mercoledì 28 luglio 2010

Eritrei in Libia: l’odissea continua

Ismail Ali Farah Gli hanno rilasciato un permesso di soggiorno della durata di tre mesi, ma nessuno sa che fine faranno allo scadere del documento. Dei 205 eritrei rilasciati, alcuni sono riusciti ad uscire dalla cittadina di Sebha in pieno deserto libico. Altri rimangono ancora bloccati. Un centinaio è riuscito a raggiungere la costa, mentre altri sono ancora bloccati a Sebha nel profondo del deserto libico. Continua l'odissea dei 205 rifugiati eritrei, a cui le autorità libiche hanno rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo di tre mesi, dopo le pressioni subite dalla comunità internazionale. Si erano rifiutati di compilare un modulo prestampato di rimpatrio "volontario" fornito dal governo eritreo e imposto con la forza dalla polizia libica. A questo è seguito il trasferimento di donne, uomini e bambini alla prigione infernale di Al-Biraq, nel pieno del deserto. Il trasferimento è avvenuto in condizioni disumane: 12 ore in un container in viaggio sotto il sole del deserto, percossi e mantenuti in vita con piccole razioni di acqua e cibo. Poi, il 17 luglio, il permesso di soggiorno, con l'obbligo, però, di rimanere entro i confini della cittadina di Sebha. La domanda è ora: cosa succederà al termine di quei tre mesi? Le autorità libiche assicurano che il documento permetterà loro di trovare un lavoro. Anche se è più facile credere che tentino, anche loro, la traversata, in fuga verso l'Europa. Il rimpatrio in Eritrea significa, infatti, lavori forzati, carcere, se non, addirittura, la morte. Chi fugge clandestinamente e viene identificato dalle autorità eritree, vede la propria famiglia perseguitata o colpita da multe che si traducono, poi, in carcere. Gran parte della popolazione eritrea vive in condizioni di povertà, mentre il regime di Isaias Afewerki impone una leva militare obbligatoria praticamente a vita. Il controllo in patria e all'estero è capillare. Nonostante l'ufficio libico dell'Agenzia Onu per i rifugiati (Unchr) abbia riaperto i battenti, rimane un'impresa impossibile, per quei 205 "ex detenuti", raggiungere l'Unchr e chiedere asilo politico. I funzionari dell'Onu non possono, infatti, uscire dal percorso casa-lavoro, imposto loro dalle autorità libiche. «La questione è semplicemente uno dei tanti casi che ci permettono di rinnovare quanto stiamo chiedendo ormai da tempo» spiega padre Mussie Zerai, presidente dell'Agenzia Habeisha, che si occupa di dare sostegno ai richiedenti asilo e rifugiati presenti in Italia. «Serve un "corridoio" che permetta ai richiedenti asilo di raggiungere l'Europa, evitando le traversate in mare» dice Zerai. «Basterebbe che ogni Stato membro si dichiarasse disponibile ad accogliere 10 eritrei» scrive Gabriele del Grande sul suo Fortress Europe, osservatorio sulle morti dei migranti nel Mediterraneo. «Ricordatevi di loro la prossima volta che si conteranno i morti al largo di Lampedusa, ricordatevi che li avevamo incontrati prima, quando ancora erano nelle carceri libiche, che ci eravamo spesi per la loro liberazione, ma che poi nessun paese li volle accogliere». (L'intervista audio a p. Mussie Zerai, estratta dal programma di Afriradio 'Africa Oggi' è realizzata da Michela Trevisan e Ismail Ali Farah) Nigrizia - 27/07/2010

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