domenica 30 agosto 2009

"Qualcuno deve spiegazioni"

di Daniele Biella La denuncia del rappresentante eritreo: "nessuno ha visto la barca alla deriva?" “Sono vite umane, non un carico di merce. Com’è possibile che con tutti i controlli in atto negli ultimi mesi, nessuno ha visto una barca con 80 persone per 23 giorni alla deriva?”. È sconvolto Mussie Zerai, 34 anni, presidente dell’associazione eritrea Agenzia Habeshia, che dal 2006, con sede a Roma, aiuta a integrarsi le persone dello Stato africano che riescono ad arrivare in Italia. Con Vita.it, che l’ha raggiunto al telefono, Hadeshi ha cercato di capire come sia potuta accadere l’ennesima tragedia del mare, che ha portato, secondo i racconti dei cinque superstiti recuperati giovedì 20 agosto e ora al vaglio della Magistratura, almeno 73 persone a perdere la vita in mare. Suscitando sconcertate reazioni sulla carta stampata (a questo link l’editoriale di oggi su Avvenire) e diverse prese di posizione nel mondo politico (leggi qui), in attesa che il Governo riferisca in Parlamento a proposito, come dovrebbe fare a breve. Com’è potuta accadere una strage di simile portata? Non me lo so spiegare. Nessuna notizia, nessun avvistamento in più di venti giorni, è incredibile e assurdo. Se il tratto è costantemente sorvegliato dalla polizia di Frontex (il coordinamento della Ue per gestire le frontiere esterne, ndr) e dai recenti accordi bilaterali Italia-Libia, com’è possibile che nessuno abbia visto niente? Qualcuno dei tre governi, italiano, libico o maltese, ci deve delle spiegazioni. Voi sapevate della presenza della barca nel Mediterraneo? Negli ultimi giorni circolavano voci sempre più consistenti nella comunità eritrea. In particolare, il 13 agosto mi ha contattato un prete gesuita che vive a Malta, e mi ha chiesto se sapevo qualcosa di una barca con 80 eritrei a bordo che, secondo le sue informazioni, era partita dalla costa libica lo scorso 29 luglio. Mi disse che alcune famiglie eritree l’avevano contattato dall’estero chiedendo notizie dei propri parenti. Io ho chiesto ai contatti che abbiamo in Libia, ma nessuno mi ha saputo dire alcunché su quella barca. Poi, la scorsa settimana, si è saputo di un respingimento italiano di un’imbarcazione con a bordo 84 persone, poi riaccompagnate in Libia. All’inizio sembrava poter essere quella barca, ma invece si trattava di un’altra. Uno dei sopravvissuti ha raccontato che l’unico a prestare soccorso ai migranti è stato un peschereccio che ha fornito loro acqua... Sì, e c’è una cosa che mi stupisce: come mai non ha dato l’allarme? Un altro mistero riguarda anche le persone sulla barca: di solito, in questi casi, in emergenza qualcuno manda un sos dal satellitare, oppure chiamano direttamente. Ad esempio è successo che mi contattassero dal mare, poi io chiamavo la Guardia costiera per segnalare la loro posizione. Ma stavolta, nulla. Perchè? Nel frattempo aspettiamo di sapere anche indicazioni più precise da chi si è salvato. Ma qualcuno risponda, soprattutto chi ha competenza. È lì che si trovano le colpe? Senza dubbio. I governi hanno una parte rilevante di responsabilità. È stato istituito un “muro triangolare” per non far passare più barche di disperati, sono stati spesi miliardi di Euro. Posso capire le politiche da attuare e le scelte dei singoli Governi sul fatto che sia impossibile far entrare tutti in modo indiscriminato, ma se di sorveglianza si tratta, bisogna anche sorvegliare per salvare vite umane. Da che cosa fugge la gente eritrea? Da un paese che da anni è nella morsa di una dittatura soffocante, che nega le libertà personali. Le persone cercano di fuggire in tutti i modi, spesso, chi può permetterselo, corrompendo le guardie alla frontiera. La via preferita è quella del Mediterraneo, passando da Sudan e Libia per arrivare poi in Europa con le barche. L’altra è quella via terra, dall’Egitto e da Israele, altrettanto proibitiva perchè lì le autorità di frontiera sparano, e i morti si contano a decine. Via mare il numero degli emigranti è calato di poco negli ultimi tempi, anche a conseguenza dell’entrata in vigore dei respingimenti, ma il flusso di disperati è ininterrotto. Ci sono alternative? Una soluzione ci sarebbe, lo denunciamo da tempo: bisognerebbe mettere un “filtro”, magari in Libia se in Eritrea oggi non è possibile, gestito ad esempio dall’Acnur (o Unhcr, Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati), che regola il numero degli ingressi vagliando le richieste di asilo delle persone. In questo modo, se ci fosse una possibilità simile, più istituzionale, molti di meno rischierebbero la vita cercando di superare il Mediterraneo.

Rifugiati nell'ex clinica: la denuncia di un videomaker | Torino la Repubblica.it

Rifugiati nell'ex clinica: la denuncia di un videomaker | Torino la Repubblica.it

Rifugiati nell'ex clinica: la denuncia di un videomaker

Rifugiati nell'ex clinica: la denuncia di un videomaker Un giovane regista torinese Marco Iozzo ha realizzato un cortometraggio per denunciare lo stato di degrado in cui vivono i circa 340 rifugiati che hanno occupato l'ex clinica San Paolo di corso Peschiera. "Norme di sicurezza inesistenti, un affollamento incredibile - racconta il videomaker - che se la prende con l'indifferenza della città. Adesso nessuno potrà dire di non sapere in che condizioni vivono". I rifugiati l'11 settembre saranno spostati nell'ex caserma di via Asti e nel centro della Cri di Settimo.

sabato 29 agosto 2009

RSS Feed for This PostHai scelto immigrazione : tra ‘precisazioni’ del vaticano e nuove critiche

Fonte: www.misna.org “Con tutto il rispetto possibile e per amore di verità come Capo Dicastero ho il grande onore di fare dichiarazioni a nome della Santa Sede e mai sono stato contraddetto dalla Santa Sede, mai sono stato contraddetto dalla Conferenza episcopale italiana”: lo precisa oggi monsignor Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti, in una nota inviata alla stampa nella quale risponde alle dichiarazioni del ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli, il quale aveva sostenuto che le sue parole “non sono quelle del Vaticano e della Cei da cui, anzi, spesso, lo stesso Vegliò è stato poi contraddetto”. Nella nota, rilanciata dal Servizio informazioni religiose (Sir) della Cei, Vegliò definisce “inaccettabile e offensivo quanto viene riportato più avanti nella dichiarazione del Ministro, quasi che io sia responsabile della morte di tanti poveri esseri umani, inghiottiti dalle acque del Mediterraneo”. “La mia dichiarazione – conclude il presidente del pontificio consiglio - partiva solo da un fatto concreto, tragico: la morte di tante persone, senza accuse, ma chiamando tutti alla propria responsabilità”. Intanto anche oggi nuove critiche sono state sollevate per l’utilizzo politico (non solo interno) che si sta facendo della vicenda dei naufraghi eritrei. Il presidente dell’organizzazione non governativa umanitaria ‘Terre des Hommes’ oggi ha detto che “Sulla pelle dei migranti che dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina, da tutte le guerre dimenticate cercano un futuro migliore, si sta giocando una delicata partita geopolitica in questo caso tra l’Italia, Malta e l’Europa”. Intervistato da Econews, il rappresentante dell’organizzazione ha aggiunto “bisognerebbe che il governo italiano e quello maltese smettessero di litigare per le acque territoriali o almeno ammettessero che questo è veramente l’oggetto del contendere e lasciassero che gli aiuti internazionali, il diritto internazionale, il diritto all’accoglienza dei migranti venga rispettato sia da Malta che dall’Italia che da tutta l’Unione Europea”. Un appello con la richiesta di giustizia per i 73 eritrei morti in mare, secondo le testimonianze dei cinque connazionali soccorsi giovedì scorso a largo di Lampedusa dopo essere rimasti per venti giorni alla deriva, è stato diffuso dall’Agenzia Habeshia, associazione che svolge attività di volontariato in favore di richiedenti asilo, rifugiati, beneficiari di protezione umanitaria presenti in Italia.”Indignati e addolorati per la morte dei nostri 73 fratelli e sorelle migranti – scrive Mussie Zerai Yosief, presidente dell’associazione - Ci chiediamo se anche questi morti fanno parte della strategia di respingimento adottata del governo Italiano? con il silenzio colpevole e indifferente dell’Europa. (…) Vogliamo risposte dai governi Italia, Malta, Libia. Chiediamo che venga fatta una inchiesta europea che accerti le responsabilità dei governi e delle autorità competenti che svolgono il pattugliamento congiunto tra gli stati interessati dai sbarchi”.

Appello: Chiediamo Giustizia per i 73 profughi morti in Mare

Siamo indignati e addolorati per la morte dei nostri 73 fratelli e sorelle migranti. Ci chiediamo se anche questi morti fanno parte della strategia di respingimento adottata del governo Italiano? con il silenzio colpevole e indifferente dell'Europa. Ci chiediamo se questi morti sono il successo dell'accordo Italia - libia? E questo la prevenzione che viene fatta dall'Agenzia Frontex o dal pattugliamento congiunto di cui parlava il ministro degli interni qualche mese fa? Vogliamo risposte dai governi Italia, Malta, Libia. Chiediamo che venga fatta una inchiesta europea che accerti le responsabilità dei governi e delle autorità competenti che svolgono il pattugliamento congiunto tra gli stati interessati dai sbarchi. Basta a questo balletto di scaricare le proprie responsabilità tra gli stati. Chiediamo giustizia! Ci sono chiare responsabilità di stati che hanno ignorato questa imbarcazione con 80 persone a bordo. Questo atto e stato un atto disumano da condannare, per questo chiediamo l' attivazione della corte europea che accerti le responsabilità di stati e di persone che hanno visto l' imbarcazione, non hanno salvato queste persone in pericolo di morte certa. Mussie Zerai Presidente dell'AHCS

lunedì 24 agosto 2009

Il vescovo Simoni celebra messa per ricordare i 73 morti eritrei

Sarà per tutti coloro che hanno trovato la morte avventurandosi in traversate disumane nei cosiddetti 'viaggi della speranza', la messa che il vescovo di Prato, Monsignor Gastone Simoni, celebrerà sabato 29 agosto alle 18 nella cattedrale di Santo Stefano a Prato. Alla messa sarà presente la comunità cattolica eritrea di Prato che si unirà al ricordo dei 73 eritrei morti nel tentativo di raggiungere l'Italia Prato, 24 agosto 2009 - L'ultima tragedia è avvenuta la settimana scorsa: 73 eritrei morti nel tentativo di raggiungere le coste italiane; ma come in questa, molte persone hanno perso la vita nei viaggi della speranza. Il vescovo di Prato, Monsignor Gastone Simoni, col pensiero rivolto a queste tragedie, celebrerà una messa in programma sabato 29 agosto alle 18 nella cattedrale di Santo Stefano a Prato. ''Vogliamo pregare per chi mette a repentaglio la propria vita e muore a causa di questi barbari trasbordi - spiega in una nota monsignor Santino Brunetti vicario episcopale per gli immigrati della diocesi di Prato -: è una questione di giustizia internazionale e un dovere cristiano aiutare coloro che scappano con la morte negli occhi dai Paesi d'origine''. L'ultima ''tragedia del mare'' ha molto colpito la diocesi pratese che ha da anni forti legami con la Chiesa eritrea, in particolare con l'eparchia di Keren, una delle tre diocesi del paese africano, sia con le attività del Gruppo Shaleku, un'associazione collegata alla Caritas diocesana, sia con l'associazione Chebì, che dal 2003 è impegnata nell'aiutare gli eritrei con l'invio di prodotti alimentari. Alla messa sarà presente la comunità cattolica eritrea di Prato che al termine si ritroverà nei locali del duomo per un momento conviviale e di ritrovo, così come prevedono le loro usanze in caso di riti in suffragio di defunti.

