sabato 19 marzo 2011

Gli immigrati? Una risorsa, ma non una merce

di Danilo Quinto

Nelle scorse settimane, mentre alcuni esponenti del Governo italiano hanno diffuso allarmi su probabili esodi di carattere “biblico” provenienti dai Paesi del nord Africa, il Ministero del Welfare ha diffuso un rapporto dal quale si apprende che l’Italia, nei prossimi dieci anni, avrà bisogno di poco meno di due milioni di lavoratori immigrati. La stima si basa sulla previsione di una diminuzione – entro il 2020 – della popolazione in età attiva tra il 5,5% e il 7,9%: dai 24 milioni e 970mila del 2010 si scenderebbe a un valore compreso tra i 23 milioni e 593mila e i 23 milioni circa nel 2020. Dal lato della domanda, gli occupati crescerebbero in dieci anni ad un tasso compreso tra lo 0,2% e lo 0,9%, arrivando nel 2020 a quota 23 milioni e 257mila nel primo caso e a 24 milioni e 902mila nel secondo. Un approccio schizofrenico al problema immigrazione, che testimonia quanta riflessione ancora occorra per tentare di governare questo fenomeno, che è naturale ed inarrestabile e come tutti i fenomeni di carattere globale condizionerà sempre piu’ la vita di tutti, nel Nord e nel Sud del mondo, come sta già avvenendo peraltro, se si considerano i processi migratori da Sud a Sud, che riguardano i Paesi economicamente emergenti dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina. L’Onu calcola che attualmente una persona su 35 vive o lavora in un paese diverso da quello in cui è nato. Questo vuol dire che 175 milioni di persone risiedono in un paese differente di quello di nascita. Di questi, il 56,3% lavorano o risiedono nei paesi in via di sviluppo, mentre solo il 43,7% dei migranti si trova nei paesi a sviluppo avanzato; 86 milioni sono gli adulti economicamente attivi e impegnati nel processo produttivo. La cifra è raddoppiata negli ultimi 25 anni. Quasi un terzo degli immigrati vivono in Europa. L’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Iom), in un rapporto diffuso nelle scorse settimane, stima che nel 2050 le persone che non vivranno piu’ nei loro Paesi d’origine saranno oltre 400 milioni. Le classi dirigenti europee ragionerebbero per sola convenienza – al pari delle organizzazioni criminali impegnate nel traffico degli esseri umani - se si limitassero a lanciare allarmi o a calcolare i benefici che i processi migratori determinano rispetto al fabbisogno che le società avanzate hanno della manodopera. Uno studio della Banca d’Italia del 2009, afferma che In Italia – ad esempio - ci sono interi settori produttivi – agricoltura, edilizia, industria, servizi alla famiglia – che entrerebbero in crisi senza l’apporto dei lavoratori immigrati, che contribuiscono alla produzione del prodotto interno lordo per l’11,1% (stima di Unioncamere per il 2008). Ha ragione, quindi, chi sostiene che da questi dati emerge la necessità di considerare gli immigrati una risorsa per il futuro dell’Italia, che, al pari di molti Paesi europei, conosce una formidabile crisi di natalità ed un sempre piu’ accentuato invecchiamento della popolazione, elementi che concorreranno alla riduzione progressiva della popolazione stanziale occupata. E’ altrettanto evidente, però, che un discorso che abbia solo questo connotato, sarebbe impregnato di solo egoismo. “I lavoratori stranieri – si legge nella Caritas in veritate - nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”.

Considerare, quindi, il lavoratore straniero come un mero fattore di produzione, vorrebbe dire non rispettare la sua dignità di persona, che possiede un diritto che precede quello all’accoglienza: quello di vivere nel proprio Paese d’origine. Questo diritto – ed è questa la questione principale da affrontare – può essere garantito solo attraverso una solida politica di cooperazione internazionale, che favorisca lo sviluppo umano integrale soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, che non li depauperi delle risorse umane piu’ significative, necessarie alla loro crescita. E’ del pari evidente che uno sforzo di questo genere, se attuato, non potrà evitare l’espandersi di un “fenomeno che – si legge sempre nella Caritas in veritate – impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale”. Potrà attenuarlo, limitarne le conseguenze, le proporzioni che sta assumendo, i rischi che comporta. Tra questi ultimi, il piu’ significativo è stato sottolineato dal Papa nei giorni scorsi nel discorso ai membri dell’Anci: “Bisogna saper coniugare solidarietà e rispetto delle leggi, affinché non venga stravolta la convivenza sociale e si tenga conto dei principi di diritto e della tradizione culturale e anche religiosa da cui trae origine la nazione italiana”.

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