martedì 23 marzo 2010

La Corea del Nord africana

Nazionalismo estremo, violazioni dei diritti umani, regime paranoico. Il direttore della redazione di Jeune Afrique descrive così l’Eritrea in un dossier preparato dal settimanale d’attualità africana. “L’esemplare movimento di liberazione che per trent’anni ha lottato prima contro l’esercito del negus Hailé Sélassié e poi contro quello del suo successore, Mengistu, fino a ottenere l’indipendenza, nel 1993, si è trasformato in uno dei regimi più chiusi e repressivi del pianeta. In coda a tutte le classifiche sui diritti umani, chiuso a tutte le ong, alle agenzie delle Nazioni Unite e ai giornalisti, la Corea del Nord d’Africa è oggi l’ultima dittatura del continente”. I successi ottenuti e sbandierati dal presidente Isaias Afewerki (zero corruzione, zero criminalità, scuole e sanità gratuiti) non riescono a nascondere la realtà di un paese in cui non ci sono mai state le elezioni, in cui dai 16 ai 50 anni ogni cittadino dev’essere a disposizione dello stato e nessuno può lasciare il paese senza un’impossibile autorizzazione ufficiale. Non è un caso quindi se l’Eritrea ha uno dei tassi di fuga più alti del pianeta. Tagged as: eritrea

Libia, il processo di democratizzazione tarderà ancora molto a decollare

Nel 2009 la Libia ha festeggiato il 40° anniversario dell'istituzione della repubblica rivoluzionaria. Per chiudere il contenzioso pluridecennale tra i due paesi per i danni del colonialismo italiano Berlusconi e Gheddafi hanno firmato un accordo che prevede, tra le altre cose, il pattugliamento congiunto della frontiera terrestre della Libia, la costruzione di un'autostrada costiera a spese dell'Italia, 5 miliardi di euro di risarcimenti e il rafforzamento della cooperazione militare. A febbraio 2009 il Parlamento italiano ha ratificato l'accordo nonostante le proteste dell'Udc e dei Radicali. L'Udc ha invocato la tutela degli italiani espulsi dalla Libia nel 1970 e la questione della presunta mancanza di libertà religiosa in Libia. Il Pd ha invece avallato l'accordo mentre l'Italia dei Valori ha annunciato il voto contrario: "Non siamo disposti a dare soldi a Gheddafi che sfrutta i flussi migratori dall'Africa - ha dichiarato Di Pietro - E questo trattato comprende la cooperazione militare e il riarmo di un dittatore". La Libia è infatti un punto di transito dei migranti provenienti da vari paesi dell'Africa che cercano di raggiungere l'Europa. Una ventina di carceri etniche per un totale di 60mila detenuti, 14.500 persone abbandonate in mezzo al deserto lungo la frontiera libica dal 1998 al 2003: sono solo alcuni dei dati riportati da un recente studio pubblicato da Fortress Europe, il blog che da anni segue le vicissitudini delle rotte dei migranti. Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, pubblica rapporti che rimangono segreti, tace sulle pratiche di maltrattamenti e di pestaggi portati avanti dalle autorità libiche e denunciati più volte da diverse ONG, e oggi chiede anche alla Libia di farne parte. La Libia sta assumendo il ruolo di gendarme nel Mediterraneo per trattenere od ostacolare i flussi di migranti ricevendo un placet politico, una sorta di patente di buona condotta nel campo dei diritti umani oltre ad un sostegno economico in risorse ed in assistenza e forniture di materiale per la sicurezza. Gianfranco Fini si è espresso al fine di verificare il rispetto dei diritti umani in Libia. La Libia non ha infatti, fino ad ora, stabilito alcun meccanismo formale per la protezione di individui in fuga da persecuzioni. Il leader libico Muammar Gheddafi nega categoricamente che i migranti in Libia, o diretti in Europa attraverso la Libia, siano in cerca di asilo. Ha definito la questione come una "menzogna diffusa". Nessuno degli ex-detenuti intervistati per il rapporto di Human Rights Watch (HRW) ha detto di aver visto o incontrato l'UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) ed un gran numero di loro ha riportato di essere stato picchiato per qualunque richiesta fatta alle guardie libiche. HRW denuncia severe violazioni dei diritti umani nei confronti dei profughi eritrei in Libia perché quando sono in cerca di asilo politico sono costretti a incontrare i rappresentanti eritrei. In mancanza di una legislazione i rifugiati politici sono accorpati agli altri immigrati. L'alto commissariato ONU per i rifugiati ha invitato le autorità libiche a non rimpatriare immigrati provenienti dall'Eritrea, i cui profughi, indipendentemente dai motivi di uscita, al rientro sarebbero destinati comunque a torture e detenzione. HRW ricorda che, nelle carceri della Jamahiriya, "sono rinchiusi decine di prigionieri politici condannati dopo processi iniqui per avere espresso le loro opinioni politiche". Fathi Eljahmi, prigioniera politica libica, denuncia: "gli abusi del regime comprendono le precarie condizioni di vita nelle prigioni, gli arresti e le detenzioni arbitrarie, l'impossibilità per i prigionieri di comunicare, la detenzione prolungata senza accusa né processo. Il sistema giudiziario è in mano al regime che non ammette il diritto al processo pubblico. Le libertà di parola, di stampa, di riunione e di associazione sono ristrettissime. Le NGO sui diritti umani sono proibite. Il governo libico costantemente confisca terre spogliando i cittadini della proprietà senza alcuna o con un' irrisoria compensazione". Sempre secondo HRW in Libia esistono centri di riabilitazione sociale per dare rifugio alle donne in cerca di protezione, centri che in realtà sono prigioni, luoghi di segregazione, nei quali si aggiungono sofferenza e violenza. Si legge nel rapporto: "Non c'è una legge sulla violenza domestica in Libia e le leggi che puniscono la violenza sessuale sono inadeguate. Il governo persegue soltanto i casi di violenza più cruenti ed i giudici hanno l'autorità per proporre l'unione fra lo stupratore e la vittima come "rimedio sociale al crimine". Le vittime di stupro esse stesse rischiano il processo per l'adulterio o la fornicazione. Famiglie di molte vittime costringono queste donne all'unione con lo stupratore per evitare lo scandalo pubblico perché quando in Libia una donna è vittima di violenza sessuale subisce l'ostracismo della famiglia e della comunità. Tripoli concede sempre più potere ai gruppi religiosi e preoccupata per la minaccia dell'estremismo islamico ha compiaciuto i musulmani allargando l'applicazione della Sharia. La popolazione libica è di circa 6milioni di abitanti ed è composta da musulmani (96,5%) e cristiani (3%). I cristiani libici sono molto pochi e quasi tutti sono lavoratori stranieri, e i loro incontri sono attentamente e costantemente monitorati dal governo. La letteratura cristiana può entrare nel Paese solo segretamente. Un anno fa quattro cristiani vennero detenuti in un carcere e torturati per essersi convertiti dall'Islam. Ai parenti venne proibito di visitarli e vennero fatte "pressioni" fisiche e psicologiche perché rivelassero i nomi di altri convertiti (International Christian Concern) Aisha al-Rumi ha denunciato invece la persecuzione degli appartenenti alle tribù berbere della Libia costretti all'esilio dal regime libico che non riconosce la loro identità etno-culturale. Alle precarie condizioni dei diritti umani si accompagnano quelle economiche: la disoccupazione supera il 21% della, la popolazione vive in povertà mentre il regime spende gran parte delle entrate delle risorse energetiche in spese militari. Il fatto è che ci sono in gioco gli interessi petroliferi delle aziende petrolifere occidentali (tra cui l'italiana Eni la cui presenza in Libia è stata prolungata fino al 2047) nonché la proiezione militare europea sull'Africa sub sahariana. Il deserto libico, infatti, è al centro del cosiddetto «corridoio dell'instabilità» che dalle coste della Somalia arriva fino a quelle della Nigeria. Secondo Mussie Zerai dell' Agenzia Habeshia: "L'accordo tra Italia e Libia sul controllo delle frontiere e gli scambi commerciali non è affatto un risarcimento per il popolo libico. E' invece il modo per legittimare un regime che dura da quarant'anni e che ora serve per fare il lavoro sporco contro i migranti. Una democrazia non dovrebbe mai cedere al ricatto di una dittatura come quella del Rais di Tripoli. Il popolo libico così non viene risarcito. E' stata fatta solo una manovra commerciale. Gheddafi aveva bisogno di uscire dall'isolamento internazionale e l'Italia gli ha dato l'occasione, accettando le sue condizioni su immigrazione, energia, grandi opere". "L'Italia - ha concluso Zerai - ha fatto un grave errore nel dare questo cosiddetto «risarcimento» a una dittatura mai sostenuta da una consultazione popolare. E' un precedente negativo per tutto il continente. Se gli stati democratici premiano i dittatori, quando gli sono utili, perdono ognicredibilità quando chiedono ad altri dittatori di rispettare i diritti umani".

Tadese record del mondo nella mezza maratona

L'eritreo Zersenay Tadese, già vincitore di quattro titoli mondiali di corsa su strada(20 e 21km), realizza a Lisbona il nuovo record del mondo della mezza maratona coprendo i 21,097 chilometri di gara in un fantastico 58.23. Il precedente record era stato corso del keniano Samuel Wanjiru, campione olimpico di maratona, che aveva coperto la distanza in 58:33, ma durante la gara portogese il limite era già stato messo in discussione al km 10, quando Tadese ferma le lancette sul 27.53, ancora piu sorprendente il passaggio al 20° km dove l'eritreo realizza il nuovo record del mondo(55.21), cancellando dagli annali Haile Gebreselassie(55.41).