Il vescovo Simoni celebra messa per ricordare i 73 morti eritrei

Prato, 24 agosto 2009 - L'ultima tragedia è avvenuta la settimana scorsa: 73 eritrei morti nel tentativo di raggiungere le coste italiane; ma come in questa, molte persone hanno perso la vita nei viaggi della speranza. Il vescovo di Prato, Monsignor Gastone Simoni, col pensiero rivolto a queste tragedie, celebrerà una messa in programma sabato 29 agosto alle 18 nella cattedrale di Santo Stefano a Prato. ''Vogliamo pregare per chi mette a repentaglio la propria vita e muore a causa di questi barbari trasbordi - spiega in una nota monsignor Santino Brunetti vicario episcopale per gli immigrati della diocesi di Prato -: è una questione di giustizia internazionale e un dovere cristiano aiutare coloro che scappano con la morte negli occhi dai Paesi d'origine''. L'ultima ''tragedia del mare'' ha molto colpito la diocesi pratese che ha da anni forti legami con la Chiesa eritrea, in particolare con l'eparchia di Keren, una delle tre diocesi del paese africano, sia con le attività del Gruppo Shaleku, un'associazione collegata alla Caritas diocesana, sia con l'associazione Chebì, che dal 2003 è impegnata nell'aiutare gli eritrei con l'invio di prodotti alimentari. Alla messa sarà presente la comunità cattolica eritrea di Prato che al termine si ritroverà nei locali del duomo per un momento conviviale e di ritrovo, così come prevedono le loro usanze in caso di riti in suffragio di defunti.

Le colpe del regime dell'Eritrea e i silenzi del governo italiano

Le violazioni sistematiche dei diritti umani del dittatore Afoworki. Le vessazioni sugli italiani. E Roma taceMalta avrà pure le sue colpe, ma forse l’arcipelago del Mediterraneo non è il vero problema. Per i disperati che arrivano dall’Eritrea governata da una dittatura rigidissima, le cause del loro dramma si chiamano violenza e repressione. Le galere eritree sono piene di dissidenti, di intellettuali, di giornalisti. Non importa se siano stati eroi della lotta di liberazione contro l’Etiopia, durata trent’anni. Il dittatore Isayas Afeworki non ha risparmiato né combattenti di prima linea, né strateghi della lotta armata. Soprattutto ha voluto zittire i cervelli più fini e più creativi della rivoluzione. PETROS E ASTER - Questo il caso di Petros Solomon, di sua moglie Aster Yohannes e di tre dei loro figli scomparsi nella galere eritree senza lasciare traccia e senza che l’Italia, di cui l’Eritrea è un partner privilegiato, abbia mai chiesto conto. Durante la guerra di liberazione Petros è uno dei leader del Fronte popolare di liberazione eritreo (Fple) e arriva a ricoprire il posto di capo dell’intelligence. È lui che guida i guerriglieri che entrano e catturano Asmara il 24 maggio 1991. Allora diventa ministro dell'Interno, poi della Difesa e degli Esteri. Poi, in dissenso, si defila e gli viene affidato un dicastero minore, quello della Pesca. Finito il secondo conflitto con l’Etiopia, Petros con altri quindici eroi della guerra di liberazione (ministri, generali, sindaci) critici verso il regime, osa sfidare il dittatore: firmano tutti un documento con il quale si chiede a Isayas democrazia e l’applicazione della Costituzione. È la loro condanna. All’alba del 18 settembre 2001, undici di loro, compreso Petros Solomon, vengono arrestati dagli agenti della Hagerawi Dehnet, la polizia segreta. Si salva solo chi è all’estero e tra questi sua moglie Aster Yohannes, una guerrigliera della prima ora e dirigente del Fple. Nel 2000 si era trasferita a Phoenix, in Arizona, con il sogno di completare i suoi studi, grazie a una borsa delle Nazioni Unite. TESTIMONIANZA - Piermario Puliti, ex insegnante della scuola italiana di Asmara, ha passato con Petros la sera prima dell’arresto: «Parlammo accanto allo stereo con il volume alto. Si era accorto di essere spiato. Si sfogò. "Probabilmente mi arresteranno e costruiranno contro di me accuse assurde, corruzione, rapporti di affari con italiani e americani, con i nostri nemici etiopici. Siamo arrivati in ritardo, dovevamo svegliarci prima. Isayas si è preso tutto il potere. Ci arresteranno. Ormai è chiaro: non vuole applicare la Costituzione democratica che abbiamo scritto assieme"». Il governo di Asmara rifiuta ripetutamente le suppliche di Aster per poter ricongiungersi con i suoi bambini cui viene negato il permesso di raggiungerla in America: «Se vuoi rivederli torna ad Asmara». Al telefono lo stesso Isayas le garantisce, con crudele slealtà: «Vieni, non ti sarà fatto nulla». Con gran coraggio lei parte ma lancia un messaggio ai giornali, compreso il Corriere: «Se mi arrestano – scrive - ditelo al mondo». ARRESTO - L’11 dicembre del 2003 i suoi bambini Simon, 13 anni, i gemelli Zeray e Hanna, 10 anni, e la piccola Maaza, 4, sono in trepida attesa all’aeroporto con un regalo affettuoso: un mazzo di rose rosse. Aster scende l’ultimo gradino della scaletta e viene immediatamente arrestata, trascinata via con la forza, sotto gli occhi atterriti dei ragazzini in lacrime mentre gli strappano così la loro mamma. Da quel giorno Aster è sparita. Nessun processo, nessuna incriminazione. Qualcuno dice sia morta. Ma il dramma non finisce qui. I quattro ragazzi, nel frattempo accuditi dalla nonna, frequentano la scuola italiana di Asmara, l’unico istituto decente del Paese. Nel giugno scorso scompaiono. Sanno che subito dopo gli esami finiranno a Sawa, il temuto campo di addestramento militare famoso per le violenze e le torture. IL CAMPO DEGLI STUPRI - Le giovani eritree lo chiamano più semplicemente il campo degli stupri perché finiscono per diventare le concubine degli ufficiali. A inizio luglio si diffonde la notizia che quattro figli di Petros e Aster hanno tentato la fuga verso il Sudan ma sono stati intercettati. Tre ragazzi sono stati arrestati e sono scomparsi. La piccola Maaza riesce a scappare con la nonna materna. SILENZIO DALL'ITALIA - L’Italia in tutto questo si distingue per il suo silenzio assordante. Nessuno che spenda una parola sulle pesanti violazioni dei diritti umani in un Paese che le classifiche di democrazia del mondo collocano ai livelli più bassi. Tutti muti, nonostante gli schiaffi subiti dai nostri connazionali e perfino dai nostri diplomatici: l’espulsione dell’ambasciatore ad Asmara, Antonio Bandini, che aveva osato criticare il regime per l’arresto dei leader nel settembre 2001; il grave ferimento da parte delle guardie di frontiera eritree di un medico, Maria Antonietta Zampino, e di un’infermiera, Teresa Graceffa, nel giugno 2003; il sequestro nel 2005 del quartier generale del contingente dei carabinieri inquadrato ad Asmara nella missione dell’Onu in Eritrea e Etiopia (Unmee). I nostri furono costretti poi andarsene quasi alla chetichella e fu il primo caso della storia dell’Onu, di un Paese che si ritira prima della fine del mandato; l’arresto a Massawa il 4 marzo 2006 del numero due della nostra ambasciata, Ludovico Serra, costretto a passare due notti in guardina e a tornare in autobus ad Asmara; l'abbattimento con fanatismo iconoclasta a Massawa, poche settimane dopo da parte delle ruspe dell'esercito, della splendida villa di Riccardo Melotti, conosciuta come la Cyprea, costruita dall’architetto Luigi Vietti negli anni Sessanta, una delle più belle dimore di tutta l’Africa. E poi l’ospedale italiano confiscato, nostri connazionali finiti in carcere senza motivo apparente, come Alfonso d’Arco poco prima di Natale 2005 e di cui per cinque mesi non si è saputo nulla con la Farnesina impotente. E minacce a giornalisti e ai critici del regime; intimidazioni e aggressioni da parte di scherani del regime verso i profughi eritrei in Italia che partecipano alle manifestazioni contro Isayas; minacce continue contro chi eritreo in Italia non paga il pizzo: il 2 per cento dei propri guadagni deve essere versato nelle casse del governo, altrimenti non si ha diritto al rinnovo del passaporto e ai certificati consolari. INFERNO - Questo è l’inferno da cui la gente scappa. Abbandonano tutto: parenti, amici, affetti e affrontano un viaggio difficilissimo durante il quale sanno di poter perdere l’unica cosa che gli rimane: la vita. Ricacciarli indietro in quel gulag vuol dire condannarli a morte. Massimo A. Alberizzi malberizzi@corriere.it 24 agosto 2009

