar, un eroe libico della Resistenza impiccato dagli occupanti italiani nel 1931, appuntata sul petto. La tv italiana trasmetterà oggi il film del 1981 su al-Mukhtar "Il leone del deserto", un film bandito in Italia fino ad oggi. Gheddafi, che parteciperà al G8 che si terrà in Italia come presidente dell'Unione Africana insieme al presidente Usa Barack Obama, in un incontro con gli studenti dell'Università la Sapienza di Roma ha anche annunciato che chiederà ai paesi industrializzati del G8 di impegnarsi per risarcire per i paesi africani vittime della colonizzazione. "Dobbiamo riconoscere che gli africani sono stati trattati come animali. Dovremmo chiedere perdono e adoperarci per far sì che le risorse ritornino ai legittimi proprietari", ha detto Gheddafi. "Anche se le risorse depredate sono ormai state utilizzate, questo non vi scusa. Dovete pensare a come ricompensarli, dovete pensare che li avete derubati delle loro ricchezze e quindi dovete loro un risarcimento. In questo modo fermeremo anche l'immigrazione e vinceremo la più importante sfida del nostro tempo". Il leader libico ha anche espresso il suo dissenso sulla guerra in Iraq guidata dagli Stati Uniti. "REGIMI DI OGNI TIPO" "L'Iraq era una fortezza contro il terrorismo. Con Saddam Hussein al Qaeda non sarebbe mai entrata nella zona ma ora, grazie agli Usa, l'Iraq è zona aperta e di questo beneficia proprio al Qaeda", ha detto Gheddafi nel suo discorso ai senatori italiani. Il leader libico ha anche paragonato l'attacco statunitense a Tripoli nel 1986, dove Gheddafi perse anche una figlia, a un'azione terroristica di al Qaeda. "Che differenza c'è tra l'attacco statunitense contro le nostre case, nel 1986, e le azioni terroristiche di Bin Laden? Se Bin Laden non ha uno stato ed è un fuorilegge, gli Usa sono uno stato con regole internazionali". Dopo aver argomentato che il mondo deve accettare "regimi di ogni tipo", compreso quello "rivoluzionario" libico, Gheddafi ha chiesto: "Che c'è di sbagliato se la Corea del Nord vuole essere comunista? O se l'Afghanistan vuole essere nelle mani dei mullah? Il Vaticano non è un rispettabile stato teocratico con ambasciate in tutto il mondo?". Ieri, in una conferenza stampa tenuta con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Gheddafi aveva detto che "l'Italia è l'unico paese ex coloniale che non possiamo più biasimare", proprio per via della sua decisione di "ripulire" questo suo passato coloniale. Berlusconi ha annunciato che la Libia ha accettato di fornire più petrolio all'Italia, mentre il capo del fondo sovrano libico ha detto che sono al vaglio eventuali investimenti nel settore dell'elettricità italiana, ma anche per quanto riguarda società di infrastrutture ed eventuali joint venture con l'Italia in Libia. Ma alcuni studenti, che protestavano contro l'accordo Italia-Libia per bloccare i barconi di migranti africani nel Mediterraneo e contro la situazione dei diritti umani in Libia, hanno tentato di interrompere il discorso di Gheddafi all'Università la Sapienza, gettando vernice e entrando in contatto con i poliziotti. Alcuni senatori dell'opposizione, poi, hanno ottenuto che Gheddafi non parlasse nell'aula di Palazzo Madama, ma a Palazzo Giustiniani, sede della presidenza del Senato. "RIFUGIATI ECONOMICI E NON POLITICI" Gheddafi non è abituato ad essere incalzato su temi come la democrazia e i diritti umani in Libia, ma oggi ha dovuto rispondere a difficili domande, poste dagli studenti dell'Università la Sapienza di Roma. "Come definirebbe il termine democrazia?", ha chiesto uno studente. "Non significa solo avere scuole e ospedali che funzionano. Anche Mussolini ce li aveva", ha continuato il ragazzo. Gheddafi, salito al potere con un colpo di stato nel 1969, ha risposto con un discorso circa le origini della democrazia e ha precisato come in Libia i cittadini siano liberi di esprimere la propria opinione perché possono prendere parte ai "congressi popolari". Un altro studente si è soffermato, invece, sulla situazione dei diritti umani, citando un rapporto di Amnesty International sulle condizioni in cui versano gli stranieri e gli immigrati che sono respinti dall'Europa e condotti in Libia. Gheddafi è rimasto calmo. "Io sono d'accordo con voi che diritti umani debbano essere rispettati che i rifugiati politici debbano essere protetti. Ma prima dobbiamo identificare chi si può definire veramente rifugiato politico". Il leader libico, infatti, ha detto che molti di quelli che scappano dal continente africano per tentare di raggiungere le coste europee sono rifugiati economici e non politici. "Gli africani stanno soffrendo la fame. Sono in cerca di cibo, non conoscono la politica, tantomeno le elezioni", ha concluso Gheddafi.