venerdì 19 marzo 2010

Eritrea Recalibrates Somalia Policy

US Secretary of Defense Donald Rumsfeld and Eritrean President Isaias Afewerki A new UN monitoring report gives fresh and detailed evidence of Eritrea’s support for Somali armed opposition groups. Eritrea says its intentions are misunderstood, but the country has found itself on a dead-end road and is now forced to recalibrate its policy, Georg-Sebastian Holzer writes for ISN Security Watch. By Georg-Sebastian Holzer for ISN Security Watch From Eritrea’s point of view, it might all look like a huge misunderstanding. Asmara considers its political, financial and military support for armed opposition groups in Somalia as a legitimate counterbalance to its archenemy, Ethiopia, which invaded Somalia in late 2006 with the consent and active help of the US, thereby shifting the balance of power in the region. Subsequently, Ethiopia found itself entangled in a counterinsurgency it proved incapable of winning and has since backed the second Transitional Federal Government (TFG) in Mogadishu, which in the meantime also appears doomed to fail, having lost all its political capital and being unable to expand its control beyond the immediate surroundings of the presidential palace in the capital. Eritrea might also consider its actions as justifiable at a time when an increasing number of regional and western experts are saying that the war on terror in Somalia was a self-fulfilling prophecy and the current exclusive assistance to and backing of the TFG might not be the winning formula to solve or even contain the civil war. But that is not how the international public, at large, sees things in terms of Eritrea’s contribution to the ongoing insurgency. Eritrea has failed to grasp that a different consensus on the conflict in Somalia has emerged in the wider region, not least with respect to its role in the conflict. But as often the case, totalitarian political systems find it hard to adapt to new developments or to communicate their own views and interests. In fact, Eritrea made headlines last year as the world’s second most militarized country after North Korea. Moreover, it was given last place in the World Press Freedom Index and was said to have created one of the highest numbers of refugees of any country in the world not at war with its population of 5 million. The thousands fleeing the country were simply "going for a picnic" as President Isaias Afewerki explained in a Reuters interview in October. Caught off guard Afewerki, Eritrea’s president since 1993 and leader of the independence movement, was subsequently caught off guard when the African Union (AU), in an unprecedented step, asked the UN Security Council to sanction the country, an AU member, late last year. This incident could not solely be attributed to Ethiopia’s growing influence in the Union. In December, the UNSC imposed limited sanctions on arms sales to Eritrea and laid the groundwork for sanctions against some of its officials by expanding the mandate of the Somalia Monitoring Group to Eritrea in order to get a clearer picture of Asmara’s involvement in Somalia. On 5 March, Africa Confidential cited diplomatic sources as saying that the Somalia Monitoring Group had already recommended in mid-2009 that Eritrea’s intelligence chief Colonel Te’ame Goitom, Public Information Minister Ali Abdu Ahmed and the head of political affairs for the ruling People’s Front for Democracy and Justice Yemane Gebreab be designated for sanctions. The Somalia Monitoring Group reports became the most authoritative documents on Somalia since the US successfully lobbied for Matt Bryden, the renowned regional expert and former director of the International Crisis Group’s Horn of Africa project in Nairobi, to become the group’s new coordinator in 2008. Recent death threats against the five-member monitoring group investigating the links between Somali businessmen and armed opposition groups are an indicator of their in-depth work. Substantiated allegations According to the most recent report by the Somalia Monitoring Group discussed on 16 March at the UNSC, “the Government of Eritrea has continued to provide political, diplomatic, financial and - allegedly - military assistance to armed opposition groups in Somalia during the course of the mandate.” The report describes in detail Asmara’s already well-known role in hosting the senior leadership of the Alliance for the Reliberation of Asmara (ARS)/ARS-Asmara, between November 2007 and April 2009. It details how Asmara facilitated the formation of a new opposition alliance, Hizbul Islam, headed by Hassan Dahir Aweys. In addition, it describes how Eritrea’s government facilitated the return of Aweys to Mogadishu on 23 April 2009, including an obscure chartered airline story, to assume the leadership of Hizbul Islam and prepare for the movement’s joint al-Shabaab offensive of May 2009. Asmara’s support included all major armed opposition groups from ARS Asmara, Hizbul Islam to al-Shabaab. The report points out that in addition to military and diplomatic support, Eritrea has consistently provided financial support to the armed groups, with monthly payments to each group in the order of $40,000-$50,000, plus additional funds for large-scale operations. “Provision of cash permits armed opposition groups to purchase weapons from government forces, thereby arming themselves while disarming their adversaries,” the report stated. The report points out four high-ranking opposition figures who received such cash contributions during the course of 2009 to show the widespread reach of Asmara’s support for armed opposition groups in Somalia. They include Yusuf Mohamed Siyaad ‘Indha’adde’ (ARS-Asmara, central regions, subsequently joined the TFG as defense minister); Issa ‘Kaambooni’ (Raas Kaambooni forces, Lower Juba region, arrested in Kenya late in 2009); Mukhtar Roobow (al-Shabaab, Bay and Bakool regions); and Mohamed Wali Sheikh Ahmed Nuur (Hizbul Islam, Gedo region). “Eritrea continues to send arms to Somalia in small vessels via the northern Somali port of Laasqoray for onward shipment to Shabaab forces in southern Somalia,” according to their sources. “In May 2009, Eritrea allegedly sent Ukrainian-made small arms and anti-tank weapons to Hizbul Islam via the port of Kismaayo.” In addition, Eritrea also maintains training camps for Somalia’s armed opposition groups near Assab in eastern Eritrea as well as near Teseney to the west, at times even deploying trainers and/or military advisers inside Somalia to assist armed opposition groups. Successful international pressure? Eritrea’s line of defense is to strictly reject all allegations and demand hard evidence. While some analysts fear that the current sanctions might further alienate Afewerki and exacerbate his sense of isolation, Asmara is already recalibrating its policy toward Somalia despite the rhetoric distractions. According to the Monitoring Group, "By late 2009, possibly in response to international pressure, the scale and nature of Eritrean support had either diminished or become less visible, but had not altogether ceased." Another explanation might yet be as persuasive: Eritrea’s links to all major Somalia armed opposition groups have become an increasing liability to the country’s interest. A good example is the senior al-Shabaab official Sheikh Mukhtar Robow publicly declaring to send fighters to Yemen to help al-Qaida there in its fight against foreign forces at the end of last year. Even though this was only a propaganda move, it endangered Eritrea’s relations with Yemeni President Ali Abdullah Saleh, which is why Afewerki was quick in criticizing and distancing himself from al-Shabaab’s move. In addition, al-Shabaab and Hizbul Islam are not only split by clan and sub-clan divisions, but persistently fight over strategic installations such as the port of Kismayo, from which revenues are an important income for Somalia’s war economy. In an environment in which ideology and alliances come second to money, Asmara realized it could quickly find itself caught between two forces in trying to support the major armed opposition groups in the country. As Eritrea has no genuine political interests in Somalia but sees it as a mere battle ground to counterbalance Ethiopia and engage in a proxy war on Somali soil, it finds it easier than Ethiopia to recalibrate its policy. Hence, Asmara downscaled its support and shifted it to Hizbul Islam, in which it sees an ideologically less radical actor with whom it might be easier to deal. In the end, Asmara would like to have its stake in a potential political settlement in Mogadishu, whatever that might look like. Taking into consideration Asmara’s past inability to communicate with regional and international actors in Somalia, this might well remain wishful thinking. Georg-Sebastian Holzer is an analyst and free-lance journalist. He focuses in particular on conflict dynamics in the wider Horn of Africa.

Ertirea Media Watch: Sanctions Impacting Eritrea Policy; Michael Abraha

Eritrean leader Isaias Afwerki returned home over the weekend from a two day visit to Libya where he met with his counterpart Col Moammar Khadafy. It is thought that Eritrea is being counseled by Libya and other rogue states including Sudan and Iran about UN sanctions imposed on the Asmara regime. These leaders have been punished by the UN in the past for lawless behavior. Eritrea needs their informed advice in formulating a tolerable plan on how to respond to the UN charges. The strategy adopted so far has been to keep rejecting the charges that Eritrea is supporting Al-Qaeda sponsored terrorist violence in Somalia where over 21-thousand people have lost their lives in the last three years. The accusations are said to be serious enough for consideration under international laws governing war crimes. The latest UN status report provides more concrete evidence of Eritrean support for extremist groups in Somalia. The government claims the report clears it of any blame even though there appears no room for such interpretation. The report underscores that Asmara´s support for hard line Somali insurgents has either diminished or has become less visible following the imposition of the sanctions in December. The fact remains the Eritrean government has no choice but to give in to the mounting international pressure. That is exactly what is happening and all interested parties especially Eritreans and Somalis should find the unfolding outcome most encouraging. The hardest part is how to end oppression inside Eritrea where the regime´s violent foreign policy is rooted. Unless the Eritrean people are free from repression and dictatorship, there would be no real peace in the Horn of Africa. REUTERS´ JEREMY CLARKE IN ASMARA Thanks to an impending gold mining boom in Eritrea overshadowed by crippling UN sanctions, any report or comment coming from Reuters´ Jeremy Clarke in Asmara is of tremendous interest to policy makers, stock holders and many news organizations around the globe. Clarke´s stories are picked up by thousands of online and print media including major dailies in Europe and America. He is the only independent observer in a country regarded as the worst violator of press freedom in the world. How the sanctions will affect the British, Canadian and other western mining interests in Eritrea or how these interests will affect the implementation of the sanctions is yet to be seen. And whether Jeremy Clarke stays or is kicked out of Asmara will depend on how he portrays Strongman Isaias Afwerki presiding on a tortured, starving and terrorized population. AWATE FOUNDATION SHOULD APOLOGIZE Professor Bereket outpaced literally every other awate.com contributor by devoting close to a 15-thousand word-paper (small-size book) to respond to Awate Foundation´s anti-Christian stereotyping mission also known by many as Ali Salem´s jihadist project. This ominous project has to be called by its right name so that no more wrong medicines are prescribed as did the Professor in his otherwise very brilliant document. The paper, which is part of his yet-to-be published book, is entitled State, Religion and Ethno-Regional Politics (awate.com 03/01/10). In it, Professor Bereket implies religious extremists will be satisfied if Arabic was made a national language or if ´exploiter Christian settlers´ vacated the Moslem lowlands. The Awate.com/Ali Salem project is focused on threatening and vilifying the Tigrigna Christians in the highlands for selfish and narrow political gains and is hardly interested in working with other democratic forces to transform the Eritrean society. In fact, its objective has so far been to weaken and divide the exiled opposition and discourage and confuse the Eritrean youth. These dangerous, extremist conspirators are demonizing the ethnic Tigrignas essentially because over a century ago the Italian colonizers built the country´s economy in and around the Asmara Plateau giving them social and economic advantages over the lowland Moslems. The Belgians built the Rwandan economy around the favored ethnic Tutsis – a reality which eventually led Hutu extremists to kill almost a million of them in 1994. The Tutsis had to pay for Belgian colonial transgressions. Moslem and Christian Eritreans should remain united and guard themselves against blind and dangerous fanaticism. Professor Bereket erred in suggesting that some lofty constitutional proposal (important as this may be) would be the answer to hate. As a trained lawyer, he knows it is impossible to legislate how people should shred their hate or be selfless or inclusive. With due respect to Professor Bereket, here is a more sensible first step for him to pursue, if he so desires. He could and indeed should urge the Awate Foundation and its backers to apologize to the Eritrean people for fomenting religious hatred and tension. The damage has already been done. And there is no better way to heal and unite except through an act of reconciliation which the foundation says is one of its main goals. ASSENNA.COM´S DUBIOUS ´BREAKING NEWS´ Assenna.com´s exclusive report on March 9, 2010 about 15 defecting air force officers should, if true, be a very troubling development for the Eritrean government. The desertions have not been confirmed by any other Eritrean or foreign news sources. This Assenna report comes against the backdrop of previous online news and broadcast information delivered over a period of time by the website in which it claimed a mutiny had occurred and that a national committee of military officers had been formed ready to overthrow the regime. It also once claimed there was an assassination attempt on the life of the Eritrean President. None of these reports have so far been independently confirmed by diplomats or elements of the Eritrean opposition active inside the country. Assenna.com is a competent news outlet with very capable reporters and writers. There is no need for it to try to mimic the ruling PFDJ media which regularly lies about life-and-death matters such as mass starvation, rotting prisoners or exodus of refugees. Whatever the justification, Assenna or its readers have nothing to gain from the spread of made-up or unreliable information. (The writer wishes Assenna full success in its current fund-raising drive) A few years back, awate.com falsely reported that another round of border war had broken out between Ethiopia and Eritrea and that intense fighting was raging between the two armies. It is hard to hide such bloody incidents. Of course nothing of the sort ever happened although for weeks Awate.com stood by the news it had invented, which only further undermined its credibility as a media outlet. (FOR THE RECORD: AWATE.COM HAS DELIBERATELY CARRIED INCORRECT REPORTS MORE than once claiming that this writer was once an Ethiopian Derg member or supporter and that he has in the past served as political adviser to Col. Dawit Wolde Giorgis, former Ethiopian Relief and Rehabilitation Commissioner. This is an absurd, cheap fabrication of facts merely intended to serve Awate´s narrow and purposeless political agenda. Here are the facts: I was part of a small humanitarian team of experts under Commissioner Dawit at the peak of the Ethiopian famine in 1984. I am proud of my part in serving drought/famine stricken Ethiopians and Eritreans at the time. I had not met or known Dawit personally until I joined his Commission in 1984 where I served for about a year. My role and that of my colleagues in my team were sponsored by donor agencies as part of international aid packages to Ethiopia. Commissioner Dawit oversaw the activities of 70 or so global humanitarian agencies operating in the country at the time.) MICHAEL IS MEDIA AND HUMAN RIGHTS ADVOCATE AND WELCOMES READERS´ COMMENTS: mikaelabk@gmail.com RightsResearch.com