Rifugiati: La Commissione Europea

ROMA - L'Ue e la commissione europea stanno facendo molto nell'area dell'immigrazione. Lo ha detto uno dei portavoce della commissione Ue, rispondendo ad una domanda sulla posizione espressa ieri dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, denunciando l'assenza dell'Europa di fronte al problema dell'immigrazione clandestina. Il portavoce ha sottolineato che la commissione sta lavorando molto con gli stati Ue e con i Paesi vicini e che il suo vicepresidente, Jacques Barrot, nei mesi scorsi si è recato a Lampedusa, a Marla, nelle Canarie, in Grecia e si appresta a visitare in autunno la Turchia e la Libia. La questione, ha indicato il portavoce, è quella di mettere in piedi strumenti finanziari politici e diplomatici, "per fermare le tragedie che abbiamo visto la scorsa settimana". Il portavoce Dennis Abbott ha ricordato che la questione immigrazione è stata discussa recentemente da Barrot con il ministro dell'Interno, Roberto Marroni, e che il vicepresidente della Commissione Ue ha detto già in varie occasioni che è necessario trovare una maniera "per meglio dividere il peso a livello europeo" dell'arrivo degli immigrati clandestini. Il portavoce ha anche segnalato la necessità di dare seguito alle conclusioni del consiglio europeo di giugno nelle quali si afferma "chiaramente" che "la fermezza, la solidarietà e la responsabilità condivisa sono essenziali in un approccio globale" nei confronti dell'immigrazione. IERI IL BOTTA E RISPOSTA ROMA - Botta e risposta Roma-Bruxelles sul delicato dossier-immigrazione. L'Europa parla e non agisce, attacca il ministro degli Esteri Franco Frattini. Ne stiamo parlando ma ci vorrà tempo, gli replica il presidente di turno della Ue, Carl Bildt. Sul capitolo immigrazione e gestione flussi il ministro degli Esteri Franco Frattini non ha oggi risparmiato critiche all'Unione Europea. Finora da Bruxelles si sono udite solo flebili parole sull'argomento e, soprattutto, sono stati lasciati soli paesi come l'Italia e Malta a gestire "un problema che invece investe tutta l'Europa". La tragedia di Lampedusa e i suoi 73 morti nel Mediterraneo che non fanno onore a nessuno, neanche all'Italia, finché non sarà fatta chiarezza, induce Frattini ad approfittare del palco riminese del Meeting di Cl per pungolare il presidente di turno dell'Ue, lo svedese Carl Bildt, ospite insieme a lui di un Focus sull'Africa e i suoi conflitti dimenticati. E' un "criterio proporzionale di distribuzione dei flussi migratori tra tutti e 27 i paesi Ue" quello che invoca Frattini e sul quale Bruxelles, nonostante una richiesta precisa di pronunciarsi al riguardo, ancora nicchia. L'Ue, secondo il ministro, non può continuare a chiudere gli occhi e dare per scontato che le migliaia di disperati che giungono sulle coste mediterranee, per lo più da quelle africane, trovino alloggio e sostentamento nel primo Paese dove sbarcano. E' troppo alto il peso che paga la Sicilia solo per essere la Porta dell'Europa. La risposta di Bildt arriva subito ma non è forse quella "ragionevole" che Frattini auspicava: bisognerà attendere "la fine di ottobre per avere una prima proposta dell'Unione Europea" ha detto all'ANSA il presidente di turno dei 27. "Aspettiamo una proposta della Commissione che sarà discussa nel consiglio dei ministri degli esteri dell'Ue a fine ottobre". Un "primo passo" anche se, ammette laconico Bildt,"un problema così grande non si risolve in una sola riunione". E nel frattempo continua a salire la tensione - tra rimpalli di responsabilità - tra Roma e La Valletta, lasciate sole a fronteggiare la questione. Anche di fronte al netto no della piccola isola-stato all'accordo, su cui si tratta da dieci anni, per restringere lo spazio marittimo maltese per il soccorso e la ricerca, Frattini insiste: "é un negoziato indispensabile per l'intera comunità internazionale". L'area che deve coprire La Valletta conta 250mila kmq di mare, vale a dire quasi l'equivalente dell'intero territorio italiano, "forse un po' troppo grande per la piccola Malta" osserva Frattini. Anche se "per negoziare bisogna essere in due". Se da una parte il ministro liquida come sterili le polemiche sulla politica dell'accoglienza tra la Lega di Bossi e il Vaticano perché "i problemi si risolvono con le cose concrete", dall'altra insiste su un punto fermo del Governo. "La vita umana della persona vale più di ogni altra cosa e, quando essa è in pericolo, bisogna fare di tutto per salvarla perché il salvataggio è un principio su cui non si può derogare né discutere". Non a caso ricorda che gli italiani sono "campioni di salvataggio" e che "nel solo ultimo anno hanno tratto in salvo qualche migliaio di persone". In attesa che si faccia luce su quanto avvenuto nell'ultima mattanza nel canale di Sicilia, Frattini non vede troppi ostacoli alla possibilità che ai cinque eritrei sopravvissuti possa essere concesso l'asilo politico. "Si vedrà caso per caso", dice. Certo la stragrande maggioranza di quelli che vengono dall'Eritrea lo hanno ottenuto. ERITREI: CONSEGNATO IN PROCURA PRIMO RAPPORTO, INDAGATI PER CLANDESTINITA' La Procura di Agrigento ha ricevuto questa mattina dalla guardia di finanza e dalla polizia le prime informative sulla vicenda del gommone con cinque eritrei a bordo, rimasto per oltre venti giorni alla deriva nel Canale di Sicilia, soccorso giovedì a largo di Lampedusa. I magistrati agrigentini hanno aperto un'inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e omicidio colposo plurimo. L'indagine è ancora a carico di ignoti. I migranti hanno raccontato che sull'imbarcazione c'erano altre 73 persone morte di stenti durante la navigazione. Gli inquirenti stanno valutando, inoltre, la condotta della forze armate maltesi che, secondo il racconto dei superstiti, avrebbero incrociato il gommone e dato agli eritrei il carburante per proseguire la traversata. A carico delle autorità de La Valletta, tenute, secondo quanto prevede il codice internazionale della navigazione, a prestare soccorso a chi si trova in difficoltà in mare, potrebbe ipotizzarsi il reato di omissione di soccorso. Ma il nodo centrale della vicenda ruota tutto attorno alla competenza territoriale sull'indagine. Fermo restando l'obbligo del soccorso, la Procura sta cercando di capire in quale punto la motovedetta maltese abbia incrociato gli eritrei: se, cioé, in acque maltesi e in questo caso sulla vicenda dovrebbe indagare la magistratura de La Valletta; o se in acque internazionali. "Allora - spiega il procuratore Renato Di Natale - sarebbe ancora più complesso stabilire l'autorità giudiziaria titolare dell'indagine". Le autorità di Malta, secondo le quali gli eritrei al momento dell'incontro con la motovedetta erano in buone condizioni di salute, hanno fatto sapere che il gommone sarebbe stato intercettato in acque libiche. "Ciò - commenta Di Natale - non significa comunque che, se i supersiti erano in difficoltà e stavano male, i maltesi non dovessero prestare soccorso". Nelle prossime ore, proprio per accertare le condizioni dei sopravvissuti e verificare nuovamente il loro racconto, i magistrati torneranno a interrogarli. Due sarebbero ancora in precario stato di salute tanto che gli inquirenti non sono ancora riusciti a sentirli. Sono stati iscritti nel registro degli indagati, per il reato di immigrazione clandestina, i cinque eritrei soccorsi giovedì a largo di Lampedusa su un gommone alla deriva. I migranti sono gli unici sopravvissuti all'ennesima tragedia del mare in cui avrebbero perso la vita 73 extracomunitari, morti di stenti durante la traversata del Canale di Sicilia. "Si tratta di un atto dovuto", ha sottolineato il procuratore della Repubblica di Agrigento, Renato Di Natale, che sabato scorso aveva annunciato il provvedimento in base alle norme del decreto sicurezza. I migranti avrebbero, però, già manifestato l'intenzione di chiedere l'asilo politico. Nel caso in cui i pm accertassero il diritto allo status di rifugiati l'inchiesta sarebbe archiviata.