Somalia, l'Eritrea non sta aiutando i ribelli islamici

Mohamed Qalib accusa gli Usa di aver messo pressioni sul gruppo di monitoraggio dell'Onu E' attraverso l'emittente radiofonica Shabelle che Jama'a Mohamed Qalib, uno dei leader dell'Alleanza di Ri-liberazione della Somalia (Ars), organizzazione dell'opposizione somala con sede ad Asmara, ha annunciato che l'Eritrea, al contrario di quanto afferma il rapporto del gruppo di monitoraggio Onu, non sta inviando armi in Somalia. Qalib ha poi continuato sul monitoraggio dell'Onu, dicendo che le accuse del rapporto, sul supporto sia dell'Etiopia sia dell'Eritrea ai combattenti islamici contro le forze del governo transitorio somalo, sarebbero sostanzialmente propaganda. Secondo l'uomo dell'Ars, gli Usa avrebbero messo pressione sul gruppo di monitoraggio dell'Onu per far emergere un forte dissenso tra Washington ed Asmara.

The ultimate crop rotation

Lured by a new business model, wealthy nations flock to farmland in Ethiopia, locking in food supplies grown half a world away. Stephanie McCrummen (Washington Post Foreign Service) Fonte: Washington Post Online Edition BAKO, ETHIOPIA -- In recent months, the Ethiopian government began marketing abroad one of the hottest commodities in an increasingly crowded and hungry world: farmland. Altipiani Etiopi con il monte Ras Dascian sullo sfondo. "Why Attractive?" reads one glossy poster with photos of green fields and a map outlining swaths of the country available at bargain-basement prices. "Vast, fertile, irrigable land at low rent. Abundant water resources. Cheap labor. Warmest hospitality." This impoverished and chronically food-insecure Horn of Africa nation is rapidly becoming one of the world's leading destinations for the booming business of land leasing, by which relatively rich countries and investment firms are securing 40-to-99-year contracts to farm vast tracts of land. Governments across Southeast Asia, Latin America and especially Africa are seizing the chance to attract this new breed of investors, wining and dining executives and creating land-leasing agencies and land catalogues to showcase their offerings of earth. In Africa alone, experts estimate that about 50 million acres -- roughly the size of Nebraska -- have been leased in the past two years. The trend is driven in part by last year's global food crisis. Relatively wealthy countries are shoring up their food supplies by growing staple crops abroad. The desert kingdom of Saudi Arabia, for instance, is shifting wheat production to Africa. The government of India, where land is crowded and overfarmed, is offering incentives to companies to carve out mega farms across the continent. Increasingly, though, purely profit-seeking companies are snatching up land, making a simple, if somewhat grim, calculation. As one Saudi-backed businessman here put it, "The population of the world is increasing dramatically, so land and food supplies will be short, demand will be higher and prices will rise." The scale and pace of the land scramble have alarmed policymakers and others concerned about the implications for food security in countries such as Ethiopia, where officials recently appealed for food aid for about 6 million people as drought devastates parts of East Africa. The U.N. Food and Agriculture Organization (FAO) is in the midst of a food security summit in Rome, where some of the 62 heads of state attending are to discuss a code of conduct to govern land deals, which are being struck with little public input. "These contracts are pretty thin; no safeguards are being introduced," said David Hallam, a deputy director at the FAO. "You see statements from ministers where they're basically promising everything with no controls, no conditions." The harshest critics of the practice conjure images of poor Africans starving as food is hauled off to rich countries. Some express concern that decades of industrial farming will leave good land spoiled even as local populations surge. And skeptics also say the political contexts cannot be ignored. "We don't trust this government," said Merera Gudina, a leading opposition figure here who accuses Ethiopian Prime Minister Meles Zenawi of using the land policy to hold on to power. "We are afraid this government is buying diplomatic support by giving away land." But many experts are cautiously hopeful, saying that big agribusiness could feed millions by industrializing agriculture in countries such as Ethiopia, where about 80 percent of its 75 million people are farmers who plow their fields with oxen. "If these deals are negotiated well, I tell you, it will change the dynamics of the food economy in this country," said Mafa Chipeta, the FAO's representative in Ethiopia, dismissing the worst-case scenarios. "I can't believe Ethiopia or any other government would allow their country to be used like an empty womb. The human spirit would not allow it." Few countries have embraced the trend as zealously as Ethiopia, where hard-baked eastern deserts fade into spectacularly lush and green western valleys fed by the Blue Nile. Only a quarter of the country's estimated 175 million fertile acres is being farmed. Desperate for foreign currency, the government of former Marxist rebels who once proclaimed "land to the tiller!" has set aside more than 6 million acres for agribusiness. Lured with 40-year leases and tax holidays, investors are going on farm shopping sprees, crisscrossing the country on chartered flights to pick out their swaths of Ethiopian soil. "There's no crop that doesn't grow in Ethiopia," said Esayas Kebede, who works for a new government agency that promotes agribusiness, adding that too many requirements on investors might scare them off. "Everybody is coming." Especially Indian companies, which have committed $4.2 billion so far. Anand Seth, director general of the Federation of Indian Export Organizations, described Africa as "the next big thing" in investment opportunities and markets. As he stood on a little hill overlooking 30,000 acres of rich, black soil, Hanumantha Rao, chief general manager of the Indian company Karuturi Agro Products, agreed. So far, he said, the Ethiopian government has imposed few requirements on his company. "From here," Rao said, "you can see the past and the future of Ethiopian agriculture." From there -- a farm just west of Addis Ababa -- it was possible to see a river designated for irrigating cornfields and rice paddies; it is no longer open for locals to water their cows. Several shiny green tractors bounced across the six-mile-long field where teff, the local grain, once grew. Hundreds of Ethiopian workers, overseen by Indian supervisors, were bent over rows of corn stalks, cutting weeds tangled around them with small blades. Farming for others Many of the workers were children. The day rate: 8 birr -- about 70 cents. "The people are very happy," said Rao, who will soon supervise a second farm spanning about 60 square miles. "We have no problems with them." As a worker spoke to one of his supervisors, he whispered that the company had refused to sign a wage contract and had failed to deliver promised water and power to nearby villages. Supervisors treat them cruelly, he said, and most workers were just biding time until they could go work for a Chinese construction company rumored to pay $2 to $4 a day. "We are not happy," said the man, a farmer-turned-tractor driver who did not give his name because he feared being fired. "I'm a machine operator and I make 800 birr [about $65] a month. This is the most terrible pay." Rao said he had trained about 60 Ethiopians to drive tractors; others would learn to run shellers, and how to fertilize and irrigate land. If things work as they should, he said, Ethiopians will adopt the modern techniques in their own farms. Along a muddy road leading to Karuturi farm, people said they were hopeful that might happen. But they were not sure how. Most said they were struggling just to buy government-subsidized fertilizer, much less tractors. In any case, Ethiopians cannot own land, instead holding "use certificates" for their tiny plots, making it difficult to get loans, or to sell or increase holdings. "We think they might be beneficial to us in the future," said Yadeta Fininsa, referring to the new companies coming to town. "But so far we have not benefited anything." Correspondent Emily Wax in New Delhi contributed to this report.

Bikila, la memoria offesa del campione a piedi nudi

A Roma vinse la maratona olimpica del 1960 e in Italia è ancora un mito Nella sua Etiopia non c'è una strada col suo nome e la tomba è distrutta. Nel cimitero di San Giuseppe sparite la statua e la lapide, sono rimasti solo i cinque cerchi di MICHELA SUGLIA ADDIS ABEBA - Smilzo, la faccia quasi spaventata, i piedi sanguinanti: un simbolo. Cinquant'anni fa, Abebe Bikila. Un perfetto sconosciuto, partito dall'Etiopia per andare a vincere la maratona olimpica a casa degli ex padroni, correndo senza scarpe 42 km in due ore e quindici minuti, segnando il nuovo record mondiale sui sampietrini di Roma. Quando il 10 settembre 1960 tagliò il traguardo, di notte, sotto l'Arco di Costantino, le fotoelettriche illuminarono per sempre un'icona dello sport mondiale, entrato anche nella fantasia e nella memoria degli italiani. Proprio a Bikila è dedicata la 16a maratona di Roma, che domenica correranno in 15mila, presto la capitale gli intitolerà una strada, il comune di Ladispoli un ponte pedonale, il comitato "Bikila 2010" curerà mostre ed iniziative assortite. Ma cosa resta di Abebe Bikila nella sua Etiopia? Poco o niente, rispetto al culto degli italiani. Ad Addis Abeba nessuna via ricorda il primo africano a vincere la medaglia d'oro alle Olimpiadi, come conferma il segretario della Federazione etiope di atletica Adam Tadesse. Invece esiste Haile Gebrselassie road dal nome dell'erede di Bikila, nato sei mesi prima della sua morte, dal 2008 primatista mondiale (due ore e tre minuti). Sull'assenza di strade non sa rispondere nemmeno il terzo figlio del campione Abebe Bikila Yetnayet, che si limita a dire: "Meglio chiederlo al governo etiope". Quando si va sulla tomba di Bikila, nel cimitero di San Giuseppe ad Addis, colpisce l'incuria. Il sepolcro e la statua che si trovava sopra non ci sono più. Intorno erbacce e sassi. Sparita anche la lapide che lo ricordava in tre lingue: italiano, giapponese, amarico. Unico segno evidente che lì riposa un campione sono i cerchietti olimpici lungo il recinto. "Tre anni fa ignoti hanno distrutto la tomba" spiega il figlio di Bikila, "ora il governo ci ha dato il permesso di ricostruirla e la statua tornerà presto a posto". L'idea di una maratona ad Addis Abeba per ricordare i 50 anni dell'impresa romana è stata della onlus "Stella della solidarietà" fondata da Carmelo Giordano, un italo-etiope che vive in Italia. Ne ha parlato con la Federazione atletica di laggiù che ha subito aderito: si correrà il 13 giugno. "Stiamo formando un comitato per decidere cosa fare. Pensavamo a documentari, una festa con cantanti...", abbozza Tadesse. Lo conferma anche la famiglia Bikila annunciando una maratona, una mostra, un festival a settembre da organizzare insieme alla federazione. Si spera. "Bikila è stato un grande uomo e molto popolare, anche se sognava un mondo diverso", assicura il suo amico Luciano Vassallo, storico allenatore della nazionale di calcio africana. "Purtroppo in Etiopia lo sport è vissuto in maniera diversa, la maratona è solo una corsa, stessa cosa per il calcio. Ma credo che prima o poi si renderanno conto che una partita è molto più importante della guerra". (19 marzo 2010)

Rifugiati afgani: Commissione diritti umani, a Roma responsabilità istituzioni

Il presidente della commissione, Pietro Marcenaro, annuncia un’interpellanza parlamentare. L’amministrazione: “problema alimentato da associazioni di volontariato” di Antonio Fico “Come è possibile, che dopo 5 o 6 anni, questa situazione non venga risolta? Qui ci sono delle responsabilità serie delle istituzioni”. Il presidente della commissione parlamentare per la promozione e la tutela dei diritti umani, Pietro Marcenaro, in visita oggi alla baraccopoli afgana nei pressi della stazione Ostiense, si esprime con parole ponderate ma dure. Dopo aver parlato con i rappresentanti dei medici per i diritti umani e dei medici contro la tortura e con alcuni degli afgani presenti, il senatore ha annunciato un’interpellanza parlamentare per chiedere al governo di intervenire nella vicenda. Sono più di 100 gli afgani, tutti richiedenti asilo politico, che vivono accampati in condizioni sanitarie drammatiche, stretti tra la ferrovia e il cantiere di diversi palazzi in costruzione, su via Capitan Bavastro. Molti sono giunti nelle ultime settimane, tra di loro anche ragazzi di 13 o 14 anni. “Abbiamo precisi doveri di accoglienza nei confronti di queste persone - osserva Marcenaro - che provengono da una paese in cui siamo impegnati militarmente. Mi chiedo con quale coerenza parliamo di impegno e di legalità, quando costringiamo a vivere in queste condizioni delle persone che hanno asilo politico nel nostro Paese o sono in attesa di riceverlo”. Il parlamentare si è detto disponibile ad accompagnare negli uffici competenti alcuni degli immigrati che avanzeranno nelle prossime settimane richiesta di asilo e ha criticato l’amministrazione Alemanno: “Ha un approccio securitario che appare tra l’altro inefficace, si vive nell’illusione che usando esclusivamente la forza pubblica, si riesca a fermare il fenomeno migratorio”. Proprio l’amministrazione comunale aveva spedito nei giorni scorsi al presidente della municipalità una lettera con cui nella sostanza si metteva sotto accusa il lavoro delle associazioni che da tempo sono impegnate ad alleviare le condizioni degli immigrati. “Si ritiene - si legge nella missiva - che il fenomeno permarrà finanche si continuerà l’attività di distribuzione dei pasti in loco operato da diverse associazioni di volontariato...”. Intanto l’associazione dei medici per i diritti umani torna a chiedere l’intervento delle istituzioni, e a rilanciare la proposta di un centro di orientamento e prima accoglienza nei pressi della stazione. Rimane invece aperta la possibilità per circa 150 afgani ospitati presso il centro di accoglienza del S. Camillo Forlanini, di rimanere anche oltre il 31 marzo.

Rifugiati senza diritti

Foto Emergency[a cura di EMERGENCY]. PALERMO. G. è una donna africana arrivata a Palermo quattro anni fa con il marito e la figlia di due anni. La sua seconda figlia è nata in Italia. Al Poliambulatorio abbiamo aiutato lei e il marito a ottenere il permesso di soggiorno per tutela dei minori. Ciononostante, nessuno dei due è mai riuscito a ottenere un contratto di lavoro regolare e si arrangiano facendo tutti i lavori che riescono a trovare. Qualche mese fa G. è partita per la Puglia: 600 euro per 6 settimane a raccogliere olive, spese di viaggio e di mantenimento incluse. Una decina di giorni dopo, suo marito F. è venuto in ambulatorio per far visitare una delle due bambine. Tutti insieme abbiamo telefonato a G. per rassicurarla sulla salute della piccola. G. ci ha raccontato che dormiva insieme ad altre compagne di lavoro in un silo, non si lavava da quando era partita, dolore e stanchezza quasi non li sentiva più… Mentre l’ascoltavamo, davanti a noi le sue bambine litigavano per un giocattolo. In italiano, con cadenza siciliana. Ora, per saperne di più sul Poliambulatorio di Emergency a Palermo, visita il nostro sito. E se vuoi adottare il Poliambulatorio di Palermo, scopri come fare su www.adottaunospedale.it

SACE, salgono a 181 i paesi assicurabili (2)

(Teleborsa) - Roma, 18 mar - A beneficiare delle variazioni introdotte saranno anche ben 29 paesi dell'Africa sub-sahariana, nei quali in precedenza non era possibile assicurare alcuna operazione: si è passati ad un atteggiamento di apertura condizionata in 20 paesi sub-sahariani (Benin, Burkina Faso, Camerun, Repubblica del Congo, Eritrea, Gibuti, Guinea Equatoriale, Kenia, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mali, Mozambico, Nigeria, Senegal, Tanzania, Uganda, Zambia) e di assicurabilità delle singole operazioni con un approccio "caso per caso" in altri 9 paesi (Burundi, Repubblica Centrafricana, Comore, Gambia, Liberia, Niger, Ruanda, Sao Tomé e Principe, Sierra Leone). La decisione rafforza il Programma Africa, avviato da SACE per facilitare la penetrazione delle imprese italiane nei mercati sub-sahariani. Per effetto del peggioramento del rischio paese, sono state introdotte Per effetto del peggioramento del rischio paese, sono state introdotte misure restrittive per lo Yemen (chiusura). Le variazioni decise dal FMI hanno invece implicato per SACE l'introduzione di limiti all'indebitamento sovrano in Romania, Bosnia Erzegovina e Serbia. Non sono state invece modificate le condizioni assicurative, nonostante l'aggravamento del rischio paese, per importanti partner commerciali delle imprese italiane quali Russia, Kazakhstan, Bielorussia, Lettonia, Pakistan, Venezuela e Ucraina. L'evoluzione della crisi finanziaria e del contesto politico di tali paesi sarà tuttavia oggetto di uno stretto monitoraggio da parte di SACE.

Piazza dei 500 - Boika Esteban

Cari/e amici/che, vi scrivo per segnalarvi la pubblicazione del videoclip "Piazza dei 500" di Boika Esteban. E' un video scritto, diretto, girato e montato con il cuore, autoprodotto ed autodistribuito come l'EP "Aspetto il Momento" da cui è tratto. Ciò è stato fatto per una causa nobile: quella che vuole che la Piazza antistante la Stazione Termini di Roma cambi di nome. Da Piazza che commemora i 500 morti (in realtà furono un pò meno) dell'esercito coloniale italiano a Dogali, Abissinia, nel 1887, in "Piazza Andrea Costa ed Ulisse Barbieri", vale a dire coloro che notavano come fosse ormai marcito, con l'avvio della missione coloniale italiana in Africa Orientale, il principio di autodeterminazione dei popoli per il quale i "patrioti" risorgimentali combatterono e su cui l'Italia come Stato-Nazione si era fondata appena un quarto di secolo prima. Non voglio farla lunga qui, solo farvi notare che in occasione del 150enario dell'unificazione d'Italia che si celebrerà il prossimo anno, sarebbe auspicabile una profonda messa in discussione dei valori del Risorgimento e post-Risorgimento italiano. Non come mero esercizio intellettuale; al contrario come modo per de-colonizzare l'immaginario nazionale così da ricostruirlo nuovamente ed assieme. C'è da cambiare molto nel modo quotidiano di pensare la Nazione Italia per non scambiare il ragazzo nero che incroci per strada come un immigrato, nel migliore dei casi, o come uno spacciatore o criminale, nel peggiore. Per non parlare poi delle ragazze... http://www.youtube.com/watch?v=OYK5v5JLx0E Qui poi è possibile scaricare l'EP "Aspetto il Momento", composto da cinque canzoni e due poesie recitate. Nella cartella c'è anche il testo "Sentirsi Diversamente Italiani" che in forma un pò più prosaica spiega il pezzo di "Piazza dei 500". http://www.4shared.com/file/241955208/d40ff0e/ASPETTO_IL_MOMENTO_EP.html%5DASPETTO%20IL%20MOMENTO%20EP.zip Qui infine il myspace di Boika Esteban: http://www.myspace.com/boikaesteban Qualora qualcosa di tutto ciò abbia attirato la vostra attenzione, la preghiera che umilmente vi rivolgiamo è di fare passaparola. Saluti. Emile Fanon

Orizzonti: Centro Astalli: tirocini in azienda per rifugiati

I risultati del progetto "Punti di forza", finanziato dalla provincia di Roma e rivolto a quasi 150 giovani provenienti da 24 Paesi diversi da Redattore Sociale Prima l’orientamento, poi un corso di italiano, poi una formazione specialistica e infine, anche un tirocinio in azienda. Arrivano da 24 Paesi diversi, dall’Afghanistan all’Eritrea, dal Sudan alla Nigeria, i quasi 150 giovani stranieri protagonisti del progetto “Punti di forza. Percorsi di integrazione sostenibile”, ideato e gestito dal Centro Astalli e finanziato dalla Provincia di Roma. Un percorso rivolto a immigrati, per lo più rifugiati o richiedenti asilo, per affiancarli nel difficile cammino che porta ad un lavoro. E non, per quanto importante, ad un lavoro qualunque, ma a quello per cui questi ragazzi e queste ragazze si sentono portati, quello per il quale – nella stragrande maggioranza dei casi – avevano studiato nel loro Paese d’origine, prima di abbandonarlo per cause di forza maggiore. Giovanissimi i protagonisti: 142 stranieri (96 uomini e 46 donne), quattro su cinque – 82% – sotto i 35 anni, uno su tre anche sotto i 25. Nonostante la giovane età, rilevante il numero di quanti vantavano già una esperienza lavorativa, formale o più frequentemente informale: una platea più in generale particolarmente vulnerabile, con 47 richiedenti asilo, 30 rifugiati, 27 destinatari di protezione sussidiaria e 22 di protezione umanitaria. Fra di loro, un gran numero di afgani (51), seguiti da eritrei (17) e sudanesi (13), con Nigeria (8), Costa d’Avorio e Guinea (7 ciascuno) a seguire. Dopo la fase di orientamento individuale, svolta ad aprile-maggio 2009 su 142 persone, in 81 sono stati coinvolti nel corso di italiano: il miglioramento delle competenze linguistiche è infatti un prerequisito per l’ingresso nel mondo del lavoro. A quaranta di loro è stata poi proposta una formazione specialistica (avviata a ottobre 2009) con approfondimento sul funzionamento degli enti locali italiani, sulle caratteristiche del mercato del lavoro, sui principali tipi di contratto, sulle offerte formative e sui tirocini. Grazie alla collaborazione di Fpm&Partners, per venti stranieri è iniziato davvero uno stage in azienda: magazziniere, segretaria, muratore, giardiniere, meccanico, gastronomo, capocameriere, parrucchiere, cuoco, operaio e installatore di impianti elettrici le qualifiche offerte. Se per questi stranieri il progetto del Centro Astalli ha significato l’occasione per iniziare ad orientarsi in un paese così diverso dal loro, il quadro complessivo emerso dal progetto racconta di criticità evidenti. «I migranti più vulnerabili – spiegano i responsabili – si trovano davanti difficoltà enormi e per le donne in particolare ai traumi pregressi si aggiunge il fatto di trovarsi sole». Per il Centro Astalli «la precarietà economica e alloggiativa porta spesso a privilegiare un impiego di basso livello che può tradursi in una fonte immediata di sostentamento»: ecco allora che «giovani che potrebbero con poco sforzo accedere a lavori più gratificanti e adulti che potrebbero spendere in Italia le competenze pregresse vengono livellati in una zona grigia di impieghi poco qualificati che impediscono la valorizzazione dei talenti individuali e condannano la persona a vivere sulla soglia della povertà, con il rischio di ricadere all’infinito nel circuito dell’assistenza». Ecco dunque la necessità di rafforzare il sostegno ai percorsi di formazione per i migranti vulnerabili attraverso formule di indennità oraria, contributi alloggio e tirocini retribuiti. «Non è realistico – è la posizione del Centro Astalli – immaginare un semplice avvio al libero mercato», e occorre dunque «sollecitare la responsabilità sociale delle aziende e individuare a monte percorsi di formazione e inserimento ad hoc che valorizzino le competenze pregresse e le potenzialità di ciascuno». 19 marzo 2010