RIFUGIATI: COMMISSIONE UE, STIAMO FACENDO MOLTO

ROMA - L'Ue e la commissione europea stanno facendo molto nell'area dell'immigrazione. Lo ha detto uno dei portavoce della commissione Ue, rispondendo ad una domanda sulla posizione espressa ieri dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, denunciando l'assenza dell'Europa di fronte al problema dell'immigrazione clandestina. Il portavoce ha sottolineato che la commissione sta lavorando molto con gli stati Ue e con i Paesi vicini e che il suo vicepresidente, Jacques Barrot, nei mesi scorsi si è recato a Lampedusa, a Marla, nelle Canarie, in Grecia e si appresta a visitare in autunno la Turchia e la Libia. La questione, ha indicato il portavoce, è quella di mettere in piedi strumenti finanziari politici e diplomatici, "per fermare le tragedie che abbiamo visto la scorsa settimana". Il portavoce Dennis Abbott ha ricordato che la questione immigrazione è stata discussa recentemente da Barrot con il ministro dell'Interno, Roberto Marroni, e che il vicepresidente della Commissione Ue ha detto già in varie occasioni che è necessario trovare una maniera "per meglio dividere il peso a livello europeo" dell'arrivo degli immigrati clandestini. Il portavoce ha anche segnalato la necessità di dare seguito alle conclusioni del consiglio europeo di giugno nelle quali si afferma "chiaramente" che "la fermezza, la solidarietà e la responsabilità condivisa sono essenziali in un approccio globale" nei confronti dell'immigrazione. IERI IL BOTTA E RISPOSTA ROMA - Botta e risposta Roma-Bruxelles sul delicato dossier-immigrazione. L'Europa parla e non agisce, attacca il ministro degli Esteri Franco Frattini. Ne stiamo parlando ma ci vorrà tempo, gli replica il presidente di turno della Ue, Carl Bildt. Sul capitolo immigrazione e gestione flussi il ministro degli Esteri Franco Frattini non ha oggi risparmiato critiche all'Unione Europea. Finora da Bruxelles si sono udite solo flebili parole sull'argomento e, soprattutto, sono stati lasciati soli paesi come l'Italia e Malta a gestire "un problema che invece investe tutta l'Europa". La tragedia di Lampedusa e i suoi 73 morti nel Mediterraneo che non fanno onore a nessuno, neanche all'Italia, finché non sarà fatta chiarezza, induce Frattini ad approfittare del palco riminese del Meeting di Cl per pungolare il presidente di turno dell'Ue, lo svedese Carl Bildt, ospite insieme a lui di un Focus sull'Africa e i suoi conflitti dimenticati. E' un "criterio proporzionale di distribuzione dei flussi migratori tra tutti e 27 i paesi Ue" quello che invoca Frattini e sul quale Bruxelles, nonostante una richiesta precisa di pronunciarsi al riguardo, ancora nicchia. L'Ue, secondo il ministro, non può continuare a chiudere gli occhi e dare per scontato che le migliaia di disperati che giungono sulle coste mediterranee, per lo più da quelle africane, trovino alloggio e sostentamento nel primo Paese dove sbarcano. E' troppo alto il peso che paga la Sicilia solo per essere la Porta dell'Europa. La risposta di Bildt arriva subito ma non è forse quella "ragionevole" che Frattini auspicava: bisognerà attendere "la fine di ottobre per avere una prima proposta dell'Unione Europea" ha detto all'ANSA il presidente di turno dei 27. "Aspettiamo una proposta della Commissione che sarà discussa nel consiglio dei ministri degli esteri dell'Ue a fine ottobre". Un "primo passo" anche se, ammette laconico Bildt,"un problema così grande non si risolve in una sola riunione". E nel frattempo continua a salire la tensione - tra rimpalli di responsabilità - tra Roma e La Valletta, lasciate sole a fronteggiare la questione. Anche di fronte al netto no della piccola isola-stato all'accordo, su cui si tratta da dieci anni, per restringere lo spazio marittimo maltese per il soccorso e la ricerca, Frattini insiste: "é un negoziato indispensabile per l'intera comunità internazionale". L'area che deve coprire La Valletta conta 250mila kmq di mare, vale a dire quasi l'equivalente dell'intero territorio italiano, "forse un po' troppo grande per la piccola Malta" osserva Frattini. Anche se "per negoziare bisogna essere in due". Se da una parte il ministro liquida come sterili le polemiche sulla politica dell'accoglienza tra la Lega di Bossi e il Vaticano perché "i problemi si risolvono con le cose concrete", dall'altra insiste su un punto fermo del Governo. "La vita umana della persona vale più di ogni altra cosa e, quando essa è in pericolo, bisogna fare di tutto per salvarla perché il salvataggio è un principio su cui non si può derogare né discutere". Non a caso ricorda che gli italiani sono "campioni di salvataggio" e che "nel solo ultimo anno hanno tratto in salvo qualche migliaio di persone". In attesa che si faccia luce su quanto avvenuto nell'ultima mattanza nel canale di Sicilia, Frattini non vede troppi ostacoli alla possibilità che ai cinque eritrei sopravvissuti possa essere concesso l'asilo politico. "Si vedrà caso per caso", dice. Certo la stragrande maggioranza di quelli che vengono dall'Eritrea lo hanno ottenuto. ERITREI: CONSEGNATO IN PROCURA PRIMO RAPPORTO, INDAGATI PER CLANDESTINITA' La Procura di Agrigento ha ricevuto questa mattina dalla guardia di finanza e dalla polizia le prime informative sulla vicenda del gommone con cinque eritrei a bordo, rimasto per oltre venti giorni alla deriva nel Canale di Sicilia, soccorso giovedì a largo di Lampedusa. I magistrati agrigentini hanno aperto un'inchiesta per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e omicidio colposo plurimo. L'indagine è ancora a carico di ignoti. I migranti hanno raccontato che sull'imbarcazione c'erano altre 73 persone morte di stenti durante la navigazione. Gli inquirenti stanno valutando, inoltre, la condotta della forze armate maltesi che, secondo il racconto dei superstiti, avrebbero incrociato il gommone e dato agli eritrei il carburante per proseguire la traversata. A carico delle autorità de La Valletta, tenute, secondo quanto prevede il codice internazionale della navigazione, a prestare soccorso a chi si trova in difficoltà in mare, potrebbe ipotizzarsi il reato di omissione di soccorso. Ma il nodo centrale della vicenda ruota tutto attorno alla competenza territoriale sull'indagine. Fermo restando l'obbligo del soccorso, la Procura sta cercando di capire in quale punto la motovedetta maltese abbia incrociato gli eritrei: se, cioé, in acque maltesi e in questo caso sulla vicenda dovrebbe indagare la magistratura de La Valletta; o se in acque internazionali. "Allora - spiega il procuratore Renato Di Natale - sarebbe ancora più complesso stabilire l'autorità giudiziaria titolare dell'indagine". Le autorità di Malta, secondo le quali gli eritrei al momento dell'incontro con la motovedetta erano in buone condizioni di salute, hanno fatto sapere che il gommone sarebbe stato intercettato in acque libiche. "Ciò - commenta Di Natale - non significa comunque che, se i supersiti erano in difficoltà e stavano male, i maltesi non dovessero prestare soccorso". Nelle prossime ore, proprio per accertare le condizioni dei sopravvissuti e verificare nuovamente il loro racconto, i magistrati torneranno a interrogarli. Due sarebbero ancora in precario stato di salute tanto che gli inquirenti non sono ancora riusciti a sentirli. Sono stati iscritti nel registro degli indagati, per il reato di immigrazione clandestina, i cinque eritrei soccorsi giovedì a largo di Lampedusa su un gommone alla deriva. I migranti sono gli unici sopravvissuti all'ennesima tragedia del mare in cui avrebbero perso la vita 73 extracomunitari, morti di stenti durante la traversata del Canale di Sicilia. "Si tratta di un atto dovuto", ha sottolineato il procuratore della Repubblica di Agrigento, Renato Di Natale, che sabato scorso aveva annunciato il provvedimento in base alle norme del decreto sicurezza. I migranti avrebbero, però, già manifestato l'intenzione di chiedere l'asilo politico. Nel caso in cui i pm accertassero il diritto allo status di rifugiati l'inchiesta sarebbe archiviata.

domenica 23 agosto 2009

L'ex colonia e i nostri doveri di dare asilo

Nazioni e soccorsiL'ex colonia e i nostri doveri di dare asilo Due punti non dovrebbero essere in discussione: la moderna tratta degli schiavi tra la Libia e l’isola di Lampedusa va interrotta; non per questo i naufraghi che sfuggono al pattugliamento, chiunque siano, possono essere lasciati morire in mare. La storia della tragedia del Canale di Sicilia è ancora da scrivere; di certo emergono— e non per la prima volta— pesanti responsabilità di marinai maltesi. C’è però un aspetto ineludibile, che ci riguarda. Se c’è un popolo che noi italiani abbiamo il dovere storico e morale di soccorrere, è il popolo eritreo. Perché della storia e dell’identità italiana, di cui finalmente si discute senza pregiudizi, gli eritrei fanno parte da oltre un secolo; così come noi apparteniamo alla loro, al punto da averla plasmata. Il nome stesso — Mar Eritreo era per i greci il Mar Rosso—fu suggerito a Francesco Crispi da Carlo Dossi, capofila della scapigliatura lombarda e collaboratore dello statista siciliano. Ma l’Eritrea è se possibile qualcosa di più della prima colonia italiana; senza l’intervento del nostro esercito e della nostra amministrazione, forse non sarebbe mai esistita come unità politica e culturale, e le tribù che abitavano l’altopiano sarebbero rimaste per sempre alla mercé dell’impero abissino. Proprio questo legame particolarissimo consentì agli eritrei di godere solo dell’aspetto positivo del colonialismo— il centro dell’Asmara è una vetrina dell’architettura italiana della prima metà del Novecento, mentre la ferrovia Massaua-Asmara fu distrutta dai bombardamenti inglesi —, e di evitare le pagine nere, dalla repressione in Libia ai bombardamenti sull’Etiopia. Ma è soprattutto la fratellanza d’armi ad aver coniato tra i due popoli un vincolo di solidarietà, che in questi giorni dovrebbe morderci la coscienza. I prigionieri di Adua, cui il negus fece tagliare il piede destro e la mano sinistra in quanto sudditi ribelli, rei di aver combattuto accanto agli italiani. I centinaia di militi ignoti sepolti nel cimitero di guerra di Cheren, dove avevano resistito agli attacchi britannici. Il libro di Montanelli, intitolato appunto XX battaglione eritreo. Il sacrificio di migliaia di ascari, da quelli del 1896 ai loro nipoti che ancora dopo la resa del Duca d’Aosta all’Amba Alagi continuarono a combattere nelle bande irregolari di Amedeo Guillet, l’ultimo eroe d’Africa. E la traccia che di tutto questo è rimasta nella cultura collettiva: gli acquerelli di Caccia Dominioni, i fez rossi sulle copertine della Domenica del Corriere, le fotografie degli sciumbasci— gli ufficiali indigeni — in gita premio nella Roma del 1912, accolti alla stazione Termini dalla folla entusiasta (e rivisti nella recente mostra al Vittoriano). Una memoria che non va confusa con le disavventure del regime fascista, ma affonda le sue radici nell’Italia risorgimentale e porta frutti ancora oggi. Basta sbarcare all’Asmara per toccare con mano il profondo legame che ancora unisce gli eritrei all’Italia, dai caffè ai modi di dire, dall’urbanistica alla toponomastica, che celebra nomi in Italia dimenticati, i testimoni antichi del nostro mal d’Africa cui erano dedicati i battaglioni eritrei: il primo, contrassegnato dal colore rosso, intitolato a Turitto; il secondo, azzurro, a Hidalgo; il terzo, cremisi, a Galliano; il quarto, nero, a Toselli. Da quasi vent’anni, come ha documentato sul Corriere Massimo A. Alberizzi, l’Eritrea è schiacciata dal tallone di Afeworki, l’uomo che parve un liberatore e si è rivelato un aguzzino del suo popolo, sfiancato da una guerra impari con l’Etiopia. È normale che, alla ricerca di un Paese d’asilo, gli eritrei guardino all’Italia, dove già vive una comunità molto attiva. Salire sulle imbarcazioni degli scafisti criminali non può essere il modo di raggiungere le nostre coste. Così come è indispensabile che il governo prosegua nella politica di collaborazione con la Libia, che palesemente deve coinvolgere anche le autorità maltesi. Questo non ci esime dal dovere di accordare soccorso e, se del caso, asilo; tanto più se alla deriva sono i discendenti dei nostri antichi fratelli d’arme. Aldo Cazzullo 22 agosto 2009

1879/2009. Eritrea, un altro massacro coloniale

1879-2009. Eritrea, un altro massacro coloniale ======================================= La morte per fame ,per sete e per stenti di 73 eritrei è l'ultimo massacro coloniale che si aggiunge ai tanti compiuti nel corso di una lunga criminale occupazione manu militari dell'Eritrea iniziata già alla fine dell'ottocento dal governo Crispi e proseguita fino al 1947. Il nome stesso "eritrea" è quello imposto appunto da Crispi ed indica una vasta area di terre prospicienti sul Mar Rosso pari a tre volte la Sicilia ma abitata da meno di cinque milioni di abitanti. Ho parlato di massacri coloniali compiuti in particolare durante il "regno" eritreo dei generali Badoglio e Graziani. Graziani è stato una sorta di Hitler inviato in Africa per governare l'Impero italiano. In fondo a questo scritto riporto la notizia del massacro di una sola volta di 1600 monaci coopti fatto eseguire da Graziani in rappresaglia ad un attentato compiuto da patrioti ( oggi Cazzullo li chiamerebbe terroristi) ma purtroppo non riuscito. Non sappiamo quasi niente delle migliaia di persone, una vera e propria decimazione genocida) deportate in lagers nei quali morivano di stenti; gasata con l'iprite che l'aviazione del generale Magliocco faceva spargere su donne, vecchi, bambini e bestiame dei villaggi da cancellare; impalata e cioè trapassata ed esposta ai margini delle strade..come macabri lampioni..... Il segretario fascista Storace si divertiva ad uccidere i "negri" dopo avere sparato sui loro genitali (per farli soffrire di più, diceva...)...chi vuole saperne di più degli italiani in Eritrea ed in Africa si legga i libri di Del Boca. L'Occidente ha responsabilità enormi per le ondate di migranti che nonostante la crudele legge razziale approvata in Italia sono destinate a continuare ed ad ingigantirsi coinvolgendo masse sempre più estese di uomini, donne e bambini pronti a rischiare la vita pur di scappare dalla fame, dalla miseria più nera, dalla guerra, dai genocidi. La politica USA per l'Eritrea non è rivolta a sollecitare la sua pacificazione con l'Etiopia ma ad approfondirne il conflitto e renderlo endemico. E' naturale che la popolazione scacciata dai bombardamenti e dalle rappresaglie cerchi una via di fuga verso l'Europa. Questa migrazione è una forma nuova in cui si realizza il colonialismo dopo la conquista dell'indipendenza ed il processo faticosissimo delle decolonizzazioni: milioni di lavoratori a prezzi stracciati e trattamenti schiavistici che vanno a mungere le vacche nelle pianure padane od a raccogliare pomodori in Campania o in Puglia , a guardare bestiame nelle foreste dell'Appennino a a lavorare in condizioni terribili alla concia delle pelli.... L'Occidente non vuole la pace ma la vittoria alle sue condizioni. In Afghanistan, in Irak, in Sudan tutte le guerre ad alta o bassa intensità in corso oramai da decenni mirano alla destabilizzazione degli Stati non inglobati nelle politiche USA o Nato. Mirano a creare disastri economici, sociali, umanitari, a suscitare la fuga verso l'Europa. Basterebbero alcuni anni di pace ed una politica di cooperazione per lo sviluppo per fare cessare o diminuire drasticamente il biblico movimento emigratorio. L'Eritrea ha un PIL annuo di meno di un miliardo di euro. Non sarebbero necessarie somme immense di denaro per aiutarla. Ma l'Occidente non vuole ridurre dentro margini fisiologici gli spostamenti di mano d'opera. Vuole che milioni di disperati continuino a fuggire dalle loro terre natie ed a cercare lavoro nella zona ricca del pianeta. L'incrudelimento delle leggi che riguardano queste persone serve soltanto ad abbassarne il costo a ridurli alla condizione di schiavi coloniali. Malta e Italia negano le loro responsabilità nella morte di settantatre persone. Ma è difficile credere che un viaggio durato venti giorni sia sfuggito ai controlli marini e satellitari.Si può pensare che qualcuno non li abbia soccorso contravvenendo ad una millenaria legge del mare per sfuggire al reato di complicità in emigrazione clandestina o addirittura di traffico in esseri umani. E' già successo prima dell'ultima feroce legge voluta da Maroni e c'è stato un processo ad Agrigento a gente che aveva salvato la vita ad alcuni migranti in difficoltà. Respingimenti diretti ed impedimenti giuridici per chi volesse soccorrere. Si debbonoi accertare le responsabilità dirette del nostro Governo., La durezza e la crudeltà gratuita delle leggi italiane a cominciare dalla Turco Napolitano che istituì i primi lagers alla 94 del luglio scorso servono soltanto a sottomettere il migrante ancora prima che entri in Italia consegnarlo terrorizzato nelle mani di chi lo userà nel lavoro nero o gli affiderà le incombenze dei lavori più penosi e faticosi. Se un migrante per rinnovare il suo permesso di soggiorno ha bisogno della dichiarazione del suo datore di lavoro senza la quale diventa clandestino e verrebbe subito criminalizzato, espulso o imprigionato e magari perdere la famiglia ed i figli è chiaro che dovrà piegarsi a tutte le condizioni che gli verranno imposte. Ecco a che servono le leggi "sicurezza" di Berlusconi e Bossi. Un ricatto malvagio concepito da governanti sadici che non ha riguardo per niente e che di colpo taglia secoli di civilizzazione della giustizia e del diritto. pietroancona@tin.it http://medioevosociale-pietro.blogspot.com/ www.spazioamico.it http://www.ecn.org/asicuba/articoli/eccidio.htm http://www.corriere.it/politica/09_agosto_22/aldo_cazzullo_i_nostri_doveri_482fa...

Immigrati, Unhcr: diritto d'asilo a rischio con i respingimenti

Salvataggio eritrei, Boldrini: fare luce sulle responsabilità Roma, 23 ago. (Apcom) - Nella vicenda degli eritrei soccorsi al largo di Lampedusa è evidente che "anche in base a quanto prevede il pacchetto sicurezza, il reato di clandestinità viene sospeso per i richiedenti asilo", ha detto Laura Boldrini portavoce dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr). Per la rappresentante dell'agenzia Onu va inoltre fatta chiarezza sulle responsabilità, "la magistratura deve impedire che passi il principio si impunità" ha detto, e andrebbe garantita assistenza psicologica a questi cinque uomini soccorsi dopo vari giorni alla deriva. Secondo le testimonianze dei soppravvissuti molte imbarcazioni hanno avvistato il loro gommone ma nessuna di esse ha prestato soccorso. Dopo 23 giorni in alto mare, hanno raccontato, 73 di loro non ce l'hanno fatta. Per Boldrini nelle cronache e nelle polemiche che sono scoppiate dopo il ritrovamento dei cinque eritrei, non si è parlato abbastanza della particolare condizione di queste persone "che non sono clandestini ma richiedenti asilo e in quanto tali per loro il reato di clandestinità viene sospeso". "La quasi totalità degli eritrei che sbarcano in Italia, chiedono asilo - spiega la portavoce dell'Unhcr ad Apcom - ma se gli si impedisce di arrivare alle coste italiane, si nega loro anche il diritto di chiedere asilo". "L'anno scorso ha fatto domanda di asilo il 75% di coloro che sono sbarcati in Italia - ha aggiunto Boldrini precisando che di questi il 50% ha poi ottenuto asilo. Boldrini chiede poi alla magistratura di fare luce sulle responsabilità, "affinché il Mediterraneo non diventi una terra di nessuno dove tutto può essere fatto senza che nessuno ne paghi le conseguenze". La rappresentante Onu ha poi auspicato che, una volta recuperata la salute, i cinque eritrei possano essere trasferiti in strutture adeguate, come i centri S.P.R.A.R, servizi di protezione per i rifugiati e i richiedenti asilo, dove potranno ricevere la giusta assistenza psicologica e superare così l'esperienza traumatica appena vissuta.

La strage degli Innocenti

Nella nostra indignazione e dolore per il lutto dei nostri 73 fratelli e sorelle migranti, ci chiediamo se anche questi morti fanno parte della strategia di respingimento adottata del governo Italiano, con il silenzio indifferente dell'Europa? Ci chiediamo se questo il successo dell'accordo Italia libia? E questo la prevenzione che viene fatta dall'Agenzia Frontex? Vogliamo risposte dai governi Italia, Malta, Libia. Chiediamo che venga fatta una inchiesta europea che accerti le responsabilità dei governi e delle autorità competenti che svolgono il pattugliamento congiunto tra gli stati interessati dai sbarchi. Questi morti sono frutto della ingiustizia che regna sovrana tra gli stati europei sul tema immigrazione. Affidiamo a Dio, le anime dei nostri fratelli siamo certi della sua giustizia divina. Mussie Zerai

venerdì 21 agosto 2009

Gli eritrei in fuga dall'inferno

La dittatura di Afeworki è la più rigida di tutta l'Africa e finanzia i gruppi islamici in Somalia Gli ottanta eritrei – di cui solo cinque arrivati salvi in Italia – sono scappati dall’inferno. Un inferno fatto di quotidiane violazioni dei diritti umani, dove la personalità dei cittadini viene annientata e distrutta nel nome di un utopistico e irraggiungibile bene supremo. Assieme alla Guinea Equatoriale, l’Eritrea è oggi governato dalla dittatura più rigida e repressiva di tutta l’Africa. Il presidente Isayas Afeworki ha militarizzato il Paese, comanda con il pugno di ferro e sembra ossessionato dalla guerra. Ha attaccato quasi tutti i Paesi vicini: l’Etiopia, Gibuti e lo Yemen. Secondo le Nazioni Unite protegge, finanzia e addestra i gruppi ribelli islamici in Somalia. L’uomo che negli anni Ottanta veniva applaudito come un combattente per la libertà, una volta al potere si è rivelato uno spietato tiranno. Il suo Paese è ridotto alla fame. I negozi sono vuoti; il carburante è razionato. Ecco come Amnesty International dipinge l’ex colonia italiana sul mar Rosso: «Il governo ha vietato i giornali indipendenti, i partiti di opposizione, le organizzazioni religiose non registrate e di fatto qualsiasi attività della società civile. All'incirca 1.200 richiedenti asilo eritrei rimpatriati forzatamente dall'Egitto e da altri Paesi sono stati detenuti al loro arrivo in Eritrea. Analogamente, migliaia tra prigionieri di coscienza e prigionieri politici sono rimasti in detenzione dopo anni trascorsi in carcere. Le condizioni delle prigioni sono risultate pessime. Coloro che venivano percepiti come dissidenti, disertori e quanti avevano eluso la leva militare obbligatoria, o altri che avevano criticato il governo sono stati, assieme alle loro famiglie, sottoposti a punizioni e vessazioni. Il governo ha reagito in modo perentorio contro qualsiasi critica in materia di diritti umani». I cittadini eritrei nella loro stessa patria sono sottoposti a restrizione nei movimenti. Spie e polizia sono ovunque. Come in Corea del Nord il partito controlla ogni cosa: la attività economiche e la vita quotidiana, fatta di continui sospetti anche all’interno di una stessa famiglia. I giovani eritrei fuggono perché la loro unica prospettiva è finire a Sawa, un enorme e durissimo centro d’addestramento reclute dove chi entra è sottoposto a un vigoroso lavaggio del cervello. I commissari politici insegnano a sospettare «dei nemici della rivoluzione e del popolo». La leva militare non ha durata fissa. Si può restare sotto le armi anche anni. In questi giorni i siti dei dissidenti eritrei hanno pubblicato la notizia di un tentativo di assassinare Isayas, avvenuto il 13 agosto, sventato dalle sue guardie del corpo che hanno ammazzato l’attentatore sul posto. Il 18 settembre 2001 sono scomparsi in un gulag eritreo tredici ministri – tra cui l'ex capo dell’intelligence ed eroe della rivoluzione eritrea, Petros Solomon - che avevano firmato un manifesto con il quale chiedevano democrazia e libertà. Finiti chissà dove e forse morti. Giornalisti stranieri che hanno «osato» criticare il regime, sono stati ripagati con una condanna a morte in contumacia. Isayas Afeworki viene spesso in Italia, anche in visita privata. Nessuno lo tratta da tiranno, piuttosto da amico. Non ricambia la cortesia e taglieggia in continuazione i nostri connazionali che vivono in Eritrea o hanno ancora interessi laggiù. I rifugiati che abitano da noi hanno paura: per loro o per i parenti restati in patria. Ci sono stati casi di palesi aggressioni. L’ultima in ottobre scorso quando al festival eritreo a Roma, militanti regolarmente autorizzati che distribuivano volantini di Amnesty International sono stati presi a pugni calci e bottigliate. Massimo A. Alberizzi malberizzi@corriere.it

BUTTIGLIONE: TRAGEDIA MARE UNA VERGOGNA PER ITALIA

AGI) - Roma, 21 ago. - "Una vergogna per una nazione cristiana e un crimine contro l'umanita'. Non possiamo non riconoscere le nostre responsabilita' come italiani e in particolare del governo in questa tragedia. I morti sono eritrei, gente legata all'Italia da antiche tradizioni e che pensava di trovare presso di noi ospitalita' e rifugio". Cosi' in una nota il presidente dell'Udc Rocco Buttiglione. "I morti non sono immigrati clandestini. Sono rifugiati politici, gente che tentava di sfuggire a una dittatura feroce che ha ridotto in schiavitu' un popolo ed e' uno dei punti di sostegno internazionale dell'integralismo islamico. Avevano diritto alla protezione umanitaria. L'accordo fatto dall'Italia con la Libia - prosegue - mostra ancora una volta di non risolvere nessun problema. La Libia deve aderire alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati politici, e l'Unione Europea deve mobilitarsi per dare ai rifugiati in Libia il soccorso umanitario e la protezione giuridica internazionale. Chiediamo che il governo italiano prenda subito e duramente posizione richiamando la Libia al rispetto degli accordi sottoscritti, alla sottoscrizione degli altri, e al rispetto dei principi elementari di umanita'".