Da Parma all'Africa: il mito di un esploratore

Ilaria Moretti Per abituarsi a resistere alla sete stava a lungo senza bere, legato a una sedia. E aveva imparato perfino a mangiare le lucertole. Già da bambino Vittorio Bottego faceva «palestra» per prepararsi ad affrontare la sua Africa: dall’Eritrea alla Somalia, dall’Etiopia al Kenia. «Si sentiva predestinato a qualcosa di grande» - spiega il suo biografo, Manlio Bonati, durante l’incontro per i 150 anni dalla nascita dell’esploratore parmigiano, che si è tenuto ieri nelle aule universitarie di via D’Azeglio. Nacque il 29 luglio del 1860, Bottego. Un altro mondo, un’altra Italia, un’altra Parma. Venne alla luce in quella centralissima strada San Michele che oggi si chiama via Repubblica, poi a 17 anni si trasferì a San Lazzaro Parmense (un centro a sé stante, non ancora un quartiere di città). Gli spazi aperti lì amò da sempre: i campi, la caccia, le vie sterrate che portano verso l’Appennino gli erano più congeniali di un appartamento «in cui - dice il biografo - sentiva la libertà sfuggire». Militare, esploratore, c'è chi lo accusò di essere un violento. Ma nonostante l’ombra del colonialismo, resta il mito di un uomo che visse mille avventure, un uomo del suo tempo. «In Africa - racconta ancora Bonati - stupiva i suoi colleghi: mangiava tutte le carni, anche quelle considerate di animali ributtanti». Il legame con il mondo scientifico fu a doppio filo: «Il suo museo eziologico eritreo - ricorda ancora il biografo - ce lo invidiano da altre città». Alto, energico, coraggioso, Bottego era uno che piaceva alle donne. E in questo ritratto a tutto tondo emergono anche tre lettere «particolari» inviate ai famigliari: quelle con cui chiedeva di spedirgli qualche pacco di parmigiano reggiano da regalare alle autorità (lettere che inviò non solo durante i viaggi ma anche da Firenze). Probabilmente era scritto che dovesse morire in Africa: ucciso dai proiettili sparati dalla popolazione locale dei Galla il 17 marzo del 1897 (ieri, quindi, l’anniversario era doppio). Il corpo non venne mai trovato, probabilmente divorato dalle iene e dai rapaci. Ma la città non lo dimentica. «Nell’attuale ponte delle Nazioni - conclude Bonati, oltre che studioso, membro della commissione urbanistica - verrà posta una targa per ricordare il nome precedente (Bottego, ndr)». Ma l’esplorazione del mondo non fu solo al maschile. Sulla figura di alcune donne «in viaggio» si sofferma la professoressa di geografia della facoltà di Lettere, Luisa Rossi: il loro essere discriminate e quindi colonialiste e colonizzate a un tempo, le portò spesso ad avere uno sguardo più comprensivo sulle usanze delle popolazioni che incontravano. L’incontro è stato introdotto da Corrado Camizzi, presidente del Comitato Parmense dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano.

giovedì 18 marzo 2010

Malaparte in guerra, scatti inediti. di Laura Leonelli

Curzio Malaparte in Etiopia, tra gli Ascari dell'esercito italiano. Curzio Malaparte, giornalista, che nel fulcro della battaglia, attesa "golosamente", si ritrova con le dita impigliate nella macchina fotografica e non riesce a infilare il rullo. La scena, bellissima, una carica di buoi che spunta improvvisa da un bosco e al galoppo, "nel furor cieco del panico", si mischia ai soldati, ai caduti, agli spari, è già passata, e lui, maledizione, ha perso la foto. Curzio Malaparte anche fotografo, come racconta la mostra «Malaparte arcitaliano nel mondo», aperta da martedì prossimo fino al 26 settembre nella Biblioteca di Via del Senato, a Milano. Materia prima, l'archivio dello scrittore, recentemente acquistato dall'istituzione milanese. Esposti al pubblico per la prima volta manoscritti di opere edite e inedite e accanto, sorprendente, illuminante, più eversiva delle parole, una selezione di quarantotto foto, parte della raccolta di Michele Bonuomo, giornalista e collezionista d'arte e di fotografia. È stato lui trent'anni fa a salvare questo prezioso tesoro di cui oggi pubblichiamo in esclusiva alcuni importanti inediti. Lui, il primo, a scavare tra le pagine di Kaputt e riportare alla luce una semplice frase: «Questa mattina sono uscito con la mia Leica». Il che vuol dire che Kurt Erich Suckert, classe 1898, in arte Curzio Malaparte, fotografava. Nessuno si ricorda più di questa stravaganza. Non gli amici, non la sorella Maria ed è nella sua casa di Firenze, dove alla morte dello scrittore viene trasferita ogni sua carta, che Bonuomo recupera fortunosamente dal fondo di un armadio, a poche ore dallo sgombero, una scatola di cartone. Dentro, come una gorgone di serpi attorcigliate, ci sono i negativi. Quasi duemila scatti, pagine di uno strepitoso diario visivo, che raccontano l'orrore della guerra, le sue vittime, i suoi paesaggi lacerati e ovunque la morte. In tre occasioni della sua carriera di giornalista, Malaparte si ritrova con la macchina al collo: nel 1939 in Etiopia, negli anni della Seconda Guerra Mondiale in Francia, nei Balcani, in Finlandia, in Russia, e infine nel 1956 in Cina e sarà l'ultimo viaggio. «Malaparte conosceva bene la fotografia – spiega Bonuomo – l'aveva scoperta a Parigi e da direttore della Stampa, nei primi anni Trenta, l'aveva portata addirittura in terza pagina, quattro, sei immagini con una grande didascalia, al posto dei soliti articoli. Ma nella sua vita di irregolare, di "uomo tutto", scrittore, polemista, giornalista, cineasta, Malaparte non si è mai presentato come fotografo. La fotografia gli serviva come appunto, il mezzo veloce per riassumere una situazione che poi avrebbe tradotto nella sua magnifica prosa. E questa libertà, questa lontananza dai doveri della bella foto e dai cliché del folclore, nei quali cade invece Orio Vergani, gli ha permesso di raggiungere risultati altissimi. Fin dall'esordio in Africa». Il fotografo Curzio MalaparteSu incarico di Aldo Borelli, direttore del Corriere della Sera, Malaparte raggiunge il fronte della guerra in Etiopia. Nella tabella di marcia, tredici articoli dedicati alle vittorie dell'Impero e alcuni saranno illustrati con le immagini dell'inviato. A fine gennaio Curzio approda a Massaua e da lì ad Asmara. In tre mesi percorre, insieme al 9° e 5° Battaglione Eritreo, quasi seimila chilometri, attraversando il territorio di Amara, dal Tacazzè ad Addis Abeba. Quello che vede è quello che non riportano i cinegiornali dell'Istituto Luce (da consultare lo straordinario archivio on line, www.luce.it). In un'estenuante carrellata cinematografica, sotto un sole «che ha una sua fissità, una sua severa, impassibile ostinazione» – scrive nel pezzo Nelle gole del Beresà – Curzio fotografa la vastità "surreale" del paese, il vuoto polveroso e disperato della conquista e dei suoi protagonisti. Sullo sfondo di una terra arida, gli uomini sono piccoli, lontani, gli ufficiali impettiti quasi si perdono tra le scaglie del deserto, e gli Ascari chiamati all'appello indossano con pena i resti di un guardaroba italiano: un impermeabile, una giacca, un gilè, una sciarpa. Gli eroi veri sono gli animali, i cani, amatissimi, i muli – e Malaparte riprende le manovre dell'esercito dall'alto di questa piccola altura – e poi i cavalli, scheletrici, con le criniere bianche, immobili nell'assenza totale di vento. Unico riparo alla calura, nella loro quiete silenziosa, sono le capanne delle sciarmutte e forse ad attrarre l'obiettivo, più dei corpi, sono le pagine della Domenica del Corriere, memoria di lettori clienti, incollate alle pareti. Due anni dopo, Malaparte assiste ai bombardamenti di Belgrado. Cambio di temperatura e di luce. Non c'è sole ma nubi nere. Le macerie sono ovunque, la realtà, di nuovo, è aliena a ogni logica e Curzio fotografa una scrivania e la sua sedia, abbandonate al centro di un viale, quasi a registrare con puntualità d'ufficio il passaggio del nulla. Non ci sono vittime per le strade, ma lungo i fossi, appena fuori dalla città, lungo quegli argini su cui improvvisamente sale un drappello di soldati, appaiono le carcasse di quattro cavalli. In una battuta di Cristo proibito, il film che Malaparte gira nel 1950, Raf Vallone dice: «La guerra odia i poveri, si diverte a umiliarli, a farne degli assassini». A riprova di questa vocazione a esplorare e denunciare ogni abisso, l'inviato del Corriere, «furioso individualista al servizio di se stesso», nelle parole di Alberto Moravia, non smetterà mai di ritrarsi: con una sahariana nella Piana dei Serpenti, in divisa da alpino in Francia, in giacca di tweed in Jugoslavia, nudo tra le nevi della Finlandia. L'io dello scrittore, il suo corpo, è misura di ogni cosa. La pietra di paragone che lo spinge a coniare una serie di titoli geniali, Donna come me, Cane come me, Casa come me. Tutto, intorno, si adegua alla forza dirompente della sua personalità. Fino a quando, nel 1956, il viaggio in Cina non impone un cambio di prospettiva. Malaparte, l'uomo d'azione, «un intellettuale d'intervento» come egli stesso si presenta, si trova di fronte a un paesaggio immobile, indifferente. Il suo procedere fotografando, come aveva sempre fatto con impeto e ambizione, diventa qui, nella Città Proibita e nella remota valle di Dunhuang, tra le immense statue di Buddha, una semplice camminata. Solitaria. Curzio non domina, è malato. Ma anche questa volta avrebbe potuto dire: «Fotografia come me». «Malaparte Arcitaliano nel mondo», Milano, Biblioteca di Via Senato, dal 2 marzo al 26 settembre. Da ottobre a gennaio 2011, la mostra passerà al Museo del Tessuto di Prato