Immigrati eritrei, Viminale: nessun sos. "Avvenire": come Shoah

ROMA (Reuters) - Le autorità italiane non hanno ricevuto alcuna richiesta di soccorso dal barcone sul quale ieri sono stati soccorsi i cinque eritrei che hanno denunciato la morte di oltre 70 loro compagni in mare. Lo rende noto oggi il Viminale, mentre proseguono gli sbarchi sulle coste italiane e crescono le polemiche sull'ennesima tragedia dei migranti, che nel mondo cattolico ha evocato il fantasma della Shoah. Stamattina il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha ricevuto la relazione del prefetto di Agrigento sulla vicenda degli eritrei sbarcati ieri a Lampedusa. "Nessuna richiesta di soccorso, al gommone che trasportava i 5 eritrei, è pervenuta alle autorità italiane prima di quella che ha consentito l'intervento del pattugliatore della Guardia di Finanza, né l'imbarcazione è stata mai avvistata dai numerosi servizi di pattugliamento che quotidianamente si svolgono nell'area", dice la relazione, come si legge in una nota del Viminale. I cinque superstiti hanno detto di essere salpati dalla Libia alla fine di luglio, di aver perso la rotta e di aver presto finito il carburante. Hanno raccontato che oltre 70 dei migranti con cui erano partiti sono morti in mare, e che molte imbarcazioni, pur avendoli avvistati, non hanno voluto soccorrerli. Dichiarazioni che ieri hanno spinto l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr) a lanciare un appello a chi naviga nel Mediterraneo perché si torni a seguire la legge del mare, che impone di salvare sempre e comunque la vita di chi è in difficoltà. "E' molto allarmante che per 20 giorni non abbiano avuto un soccorso. E' un tristissimo primato che fa riflettere: è come se qui ormai prevalesse l'indifferenza o anche la paura di aiutare, come se chi arriva via mare fosse una sorta di vuoto a perdere", aveva commentato ieri Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr. Nella nota odierna il Viminale precisa che gli accertamenti sulla vicenda sono in corso, e che le dichiarazioni degli eritrei - una donna, due uomini e due minori - sono al vaglio della Procura della Repubblica di Agrigento. "IL SILENZIO SULL'IMMIGRAZIONE COME SULLA SHOAH" Dura, oggi, la presa di posizione del quotidiano cattolico "Avvenire", che paragona l'assuefazione di fronte alle tragedie dell'immigrazione al silenzio sulla Shoah. "La nuova legge del non vedere. Come in un'abitudine, in un'assuefazione", si legge nell'editoriale. "Quan­do, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiedia­mo: ... ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il tota­litarismo e il terrore, a far chiudere gli oc­chi. Oggi no. Una quieta, rassegnata in­differenza, se non anche una infastidi­ta avversione, sul Mediterraneo. L'Oc­cidente a occhi chiusi", prosegue "Avvenire". Ieri il leader del Pd Dario Franceschini ha chiesto che il governo riferisca in Parlamento sulla vicenda, e oggi Pierluigi Bersani, candidato alla segreteria nazionale del partito, dichiara in una nota che "a questo punto il governo ha la responsabilità di chiarire al più presto questa vicenda nei suoi aspetti interni ed internazionali". Oggi, intanto, sono proseguiti gli sbarchi di clandestini. Il principale si è verificato ancora una volta a Lampedusa, dove sono giunti 44 migranti che erano stati intercettati ieri pomeriggio dalla Guardia Costiera.

mercoledì 12 agosto 2009

Federica e gli altri, mediatori d'arte

Ogni opera d'arte può essere interrogata, ogni qual volta è interrogata risponde, e le domande cambiano in continuazione perché dipendono dagli interessi del singolo e dalle sue esperienze. Noi siamo lì per rispondere a queste domande»: si può riassumere così l’originale figura del mediatore culturale, che dallo scorso marzo Federica Volpato sta impersonando grazie al progetto avviato dall’Università Ca’ Foscari in alcuni luoghi veneziani dell’arte. I musei dei mediatori. La Biennale, la Querini, palazzo Grassi, Punta della Dogana e Ca’ Foscari Esposizioni – prima con la mostra sull’arte etiope, ora con Bruce Nauman -: in queste sedi si possono incontrare, riconoscibili grazie ad apposite magliette e cartellini, studenti che si rendono disponibili, in ciascuna sala, a rispondere a dubbi e curiosità dei visitatori. Non sono vere e proprie guide turistiche così come noi tutti abbiamo imparato a conoscerle: non si tratta insomma di percorsi guidati dall’inizio alla fine, un discorso imparato a memoria, tappe prestabilite; questi ragazzi – per lo più studenti di arte o di lingue – hanno una preparazione trasversale, e danno spiegazioni su richiesta. Federica, come tutti i suoi colleghi, è stata contattata dopo aver consegnato il proprio curriculum e una presentazione con le motivazioni che la spingevano a interpretare questo ruolo; dopodiché, dei corsi di formazione, insieme a cataloghi e dispense, l’hanno preparata per affrontare qualsiasi domanda le venga posta, con l’aggiunta che: «Possiamo virare e dare una nostra interpretazione alle opere, avvisando che si tratta di nostri pensieri». Sei ore al giorno, fino a settembre. «Inizialmente ci scambiano come guardasala – racconta Federica, 21 anni – allora ci proponiamo»: e la gente come risponde? Dai più piccoli ai più anziani, tutti hanno domande da porre, soprattutto sul significato delle opere di arte contemporanea. Attualmente infatti Federica lavora 6 ore al giorno, fino a fine settembre, presso Ca’ Foscari Esposizioni, dove sono dei pannelli sonori di Nauman, posti lungo le scale, ad attirare l’attenzione e a suscitare la curiosità di sapere che cosa abbia voluto esprimere l’artista. La bellezza di essere mediatori culturali – figure professionali che in Italia incontriamo anche a Torino, e sono affermate in Francia – sta nella libertà che lasciano al visitatore di gestirsi il proprio tempo all’interno di una mostra, scegliendo a cosa dare più attenzione e avendo comunque la possibilità di risolvere dubbi o instaurare un dialogo costruttivo – del tutto gratuitamente - con persone preparate. Spesso poi, attorno a un mediatore, si possono raccogliere più visitatori per dar vita così a una piccola lezione d’arte. Quel signore che tornava dall’Etiopia.... Federica, che è al secondo anno di Conservazione dei Beni Culturali, racconta che ha scelto di studiare storia dell’arte perché è una materia che le è sempre piaciuta, sin dai tempi del liceo artistico, e le piace «vedere come gli artisti decidono di rapportarsi con la realtà, cosa scelgono di rappresentare con le loro opere, il messaggio che vogliono trasmettere, cosa lasciano di sé alle persone che vengono dopo»: pensando al ruolo che oggi svolge, dice di amare specialmente il contatto col pubblico. Il ricordo più bello per Federica infatti è quel turista che – ai tempi della mostra “Nigra sum sed formosa”, sull’arte etiope, realizzata qualche mese fa a Ca’ Foscari – appena tornato dal viaggio in Etiopia racconta ciò che ha potuto vedere di persona, arricchendo innanzitutto lei stessa, e poi il visitatore che viene dopo, e che può godere di un bagaglio maggiore di informazioni e di conoscenze più fresche e dirette. Laura Campaci

Hillary in Africa avverte l’Eritrea: Basta aiuti ai terroristi somali

Il segretario di Stato Usa in visita in Kenya: «Asmara diventi un Paese più cooperativo» Hillary Clinton con il presidente somalo Sheikh Sharif Ahmed (Afp) Duro attacco del segretario di Stato americano Hillary Clinton all’Eritrea, il cui governo è accusato di aiutare i ribelli somali e di destabilizzare la regione. La Clinton, in visita in Africa, si è fermata due giorni a Nairobi, la capitale del Kenya, dove, tra l’altro, ha incontrato il presidente della Somalia Shek Sharif Shek Ahmed, un islamico moderato che guida il Governo Federale di Transizione, riconosciuto dalle Nazioni Unite e dagli occidentali. «Asmara – ha detto la Clinton – deve togliere il proprio sostegno ai terroristi somali (il riferimento è agli shebab gli insorti radicali islamici, più o meno paragonabili ai talebani dell’Afghanistan, ndr) e diventare un Paese più cooperativo con i vicini». Ha poi minacciato non meglio specificate «punizioni», interpretate dagli osservatori più come sanzioni che come rappresaglie militari. Hillary Clinton sembra, infatti, aver preso in mano le redini del dossier somalo. Un netto cambio di politica dell’amministrazione Obama, rispetto a quella di Bush jr. Quest’ultimo, infatti, aveva sempre privilegiato l’aspetto bellico e il fascicolo dell’ex colonia italiana era stato affidato al Pentagono, più che alla diplomazia. Il Tfg sta combattendo una feroce guerra contro le milizie islamiche – appoggiate da almeno duemila combattenti stranieri giunti principalmente da Afghanistan, Pakistan e Paesi arabi, ma anche da nazioni occidentali, come Stati Uniti e Canada - che controllano gran parte del Paese. In palio c’è la sua stessa sopravvivenza. Il conflitto ha creato una delle peggiori catastrofi umanitarie al mondo, con decine di migliaia di profughi senza cibo e senza alcuna assistenza. A Shek Sharif il Segretario di Stato ha assicurato l’appoggio e il sostegno di Washington, non solo politico ma anche «concreto». Certo, gli americani non manderanno soldati ma materiale bellico. Quaranta/ottanta tonnellate per dieci/cinque milioni dollari (a seconda delle versioni) sono già state consegnate nelle scorse settimane. Assicureranno poi la loro assistenza per addestrare le truppe e la polizia governative, forniranno informazioni raccolte dai satelliti e dalle sofisticate apparecchiature elettroniche montate sulle navi e sugli aerei presenti nel mare e nei cieli del Corno d’Africa. Soprattutto si adopereranno (con pressioni diplomatiche, ma anche con consistenti aiuti finanziari) per aumentare il numero degli effettivi del contingente di pace dell’Unione Africana (Amisom, Africa Mission in Somalia), che ora conta su 5 mila soldati ugandesi e burundesi. Garantiranno per loro equipaggiamenti e armi moderne e sofisticate per contrastare al meglio la guerriglia ribelle. Da mesi si parla dell’arrivo in Somalia di truppe nigeriane e algerine, ma il caos che regna nel Paese rende complicato e difficile un sì definitivo dei rispettivi governi all’invio di contingenti militari: si deve mettere nel conto la perdita di diverse vite umane. Per altro gli americani nella loro base a Gibuti stanno già addestrando agenti della polizia somala. Gli Stati Uniti sanno che il governo somalo è assai debole, giacché in pratica controlla solo alcuni quartieri di Mogadiscio e all’interno del Paese piccole zone a macchia di leopardo, e sarebbe stato già spazzato via se non avesse l’aiuto del corpo di spedizione dell’Amisom. Ma nello stesso tempo ritengono che vada assolutamente difeso e rafforzato perché è l’unica opzione possibile e ultimo baluardo per evitare che l’integralismo islamico dilaghi in Somalia e trasformi l’ex colonia italiana in un santuario del terrorismo. “Aiuteremo Shek Sharif a stabilizzare il suo Paese - ha promesso infatti la moglie dell’ex presidente americano - e conosciamo le sue difficoltà. La Somalia è sotto minaccia del terrorismo e dobbiamo impedire che il terrorismo vinca”. E’ bene ricordare che Shek Sharif ha guidato il governo somalo delle Corti Islamiche da giugno a dicembre 2006. La sua amministrazione fu spazzata via dall’invasione etiopica, patrocinata dagli americani, che consideravano il leader troppo vicino ai terroristi. Ora Washington ha cambiato opinione e fatto propria quella dell’Italia, sostenuta dall’allora inviato speciale per la Somalia del nostro governo, Mario Raffaelli, che proprio per questo era stato criticato dagli Usa e da Addis Abeba. Invece, ora lo ammettono tutti, aveva visto giusto. Non si sa bene se Hillary Clinton abbia parlato con Shek Sharif della pirateria che infesta le coste somale. Per altro il governo di transizione nulla può fare per combatterla e non ha nulla da dire sull’argomento. Non controlla infatti nessuno dei porti dove i banditi del mare somali hanno organizzato i loro santuari. Massimo Alberizzi malberizzi@corriere.it

Eritrea, nella povertà un popolo dignitoso

Da Cesena aiuto e sostegno ai bambini sofferenti. Il resoconto dell’ultimo viaggio effettuato dalle volontarie cesenati Diceva madre Teresa di Calcutta: “Quello che noi facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non lo facessimo l’oceano avrebbe un goccia in meno”. Chissà se cinque anni fa, all’inizio di questa “avventura”, le cesenati Concetta Panzera e Carmela Governali avevano mai immaginato quale ’movimento dell’amore semplice’ si sarebbe creato dietro al progetto concreto di aiutare un popolo dell’Africa nord-orientale, quello dell’Eritrea, martoriato da anni di guerra civile e dalla dittatura? Un aiuto che consiste nella promozione di adozioni a distanza di bambini e delle relative famiglie, oltre alla raccolta fondi per l’invio di materiale e cibo: un container è arrivato a destinazione da poche settimane e un altro è in via di raccolta e partirà nel prossimo ottobre. Un aiuto che vede la collaborazione costante di aziende private e della Caritas diocesana, oltre appunto alle famiglie ’adottive’. E a cinque anni di distanza da quel primo viaggio, compiuto insieme al vescovo emerito di Cesena- Sarsina Lino Garavaglia, Concetta ha seguito quel richiamo del cuore che l’ha voluta di nuovo in Eritrea, insieme con Elena e a Marion, in visita ai ’suoi’ bambini che da 6 di quella prima adozione sono diventati ben 270. “Quale consolazione abbiamo trovato nell’abbraccio dei tanti bambini degli 11 villaggi tra le montagne della periferia della capitale Asmara, nella zona centrale dell’Eritrea - raccontano con entusiasmo a pochi giorni dal loro rientro a Cesena -. Quello che abbiamo potuto vedere con i nostri occhi è sì la grande povertà, ma tanto ci ha colpito la dignità di questo popolo, laborioso, sereno, forte di una fede che li aiuta ad affrontare le grandi ristrettezze con la speranza che il giorno successivo potrebbe essere migliore”. Oltre ai villaggi, le cesenati hanno visitato anche il carcere femminile e un ospedale: “Quale tenerezza negli occhi delle mamme che accudivano i loro bambini - racconta Elena -. E che consolazione notare come a una povertà materiale si contrapponga una grande sensibilità e ricchezza d’animo. Ho ancora negli occhi l’immagine di quella giovane sposa che, nel ricordare il marito morto di recente, si asciugava le lacrime non con un semplice fazzoletto, ma con un lembo di stoffa di una maglietta del suo sposo; stoffa legata a un polso, come se una parte di lui fosse ancora insieme a lei”. In Eritrea a muovere la ’macchina’ degli aiuti provenienti dal comprensorio cesenate è padre Gabriel, frate cappuccino che si avvale della collaborazione di suore francescane comboniane di Sant’Anna e San Vincenzo. “Ringraziamo tutte quelle famiglie cesenati che hanno riposto fiducia in noi e nei nostri semplici mezzi. Oltre al denaro che periodicamente viene inviato, in Eritrea abbiamo cercato di portare un poco di quel tanto affetto che le famiglie ’adottive’ dimostrano verso i ’loro’ bambini, così lontani fisicamente, ma così presenti nei loro pensieri”, precisa Concetta. Meno di un euro al giorno sono sufficienti per il mantenimento dignitoso dei bambini che così possono frequentare la scuola. E per un aiuto concreto alle famiglie, composte in prevalenza da mamme e figli piccoli. Soldi che vengono consegnati dai missionari direttamente alle mamme. Per chi volesse avere maggiori informazioni, si può rivolgere direttamente a Concetta Panzera, 338 9658619; Carmela Governali 339 1643741; Elena Oliveri, 329 5922306. Saranno presenti per un mercatino di solidarietà allestito dal 13 al 16 agosto nel parco adiacente alla Basilica del Monte, a Cesena. Il mercatino sarà poi allestito ogni domenica, mattina e pomeriggio, fino al 6 settembre. Sarà possibile acquistare pezzi di artigianato eritreo. Sabrina Lucchi

Kenya - Diplomatico eritreo espulso “per motivi di sicurezza”

Un diplomatico eritreo è stato espulso per motivi di sicurezza, un giorno dopo che il segretario di Stato degli Stati Uniti Hillary Clinton aveva accusato Asmara di destabilizzare la regione, sostenendo ribelli somali. L’Eritrea nega di sostenere i ribelli. H. Clinton aveva avvertito che gli Stati Uniti avrebbero reagito duramente qualora l’Eritrea, non avesse posto fine al suo silenzioso supporto ai ribelli in Somalia, gruppo Shabaab compreso. Shabaab, secondo Washington, sarebbe il rappresentante di al Qaeda in Somalia. Un gruppo quindi molto pericoloso. Agenzie di sicurezza occidentali sostengono che la Somalia è un rifugio degli estremisti per la pianificazione di attacchi nella regione e oltre. Il ministro degli Affari esteri Eritro Osman Saleh appena è venuto a conoscenza dell’espulsione è arrivato a Nairobi in modo imprevisto in cerca di un incontro con il Presidente del Kenya Mwai Kibaki. Osman si è confrontato con il suo omologo keniota Mosè Wetangula, ma non è ancora chiaro se abbia incontrato Kibaki. L’Eritrea nega di sostenere i militanti in Somalia, e, a sua volta, accusa gli Stati Uniti di provocare spargimenti, di sangue nel Corno d’Africa, inviando tonnellate di armi e munizioni per il governo somalo. La violenza in Somalia ha ucciso oltre 18.000 persone a partire dall’inizio del 2007.

Rifugiati Football Club

Una squadra multinazionale Quando la storia dei calciatori conta più di quella della partita I campi profughi sono tristi realtà del nostro mondo. Realtà di morte, sofferenza e guerra. Di conflitti che segnano senza pietà alcune tra le nazioni più povere. Liberia, Sudan, Afghanistan, Bosnia, Burundi, Iraq e molte altre ancora. Milioni di persone che sono costrette per sopravvivere a scappare dalla propria casa, dai propri parenti o amici e cercare rifugio nei campi profughi lontani dalle zone di persecuzione. Per queste persone l’unica speranza è il reinsediamento. Fare una domanda che molte volte si traduce in una preghiera, capace di durare anche molti anni, all’Alto Commissariato dell’ONU. Sperare in questo modo di poter ricostruirsi una vita da qualche altra parte nel pianeta anche se questo può tradursi in un ulteriore allontanamento dai propri cari. Il viaggio verso una speranza di libertà si concretizza per alcune di queste persone con destinazione Clarkston, negli Stati Uniti. Non molto distante da Atlanta. In questa cittadina, sconvolta anch’essa nella propria abitudinaria routine da tranquilla periferia americana, appartamenti di grandi complessi abitativi in stato di abbandono vengono assegnati a rifugiati provenienti da ogni parte del mondo. Rifugiati Football Club parte dalle storie drammatiche di alcune delle famiglie che vivono in questi quartieri, dalle loro testimonianze di dolore e odio, fino ad arrivare alle difficoltà per adattarsi al nuovo stile di vita, alla necessità di riuscire a trovare un lavoro o di imparare una nuova lingua, a una diffidenza generale e al pericolo che, inevitabilmente, scaturisce in una zona in cui povertà e violenza confluiscono come una miscela esplosiva. In questo contesto un segno di speranza e di aiuto diventa la squadra di calcio dei Fugees, i Rifugiati, allenata e gestita da una ragazza giordana di nome Luma anche lei, in un certo senso, in cerca di una famiglia. Attraverso la squadra prova a offrire un sostegno ai più giovani abbinando al calcio anche un programma di recupero scolastico ma soprattutto dando ai ragazzi che ne fanno parte, la possibilità di unirsi nelle loro diversità e di adattarsi insieme a una nuova realtà in cui cercare di ricostruirsi una vita. L’autore, Warren St. John, è un reporter e il suo stile traspare in ogni riga. Il libro ci appare come un vero e proprio documentario pieno di testimonianze, interviste, approfondimenti. Ci trasporta attraverso le vicende delle squadre giovanili in realtà umane davvero complesse e drammatiche in grado di farci scoprire come la felicità possa liberarsi anche dove il dolore si è accanito oltre ogni immaginazione. Un libro documentario, quindi, ma coinvolgente ed emozionante come un romanzo vero e proprio. Gianluca De Salve Rifugiati Football Club Autore: Warren St. John Editore Neri Pozza 375 pagine Euro 16,50

Profughi pronti a lasciare l’ex S. Paolo: "Qui è bello, ma molte cose non vanno"