Il 18 marzo apre il Marathon Village

Sabato 20 sfilano i top runner insieme a Alex Zanardi e al figlio di Abebe Bikila La Maratona di Roma di domenica prossima, 21 marzo, inizierà a far pulsare il cuore sportivo della capitale da giovedì 18 con l’apertura del Marathon Village, l’expo dell’evento. Al Palazzo dei Congressi dell’Eur (Piazza John F. Kennedy, 1), da giovedì a sabato, dalle 10 alle 20 (ingresso gratuito), 15.000 mq (7.000 coperti e 8.000 scoperti) ospiteranno 107 stand e diversi eventi. Convegni, spettacoli, il percorso salute, musica, animazione per bambini, giochi, merchandising ufficiale saranno il centro attrattivo dei giorni di vigilia della maratona. Il Marathon Village, inoltre, è sede d’iscrizione alla RomaFun-La Stracittadina (costo: 7 Euro, con pettorale e T-shirt ufficiale Asics) di 4 chilometri. Sabato 20 il clou con la presentazione al pubblico dei protagonisti della gara di domenica, i top runner. Con loro ci sarà il campione di automobilismo Alex Zanardi, che domenica correrà sulla sua handbyke, e Yetnayet Abebe Bikila, uno dei quattro figli del campione olimpico di Roma 1960 alla cui figura è dedicata questa edizione. Sabato 20 sfilano i top runner insieme a Alex Zanardi e al figlio di Abebe Bikila La Maratona di Roma di domenica prossima, 21 marzo, inizierà a far pulsare il cuore sportivo della capitale da giovedì 18 con l’apertura del Marathon Village, l’expo dell’evento. Al Palazzo dei Congressi dell’Eur (Piazza John F. Kennedy, 1), da giovedì a sabato, dalle 10 alle 20 (ingresso gratuito), 15.000 mq (7.000 coperti e 8.000 scoperti) ospiteranno 107 stand e diversi eventi. Convegni, spettacoli, il percorso salute, musica, animazione per bambini, giochi, merchandising ufficiale saranno il centro attrattivo dei giorni di vigilia della maratona. Il Marathon Village, inoltre, è sede d’iscrizione alla RomaFun-La Stracittadina (costo: 7 Euro, con pettorale e T-shirt ufficiale Asics) di 4 chilometri. Sabato 20 il clou con la presentazione al pubblico dei protagonisti della gara di domenica, i top runner. Con loro ci sarà il campione di automobilismo Alex Zanardi, che domenica correrà sulla sua handbyke, e Yetnayet Abebe Bikila, uno dei quattro figli del campione olimpico di Roma 1960 alla cui figura è dedicata questa edizione. PRINCIPALI APPUNTAMENTI DEL MARATHON VILLAGE IMMAGINA IL PERCORSO Venerdì alle 17, nella piazza centrale, visualizzazione del percorso di gara. Una voce guiderà i maratoneti per le vie del tracciato, spiegando i punti più insidiosi e gli angoli più belli, per consentire di focalizzare l'attenzione sull'obiettivo, pratica fondamentale per chiudere bene una maratona. Si replica il sabato alle 15. ETHIOPIA DAY 2010 Il 21 marzo si festeggia l’Etiopia day, festa annuale che la nazione africana dedica ogni anno ad un personaggio simbolo del popolo etiope. Quest’anno il Governo etiope ha scelto Abebe Bikila, in ricordo dei 50 anni dal suo trionfo olimpico di Roma. L’Ambasciata etiope in Italia ha scelto la maratona di Roma quale evento a cui legarsi per i festeggiamenti. Da giovedì a sabato al Marathon Village si svolgeranno diversi eventi culturali promossi dall’Ambasciata. LA SALUTE PRIMA DI TUTTO Tutta la mattinata di sabato è dedicata al “Percorso Salute”. In sala convegni, discussioni, presentazioni e tavole rotonde su uno dei temi più cari ai maratoneti, la salute. MESSA PER I MARATONETI Una messa per i maratoneti sarà celebrata sabato alle 14 in una sala al primo piano del Palazzo dei Congressi. PRESENTAZIONE TOP RUNNER Sabato alle 17, in piazza centrale, l'elite field della Maratona di Roma verrà presentato al grande pubblico. I 30 top runner incontreranno il popolo dei maratoneti. Insieme con loro anche Alex Zanardi e Yetnayet Abebe Bikila.

La nuova campagna d'Africa passa dalle dighe in Etiopia

di Luigi Nervo Un altro paradiso naturale potrebbe venire calpestato da ditte occidentali senza scrupoli. Questa volta si tratta della Valle dell'Omo in Etiopia, la culla degli esseri umani: una terra antica dove sono stati ritrovati scheletri degli antenati dell'uomo vecchi 2,4 milioni di anni e che nel 1980 è stata riconosciuta dall'Unesco patrimonio dell'umanità. E questa volta c'è di mezzo l'Italia con una ditta, la romana Salini Costruttori, come principale appaltatrice e la Farnesina, tra i finanziatori. Inizialmente il progetto prevedeva la costruzione di tre dighe, Gibe I, II e III, poi ne è stata aggiunta un'altra. Lo scopo è quello di incrementare la produzione di energia elettrica in un paese che ne è privo. Le prime tre dighe sono costate rispettivamente 200 e 400 milioni di euro e la cifra record per l'Etiopia di 1,4 miliardi. E, ironia della sorte, proprio la terza, la più grande, è crollato meno di due settimane dopo l'inaugurazione in pompa magna alla quale era presente il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini. In origine si diceva che si tratta di una risorsa per la popolazione etiope, ma in realtà solo il 6% degli etiopi possiede un allacciamento alla rete elettrica nazionale, con una richiesta totale di 600 MW ben sostenuta dalla capacità di erogare 767 MW; tutto lascia pensare che invece sarà il contrario: già nel 2006 era stata concessa la distribuzione di 500 MW di elettricità provenienti da Gibe III al Kenya e altri paesi limitrofi hanno iniziato ad affacciarsi sulla Valle dell'Omo, primi fra tutti Sudan e Djibouti che dovrebbero importarne ulteriori 400 MW, e a seguire Egitto, Eritrea, Yemen e altri paesi del Sud e Est dell'Africa, i quali verrebbero collegati attraverso una rete. Insomma, l'energia prodotta da queste enormi dighe, verrà quasi tutta esportata all'estero e i villaggi etiopi che avrebbero dovuto ricevere l'elettricità sono ancora al buio. Se le popolazioni non sono state toccate dai benefici di queste enormi costruzioni, ne hanno subito gli effetti negativi. Ad essere colpite sono state soprattutto le tribù che vivono lungo le sponde del fiume Omo, un corso d'acqua che con le sue piene stagionali detta i ritmi della produzione: è sulle sponde del fiume che gli agricoltori piantano le loro colture dopo ogni piena, i pascoli vengono rivitalizzati dalle esondazioni e questi ritmi naturali segnano quelli relativi alla migrazione dei pesci. Secondo un rapporto dell'Autorità etiope per la protezione dell'ambiente, la ESIA, verrebbero colpiti 100 mila agricoltori della bassa Valle dell'Omo, 100 mila allevatori della stessa area, 500 mila abitanti della zona dell'Omo meridionale, in gran parte rurale, e anche 300 mila unità delle tribù del lago Turkana in Kenya. È proprio questa l'altra zona colpita, un bacino che con un afflusso d'acqua minore si è quasi prosciugato e ha raggiunto alti livelli di salinità, con effetti devastanti sull'intero ecosistema che ormai è stato compromesso. Gli amministratori hanno promesso di produrre piene artificiali della durata di 10 giorni, ma la portata di queste esondazioni non potrà mai essere pari a quelle naturali che durano diversi mesi. Questi stravolgimenti rischiano di portare a crisi e carestie che potrebbero scatenare scontri armati tra le tribù. Oltre a subire il danno, queste popolazioni non possono nemmeno levare la loro voce a causa dell'alto livello di analfabetismo e della non conoscenza dell'aramaico. In più, non possono fare affidamento sulle organizzazioni umanitarie perché un provvedimento del governo etiope, il decreto 621/2009, impedisce l'attività a qualsiasi associazione o Ong locale che riceva più del 10% dei suoi finanziamenti da fondi esteri, in pratica la totalità di quelle operanti nel paese. La vicenda assume contorni ancora più torbidi se pensiamo agli attori e alle loro modalità di intervento. Oltre ad autorità e aziende africane, sono coinvolti soggetti italiani e europei. Il made in Italy è evidente leggendo il marchio posto su queste dighe, è quello della ditta Salini Costruttori. La società è nella mani della famiglia Salini che la fondò nel 1940 e il nome del presidente del CdA, l'ingegner Simonpietro Salini, compare nell'elenco dei presunti appartenenti alla Loggia P2 sequestrata nel 1981 a Licio Gelli. Vincitrice anche dell'appalto per la linea C della metropolitana di Roma, l'azienda non è nuova a imprese in Africa: basti ricordare l'avventura in Uganda del 2000 a stretto contatto con un governo dispotico che ha fatto incarcerare i contestatori, o in Sierra Leone dal 1980, con una marea di finanziamenti ingiustificata, o sempre in Etiopia, a Beles, negli stessi anni con il craxiano Fondo Aiuti Italiano poi finito al centro dell'inchiesta su Tangentopoli. Anche il governo italiano ha preso parte all'impresa Gibe: contro i pareri negativi del Nucleo Tecnico di Valutazione della DGCS e del Ministero dell'Economia, è stato elargito un credito d'aiuto di 220 milioni di euro in favore dell'Etiopia per la realizzazione del progetto. Nel 2007 la Procura di Roma ha aperto un'indagine per presunta corruzione nei confronti della DGCS, ma nel luglio del 2007 il ministro Massimo D'Alema ha permesso il finanziamento di 250 milioni di euro per la realizzazione di Gibe III, linea per ora mantenuta anche dal governo che lo ha succeduto. Sul fronte internazionale è invece la posizione della Banca Europea per gli Investimenti, l'analogo della Banca Mondiale nel Vecchio Continente, a destare qualche sospetto: nel 2005 promuove un finanziamento di 50 milioni di euro in seguito ad una trattativa diretta con la Salini in violazione alle norme comunitarie e ripete l'operazione l'anno successivo con il benestare del Parlamento Europeo.