Torino I problemi segnalati «Una cucina comune e manca un locale dove pregare» m.nei. Elegante e quieta, via Asti ha paura che la caserma dalla tetra memoria diventi Centro di Accoglienza Straordinaria. Però mansueti e umili non sono convinti di volerci andare proprio loro, i duecento profughi somali che ora si spartiscono stanze, sale d’attesa e ambulatori dell’ex clinica San Paolo in corso Peschiera. Sembra un controsenso: la Lamarmora (Fanteria, Bersaglieri ciclisti, poi dall’8 settembre 1943 sede delle torture repubblichine) è un austero palazzo calato nell’eleganza che lo contorna, ma vista all’interno, con gli occhi dei rifugiati politici, non ha abbastanza spazi vitali, è una strettoia del vivere pur non essendo detenzione. La clinica deve essere comunque sgomberata e fra le alternative lo Stato ha offerto questa. Ieri pomeriggio l’assessore ai Servizi sociali del Comune, Marco Borgione, con buon senso, ha invitato le Associazioni e una delegazione di somali a visitare la Lamarmora e a dire la loro. Che ne è venuto fuori? Non sono convinti. Corso Peschiera ha molti problemi, ma «c’è il fiato, c’è il respiro». Yassiin ha 31 anni, per 17 ha visto guerre in Somalia, è fuggito dieci mesi fa lasciando con il nonno una bimba e un bimbo di 8 e 9 anni: «Noi chiediamo aiuto, quindi non c’è pretese da noi. Non vogliamo un albergo, no. Ma qui ci sono camere di cinque metri per quattro dove mettere anche quattordici persone con i letti a castello. Duecento profughi e una cucina per tutti, una sola, vietato cucinare nelle camere. Come si fa a mangiare tutti?». E’ scritto nelle norme per «l’ingresso e il funzionamento»: «Un locale destinato a uso cucina e mensa, nel quale è possibile, a cura degli ospiti, preparare e consumare piccoli pasti dalle 6 alle 22,30». E quando arriva il Ramadan, chiede? «Si digiuna di giorno, per religione, poi la cucina è chiusa?». Fosse solo per quello, ma come ci si giostra quella cucina? Ora vivono in una struttura dove s’incrociano spezie e sapori da ogni stanza, sono duecento e per applicare le «norme» («non introdurre fornelli, non consumare pasti fuori dal locale mensa») quale girandola di turni inventare? L’assessore: «Ci sono punti da aggiustare, come Ramadan o un luogo per pregare. E ci sono regole di convivenza all’interno e con l’esterno. Non si crea un ghetto. Non voglio uno sgombero, ma un trasferimento concordato». E loro non avanzano grandi richieste, ma «la dignità», dice uno dei più silenziosi: «Non c’entra il Comune di Torino, ma l’Italia. Danimarca, Svezia, Olanda per i rifugiati hanno un programma vero. Li accolgono per i diritti umani. L’Italia accoglie più volentieri Gheddafi, invece. Venite a vedere torture, sevizie, malattie, violenze, i segni che portano tanti passati in Libia».

Profughi contro il regolamento della caserma: "Sembra una prigione"

di Diego Longhin Il cancello grigio e un po' arrugginito si è riaperto dopo due ore di tour nelle camerate. Tra i primi ad uscire c'è Mohamed, somalo, alza le braccia è le incrocia. Dalla bocca esce solo una parola in inglese: jail. La caserma di via Asti per lui è come una prigione. E non è solo l´opinione di Mohamed, ma di tutto il gruppo di profughi del Darfur che ieri hanno visitato in anteprima la struttura che sarà pronta per fine agosto. «Questa sembra una prigione - dicono i rifugiati - ma noi non siamo detenuti». A non convincere non è la struttura, ma le regole che Comune e prefettura vogliono imporre. La bozza è stata consegnata ai rappresentanti dei profughi che da più di un anno occupano in maniera abusiva l´ex clinica San Paolo. Una serie di paletti, ad iniziare dal coprifuoco fissato alle 23.30, salvo problemi di lavoro che vanno comunicati per tempo. Televisione e computer spenti dopo mezzanotte. Vietato ricevere amici o conoscenti nelle camerate ed è obbligatorio comunicare dodici ore prima uscite dal centro per più giorni. Pena? Espulsione per assenze superiori ai due giorni non autorizzate. Se si condisce il tutto con la presenza dei militari all´ingresso per verificare chi entra ed esce per i profughi è meglio la clinica di corso Peschiera. «Perché tutti questi controlli? Non siamo delinquenti. Se voglio uscire la sera tardi per andare a trovare delle persone perché non posso? Meglio stare alla San Paolo», dice Yussif. La visita ha provocato una sorta di fobia da cancello chiuso, da controlli ad ogni passo. Ad accompagnare l'avanguardia di rifugiati che il 29 agosto verranno trasferiti, volenti o nolenti, in via Asti c´era l´assessore all´Assistenza, Marco Borgione, oltre a rappresentanti di questura, prefettura e delle associazioni che seguono da tempo il problema e che lavoreranno nel centro temporaneo. Tra la caserma ristrutturata e l'ex clinica San Paolo non c´è paragone, ma visto il vademecum, i profughi bocciano pure la nuova sistemazione. «Mancano le lavanderie, dobbiamo lavarci la roba a mano, c'è solo la cucina con cinque forni, ma non abbiamo visto la mensa, gli spazi nella camere dove dobbiamo dormire in dodici sono troppo stretti», dice Yasin, anche lui viene dalla Somalia. Poi è stato sollevato il problema Ramadan. Quasi in contemporanea con il trasferimento scatta il mese in cui gli islamici digiunano di giorno e mangiano solo la notte: «Come facciamo visto che si può cucinare solo dalle 6 alle 22.30?», dice un rifugiato. Comune e prefettura concederanno una deroga. La chiusura della clinica San Paolo, dove ormai ci sono 320 persone, non è in forse. Il sindaco ha già firmato l´ordinanza di sgombero e quando saranno completati i lavori di ristrutturazione ci saranno cinque giorni per organizzare il trasloco di 200 rifugiati. Le finestre dei profughi affacceranno su via Asti. Due i piani a disposizione con 18 camerate da 40 metri quadri e sei stanze dal 25 metri quadri, adatte per piccoli nuclei familiari. Venti box doccia per ciascun piano, più due locali cucina-mensa con forni e piastre. Soddisfatto Diego Castagno, vicepresidente della circoscrizione 8: «Nei prossimi giorni organizzeremo un incontro tra i due comitati di residenti, quello a favore del trasferimento dei profughi in via Asti e quello contrario, nella speranza di trovare una posizione serena e condivisa».

martedì 4 agosto 2009

ROMA: GIOVEDI' AL PANTHEON CELEBRAZIONE ANNIVERSARIO HIROSHIMA

Roma, 4 ago. - (Adnkronos) - Per il tredicesimo anno consecutivo, il Comitato 'Terra e Pace' organizza una manifestazione per non dimenticare la tragedia di Hirsohima, che ha causato ben 250.000 vittime. La manifestazione si svolgera' alle nella Piazza del Pantheon alle 9,30 di giovedi' 6 agosto in occasione del 64esimo anniversario della tragedia con il patrocinio del Comune, della Provincia di Roma, e della Regione Lazio. Tra i presenti, l'ambasciatore del Giappone in Italia, i Gonfaloni di Comune, Provincia e Regione, autorita' dello Stato, rappresentanti delle istituzioni, del volontariato, organizzazioni internazionali, rappresentanze diplomatiche. Vi saranno brevi interventi delle autorita' e verranno letti i messaggi del Presidente della Repubblica, dei Presidenti di Camera e Senato, e del Ministro degli Esteri, Franco Frattini. Seguira' la consegna del premio 'Terra e Pace', un fossile di un milione di anni simbolo del rispetto della vita sul pianeta, all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). "Anche quest'anno - si legge in una nota dell'associazione - nella difficile situazione che vive il mondo tra minacce di riarmo nucleare e grandi fenomeni migratori il Comitato 'Terra e Pace' ricorda l'anniversario di Hiroshima, perche' nessuno e soprattutto tra i giovani dimentichi le tragiche conseguenze per l'umanita' quando il dialogo e la politica falliscono e si intraprende la via delle armi, dell'intolleranza e del razzismo". Il presidente Athos de Luca in occasione di questa giornata di pace ha lanciato una petizione al Presidente della Camera dei Deputati per il rispetto dei diritti umani anche in Libia, invitando quel paese a firmare la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. La manifestazione si concludera' con l' esecuzione degli inni nazionali italiano e giapponese, un minuto di silenzio per tutte le vittime della guerra nucleare e del razzismo, e i rintocchi della campana di Hiroshima.

RIFUGIATI: GESUITI, NEGATI LORO DIRITTI, PAPA CHIEDE PREGARE PER LORO

(ASCA) - Citta' del Vaticano, 4 ago - Papa Benedetto XVI, nell'intenzione di preghiera per il mese di agosto, ha invitato i cattolici di tutto il mondo di pregare ''perche' sia piu' avvertito dalla pubblica opinione il problema di milioni di sfollati e rifugiati e si trovino soluzioni concrete alla loro situazione spesso tragica''. Eppure, in Italia i loro diritti sono ''calpestati anche se si parla sempre di un'attenzione verso di loro''. La denuncia arriva da p. Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli gestito dal Servizio dei gesuiti per i rifugiati. ''Siamo contenti - afferma il sacerdote in un'intervista alla Radio Vaticana - che il Santo Padre ci sostenga, invitandoci a pregare per i 42 milioni di rifugiati che ci sono nel mondo. Questo dovrebbe risvegliare le coscienze di quanti hanno la responsabilita' ed il potere di cambiare le sorti di questo mondo. Sorti che ci preoccupano fortemente come credenti, perche' i diritti delle persone vengono calpestati anche se si parla sempre di un'attenzione verso di loro''. ''In Italia - aggiunge -, in questo momento, con il nuovo decreto sicurezza, siamo profondamente preoccupati per le sorti dei rifugiati. Viene riconosciuto loro il diritto all'asilo politico in quanto firmatari della Convenzione di Ginevra, pero' di fatto glielo neghiamo perche' impediamo loro di arrivare e quindi di fare richiesta''. Per il presidente del Centro Astalli, di fronte alla condizione dei rifugiati ''non possiamo considerarci non responsabili di quanto sta accadendo nel nostro mondo'': ''Anche con le nostre scelte quotidiane possiamo avallare questo modo di fare o possiamo dire ''no'. Possiamo volere che questo mondo cambi, in modo da consentire a tutti di vivere in pace e di professare la propria fede nella propria terra, nella propria cultura e con la famiglia, mantenendo il proprio lavoro''. ''Ci rattrista - conclude il sacerdote - il fatto che l'Unione Europea diventi sempre piu' una fortezza concentrata sul contrastare il fenomeno degli arrivi piuttosto che preoccuparsi delle persone, accogliendole e capendo cosa non sta funzionando. Si devono aiutare rispettando la vita delle persone che sono costrette a venire in Italia e in Europa''.