Opere di bene ambientale

Suona un po' come una versione moderna delle opere di filantropia. Chiamiamole «opere di bene a sfondo ambientale», ma con un aspetto decisamente mercato. Stiamo parlando di un grande progetto di rigenerazione di un territorio degradato sull'altopiano dell'Etiopia sud-occidentale, regione dove la causa principale del degrado, ormai dagli anni '70, è un'ondata di siccità dopo l'altra. Per sopravvivere la popolazione ha fatto ricorso al legname - un po' per farne legna da ardere, un po' materiale da costruzione da vendere. La pressione è andata crescendo, i terreni deforestati sono rimasti esposti all'erosione durante la stagione delle piogge. Finché si è fatto avanti il ramo australiano di una grande organizzazione non governativa statunitense, che ha chiesto e ottenuto 2.700 ettari per un progetto di recupero che si discosta un po' dai classici interventi di riforestazione: invece di ripiantare alberelli nuovi, di vivaio, qui si incoraggia la ricrescita di nuovi getti dai tronconi di alberi tagliati, che molto spesso sono ancora vivi - per questo si chiama «rigenerazione naturale assistita». Il 90% del «Humbo assisted natural regeneration project» si basa appunto sulla ricrescita delle piante che c'erano, con il vantaggio che sono le specie indigene, tra cui molte specie forestali locali minacciate. Tutto questo con il coinvolgimento in primo luogo della popolazione locale, che trae diversi benefici immediati dal progetto - quelli che vanno sotto la voce «income generation», un piccolo ma non trascurabile reddito che gli abitanti traggono dalla vendita di foraggio, frutti, o legname raccolto selettivamente dalle foreste che si rigenerano. Questa «opera di bene ambientale», promossa nel 2007 da una ong australiana in uno dei paesi più poveri - e dei territori più degradati - del mondo, ora è diventata anche il primo caso di progetto forestale su larga scala in Africa a entrare nei «meccanismi di sviluppo pulito», Cdm, previsti dal protocollo di Kyoto sul clima. Per riassumere: il protocollo impone ai paesi industrializzati di tagliare le loro emissioni di gas di serra come l'anidride carbonica (quasi nessuno lo ha rispettato, ma questo è un altro discorso). Per rendere la cosa più appetibile, lo stesso trattato attribuisce un valore di mercato alle emissioni (tot dollari per una tonnellata di Co2), e istituisce alcuni «meccanismi di mercato»: come lo scambio di emissioni (tra paesi industrializzati), o i «meccanismi di sviluppo pulito» nei via di sviluppo. Dunque: il segretariato dell'Onu sul clima, che ha uno speciale dipartimento per valutare i Cdm, ha valutato che il progetto Humbo in Etiopia rientra nei criteri dello «sviluppo pulito». Per la precisione, quei 2.700 ettari di vegetazione rigenerata avranno assorbito 338mila tonnellate di carbonio in dieci anni (al 2017), trasformandole in altrettanti «crediti di carbonio». Parte di questi crediti - 165mila tonnellate - saranno acquistati dal BioCarbonFund della Banca Mondiale (un fondo misto, finanziamenti pubblici e privati, con cui la Banca compra crediti di emissioni generati da progetti di riforestazione sotto i Cdm o altri progetti analoghi): questo dovrebbe portare alle comunità etiopiche circa 700mila dollari in dieci anni. Altri soldi dovrebbero entrare dalla vendita dei restanti crediti. A oggi solo 13 progetti forestali sono stati riconosciuti come «meccanismo di sviluppo pulito», e solo 5 sono nel Biocarbon Fund della Banca mondiale. Se questa promozione straordinaria farà una differenza per i contadini e allevatori etiopici, paese dove l'80% della popolazione vive (male) della terra, è presto per dire.

Etiopia 17 marzo 2010: Le donne si ribellano alla tradizione che le fa schiave

In Etiopia esiste una pratica culturale molto diffusa: il matrimonio forzato. Fino al 2003 il 69 per cento dei matrimoni era frutto di un sequestro. L’uomo sceglieva la donna, la rapiva e la violentava. La mattina dopo lei diventava ufficialmente sua moglie. Non poteva né scappare né tornare dalla sua famiglia perché una donna che ha perso la verginità non ha altra scelta se non restare con l’uomo che l’ha stuprata. Questa è per esempio la storia di Nurame, racconta l’Independent, rapita all’età di otto anni e diventata schiava del marito. Ma è anche la storia di tante donne che sono tutt’ora costrette a vivere senza poter scegliere ciò che vogliono e condurre una vita dignitosa. Nel 2005 il matrimonio forzato è stato dichiarato ufficialmente illegale e chi rapisce una donna dovrebbe finire in prigione. La legge tuttavia, spiega l’Independent, non tutela le zone più povere del paese. Lo dimostra il caso di una tredicenne che si è rivolta al tribunale del suo villaggio per sottrarsi al matrimonio illegale. Il giudice ha respinto l’accusa dicendo che l’uomo aveva rapito legalmente la giovane perché l’amava. Ma qualcosa sta cambiando. Ci sono donne che riescono a trovare la forza per ribellarsi, come Boge Gebre. È stata la prima ragazza del suo villaggio ad avere un titolo di studio. Da giovane è riuscita a scappare e ora ha fondato un’associazione a Kembatta, la città in cui vive. Alle assemblee della Kmg (Le donne di Kembatta insieme) partecipano anche gli uomini e le donne possono parlare liberamente di tutto quello che hanno sofferto. Vengono anche trasmessi i terribili filmati di pratiche infibulatorie e alcuni uomini cominciano ad avere qualche ripensamento. Alemu Kinole è uno di questi. Era uno degli uomini più temuti di Kembatta, un rapitore di donne. Eppure oggi quando cammina per strada tutte lo salutano e lo ringraziano: ha salvato molte di loro o della loro famiglia. Da quando partecipa alle assemblee della Kmg si sente diverso. Non accetta i matrimoni forzati e pensa che gli uomini debbano cominciare a cambiare. E forse comincia a essere possibile.

COMMERCIO ARMI: SETTORE NON CONOSCE CRISI, +22% IN ULTIMI 5 ANNI

Le armi non subiscono gli effetti della crisi economica globale. Secondo un rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) - citato in un servizio di Peacereporter - l'industria bellica ha visto aumentare il proprio volume di affari (quello lecito) del 22% negli ultimi cinque anni. Nel periodo 2005-2009, il continente asiatico si e' confermato il maggiore importatore di armi, con una quota del 41%. Cina e India sono i principali acquirenti di armi, munizioni e equipaggiamenti militari, non solo in Asia, ma globalmente. Tuttavia i due paesi hanno ridotto le proprie spese nel settore, rispettivamente del 20 e del 7 per cento. Nell'area del sud-est si registrano invece altissimi aumenti nelle importazioni di armi. L'Indonesia le ha aumentate di oltre l'80 per cento, Singapore del 150 per cento. La Malaysia addirittura del 722 per cento negli ultimi cinque anni. Trent'anni dopo la fine della guerra del Vietnam, Singapore e' il primo paese della regione ad entrare nella ''top ten'' degli importatori di armi. Oltre alle due superpotenze asiatiche, i maggiori compratori sono la Corea del Sud, gli Emirati Arabi e, sorprendetemente, anche la Grecia che, malgrado la devastante crisi economica, continua ad essere il primo importatore europeo, soprattutto di aerei da guerra. L'Europa acquista quasi un quarto delle armi convenzionali, ma sono europei sette dei primi otto venditori. Stati Uniti e Russia si dividono oltre la meta' del mercato mondiale; la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, l'Italia e la Spagna si spartiscono il resto. La neutrale Svezia ne vende quanto la Cina. In Medio Oriente viene assorbito il 17 per cento del commercio di armi. I paesi della penisola arabica acquistano soprattutto dagli Stati Uniti e dall'Europa, mentre l'Iran compra in Russia. Le importazioni iraniane, tuttavia, si sono mantenute molto basse anche nel 2009, a causa dell'embargo imposto dall'Onu alla Repubblica Islamica. Il Sudamerica acquista meno del dieci per cento degli armamenti mondiali, ma rispetto al 2004 le importazioni belliche sono aumentate del 150 per cento, sintomo evidente di una pericolosa corsa agli armamenti. Il Venezuela ha ricevuto oltre due miliardi di dollari in credito dalla Russia per acquistare sistemi di difesa aerea e mezzi militari blindati. La Germania, il cui export nel settore e' aumentato del 100 per cento, soprattutto con la vendita di carri armati e altri mezzi corazzati, fa ottimi affari con Brasile e Cile. L'Africa e' l'ultimo continente anche nelle spese militari, con il 7 per cento. Ma in questo caso - sottolinea Peacereporter - i numeri non dicono tutta la verita'. Quote anche limitate di mercato, infatti, nell'Africa sub-sahariana hanno effetti decisivi sulle dinamiche delle crisi e dei conflitti regionali. Paesi dell'est europeo, Russia, Bielorussia e Ucraina in primis, hanno venduto armi a paesi fortemente instabili, come il Sudan e il Ciad, influendo irrimediabilmente sulle guerre locali. Inoltre su dieci embarghi Onu vigenti nel 2009, sette riguardano proprio paesi africani, dalla Costa d'Avorio alla Repubblica Democratica del Congo, dalla Somalia all'Eritrea, restrizioni spesso violate.

l'Italia vende strumenti di tortura a Paesi che la praticano

La denuncia di Amnesty: l'Italia vende strumenti di tortura a Paesi che la praticano Alcune aziende di paesi europei, in particolare Germania e Repubblica ceca ma anche Italia, traggono profitto da un cono d'ombra giuridico che consente loro di vendere strumenti utilizzati per infliggere torture in almeno nove stati del mondo che utilizzano disumani metodi d'interrogatorio. Lo denuncia un rapporto di Amnesty International, l'organizzazione per la difesa dei diritti dell'Uomo con sede a Londra. "L'Italia vende manette da elettroshock" - Fra questi "strumenti di tortura" figurano manette per appendere persone al muro, blocca-caviglie, batterie per somministrare scariche elettriche e "aerosol di prodotti chimici", viene precisato in un'anticipazione del rapporto che sarà discusso dalla sottocommissione per i diritti dell'Uomo del Parlamento europeo. "Fornitori di attrezzature per l'applicazione della legge in Italia e Spagna" - afferma Amnesty senza indicare nomi almeno nel testo di sintesi pubblicato sul suo sito internet - hanno promosso la vendita di "'manette' o 'manicotti'" da elettroshock per tormentare detenuti con scariche anche da 50 mila volt. "I governi dicono di non sapere" - Questi scambi illeciti sono proseguiti anche dopo il varo, nel 2006, di un bando europeo del commercio internazionale di attrezzature progettate per la tortura e i maltrattamenti. In Italia come in altri paesi il traffico avviene, almeno ufficialmente, all'insaputa del governo che, riferisce Amnesty, ha "dichiarato di non essere a conoscenza" di alcun produttore o esportatore attivo in questo campo. In Italia, Finlandia e Belgio però - sempre secondo l'organizzazione per la tutela dei diritti umani - alcune società hanno dichiarato apertamente in interviste sui media o attraverso i propri siti web di fornire articoli messi al bando ma spesso prodotti in altri paesi. 17 marzo 2010

mercoledì 17 marzo 2010

Arrestato il segretario di Prosperini

Milano - L'accusa nei confronti di Jonatha Soletti e' di riciclaggio Jonatha Soletti, segretario dell'ex assessore regionale della Lombardia Piergianni Prosperini, e' stato arrestato a Milano. E' avvenuto nell'ambito dell'inchiesta sulle tangenti versate all'ex assessore. Secondo quanto si e' appreso l'accusa nei confronti di Soletti e' di riciclaggio. Avrebbe tentato di far sparire 800 mila euro dopo essersi recato in Svizzera, in un istituto di credito dove erano depositati i soldi. Prosperini, nei giorni scorsi, ha raggiunto un accordo con la Procura per patteggiare 3 anni e 5 mesi per le accuse di corruzione, truffa e turbativa d'asta. E il gip Ghinetti nelle prossime ore dovrebbe decidere sull'istanza di concessione dei domiciliari per l'ex assessore. Prosperini risulta, però, indagato anche per corruzione internazionale per aver mediato nella vendita di alcuni pescherecci al governo eritreo. E, secondo l'accusa, per quella mediazione avrebbe incassato proprio 800 mila euro. Inoltre, come riporta oggi La Repubblica, il nome di Prosperini emergerebbe anche in una recente inchiesta del procuratore aggiunto Armando Spataro, su un traffico di armi verso l'Iran. Martedi 16 Marzo 2010

cittadini somali ed eritrei denunciano l’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo

24 cittadini somali ed eritrei denunciano l’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo per essere stati rimpatriati in Libia. La corte di Strasburgo chiede all’Italia i testi degli accordi firmati con il Governo libico il 27 dicembre 2007 e il 4 febbraio 2009. Undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, raccolti lo scorso anno da navi militari italiane in acque maltesi e consegnati alle autorità libiche, hanno presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia, denunciando di essere stati vittime di un’espulsione collettiva priva di ogni fondamento legale. Un’espulsione che - sostengono i ricorrenti - è avvenuta senza essere né identificati né ascoltati, e che li avrebbe messi a rischio di torture e maltrattamenti. Lo rende noto la stessa Corte di Strasburgo che - secondo un dispaccio Ansa - in settimana ha comunicato il ricorso al Governo italiano, chiedendo chiarimenti sull’accaduto. La Corte europea dei diritti dell’uomo chiede al Governo italiano di fornire anche tutte le informazioni sul numero di immigrati che ogni mese sbarcano sulle coste della Penisola e quelle sul trattamento che viene riservato in Libia agli immigrati irregolari respinti. Una volta ricevuti dalle autorità italiane i chiarimenti richiesti, la Corte deciderà sull’ammissibilità del ricorso ed eventualmente sul merito. La vicenda - ricostruita dall’Ansa - risale al maggio 2009. I ricorrenti sostengono di aver fatto parte di un gruppo di circa 200 persone, tra cui bambini e alcune donne incinta, che a bordo di tre imbarcazioni avevano lasciato le coste libiche nel tentativo di raggiungere quelle italiane. Il 6 maggio le imbarcazioni si trovavano a 35 miglia a sud di Lampedusa, in zona sotto controllo maltese, e sono state raggiunte dalle navi della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera italiana. I militari italiani dopo averli trasferiti sulle navi, li hanno ricondotti in Libia, dove gli immigrati sono stati consegnati alle autorità locali. I ricorrenti affermano che durante il viaggio le autorità italiane non li avrebbero informati sulla loro destinazione, né avrebbero effettuato alcuna procedura di identificazione. I 24 cittadini somali ed eritrei sostengono quindi di essere stati oggetto di un’espulsione collettiva atipica e priva di ogni fondamento legale e di non essere stati in grado di contestare davanti alle autorità italiane il loro rinvio in Libia. Sostengono inoltre che, riconducendoli in Libia, le autorità italiane li avrebbero esposti al rischio di essere torturati o maltrattati. Tutto ciò in violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Nel comunicare il ricorso al Governo italiano, la Corte di Strasburgo, oltre a domandare chiarimenti sull’episodio specifico, ha chiesto a Roma di produrre i testi degli accordi firmati con il Governo libico il 27 dicembre 2007 e il 4 febbraio 2009, e di spiegare il rapporto che esiste tra le operazioni condotte in base a questi accordi con la Libia e le attività svolte nell’ambito della missione dell’Agenzia europea Frontex. Inoltre al Governo viene chiesto di fornire tutte le informazioni disponibili sul numero di immigrati che arrivano ogni mese sulle coste italiane, in particolare a Lampedusa, ma anche sul trattamento che viene riservato in Libia agli immigrati irregolari respinti. (Fonte: Ansa)

Immigrati, rivolta a Massa Carrara

EMERGENZA. Un episodio analogo a quello di Lampedusa mette in allarme la struttura di accoglienza in Toscana. Feriti e contusi in strada Fuggiti dalla Croce Rossa, hanno protestato in città E a Lampedusa sciopero generale di tutti gli esercizi SCONTRI A MARINA DI MASSA. Problemi analoghi a quelli dei giorni scorsi a Lampedusa, ieri, al Centro della Croce Rossa di Marina di Massa (Massa Carrara). Momenti di tensione con le forze dell'ordine, avvenuti durante la protesta di una cinquantina di profughi eritrei e somali. Feriti e contusi, seppur lievi, sono stati regisrtati al termine degli scontri. Una manifestante è stata medicata e giudicata guaribile in tre giorni. Contusi anche alcuni agenti. Ventotto gli extracomunitari portati in questura per accertamenti. I manifestanti erano una parte degli ospiti del centro della Croce Rossa, trasferiti in Toscana da Lampedusa lo scorso agosto. La manifestazione, nata per sollecitare le autorità ad esaminare le richieste di riconoscimento dello status di profughi, non era stata autorizzata. Per tre ore i manifestanti hanno creato forti disagi al traffico in un'arteria della città. Poi le forze dell'ordine, dopo averli più volte invitati a porre fine alla protesta, sono intervenute per disperderli. La manifestazione, nata per sollecitare le autorità ad esaminare le richieste di riconoscimento dello status di profughi, non era stata preavvisata. Per tre ore i manifestanti hanno creato forti disagi alla circolazione in un'arteria della città. Poi le forze dell'ordine, dopo averli più volte invitati a porre fine alla protesta, sono intervenute per disperderli. Durante la manifestazione, il prefetto, Carlo Striccoli, e il vicesindaco, Martina Nardi, si sono offerti di ricevere una delegazione di manifestanti, ma questi hanno rifiutato. TENSIONE A LAMPEDUSA. Continua intanto il braccio di ferro tra il governo e gli abitanti di Lampedusa in rivolta, da una settimana, contro l'apertura, sull'isola, di un Centro di identificazione ed espulsione dei migranti. Alla decisione del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, di andare fino in fondo con la politica dei rimpatri diretti, che a dire degli isolani trasformerebbe in una sorta di Guantanamo la maggiore delle Pelagie, i cittadini risponderanno scendendo di nuovo in piazza oggi, con uno sciopero generale che paralizzerà per 12 ore Lampedusa. Saracinesche abbassate, scuole ed uffici chiusi a testimonianza che la gente non accetta «le imposizioni dell'esecutivo». Nel corso di una seduta straordinaria del consiglio comunale, che si è tenuta nella piazza principale del paese, i cittadini hanno messo a punto le iniziative di protesta previste per domani. L'assemblea ha deciso all'unanimità di denunciare il ministro Maroni, del quale chiede le dimissioni, per violazione delle norme sull'immigrazione clandestina. I cittadini sono tutti con il sindaco, Dino De Rubeis: in corteo da piazza Libertà oggi raggiungeranno il porto in una marcia che terminerà con la commemorazione dei tanti migranti morti durante i «viaggi della speranza» verso le coste della Sicilia. Nel Centro di prima accoglienza, dove dopo il trasferimento di circa 100 migranti, molti dei quali richiedenti asilo, si trovano ora 1200 persone, il clima è più tranquillo. Ma l'emergenza, ora si chiama «viveri». Il cibo inizia a scarseggiare: la nave che porta le derrate alimentari non è attraccata per il maltempo. Organizzati due voli speciali per fare giungere al Centro pasta, riso e prodotti surgelati. Proseguono, intanto, nell'ex base navale Loran, i lavori di allestimento del contestato centro di identificazione. Giovedì scorso, nella struttura, dismessa da due anni, erano state portate 78 donne. Ora molte sono state trasferite con un volo, nel Cpt di Crotone. In tutto hanno lasciato Lampedusa 100 migranti, la maggior parte dei quali richiedenti asilo. ROMA

Ai migranti vengono promesse opportunità di lavoro create dal Sudafrica per i Mondiali di calcio

Etiopia, il governo denuncia traffico di esseri umani Secondo il governo dell'Etiopia, i trafficanti di esseri umani starebbero approfittando della crescente attesa nel continente per i Mondiali di calcio in Sudafrica. Ogni anno almeno 20mila etiopi migrano illegalmente, per un giro d'affari complessivo di 40 milioni di dollari. Un rapporto del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali denuncia che i trafficanti, sfruttando la falsa aspettativa che il Sudafrica abbia creato grandi opportunità di lavoro, stiano intensificando da mesi la tratta di esseri umani verso l'Africa australe. Il governo di Addis Abeba ha proposto misure per il rimpatrio forzato dei migranti e per la protezione dei diritti degli etiopi che vivono legalmente in altri Paesi. Alcune delle vittime di questo sfruttamento hanno raccontato che il loro lungo viaggio verso il Sudafrica si è spesso concluso in un campo-profughi in Malawi.

Prosperini l'africano

Dopo il patteggiamento per tangenti, l'ex assessore rischia anche per il traffico d'armi verso l'Eritrea. Un capitolo rivelato un mese e mezzo fa da un'inchiesta de "L'espresso". Che spaventò i mediatori Ha appena chiesto di patteggiare una condanna a tre anni e cinque mesi di reclusione per le tangenti televisive: 230 mila euro incassati in Svizzera per dirottare gli spot pubblici sulle tv private dell'amico e sostenitore Raimondo Lagostena Bassi. Ma ora Pier Gianni Prosperini, leader della corrente anti-immigrati "Nordestra" e assessore regionale della giunta Formigoni fino al 16 dicembre scorso, quando è finito in carcere, viene indicato dalla Guarda di Finanza anche come «verosimile» destinatario di tangenti per un traffico d'armi a favore dell'Eritrea. Gli affari segreti di Prosperini con il regime dittatoriale africano sono stati rivelati per la prima volta da "L'espresso" con questa inchiesta giornalistica pubblicata il 5 febbraio scorso. Ora si scopre che quell'articolo, come rivela oggi "La Repubblica", è stato commentato «con allarmata e gravissima preoccupazione» dai faccendieri indagati (e poi arrestati) per un altro traffico illegale di armi, a favore dell'Iran. Intercettati per le triangolazioni illegali con Teheran, infatti, due mediatori italiani si scambiavano indicazioni anche sulle tangenti da pagare «ogni sei mesi» a «un politico in Italia» per una diversa fornitura di fucili, destinati all'Eritrea, altro Stato in teoria sotto embargo internazionale. Dopo l'arresto di Prosperini, i commenti dei faccendieri intercettati per le armi all'Iran hanno convinto la Guardia di Finanza che fosse proprio lui il politico che si faceva pagare le mediazioni per i fucili venduti all'Eritrea. Il sito de "L'espresso" aveva già rivelato altre tangenti incassate dall'ex assessore lombardo per i suoi affari in Africa: interrogato dai magistrati, l'amministratore della «Cantieri Navali Vittoria», in particolare, ha già ammesso di aver versato un milione di dollari a Prosperini per vendere otto maxi-pescherecci al regime eritreo. Dopo l'arresto, e prima del patteggiamento, Prosperini era stato difeso pubblicamente dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e dal presidente uscente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni. (16 marzo 2010)