giovedì 14 aprile 2011

Lettere, foto e amuleti il povero tesoro dei migranti

Le barche e il mare restituiscono gli oggetti persi durante le traversate

LAURA ANELLO
LAMPEDUSA
Sono le ultime parole che si sono portati dietro prima di salire sui barconi. Le parole-amuleto da tenere addosso quando il mare è grosso, la riva è lontana, il legno fragile e troppo carico. Lacrime di madri, preghiere di sorelle, diari di prigionia, ultimi desideri, formule rituali. Parole degli immigrati vivi e morti.
Parole ritrovate nei cimiteri delle barche dai ragazzi di un'associazione di Lampedusa, «Askavusa», che da tre anni recupera scarpe, vestiti, portafogli, pentole, pacchi di cuscus e di tè, libri religiosi e bandiere, Corani, Bibbie, immagini sacre.
E lettere. Preziose, nascoste in custodie di plastica a prova di mare, poi avvolte dentro teli, spesso cucite nelle giacche. Arrivano intatte, scolorite dall'acqua, oppure ridotte a una macchia di inchiostro.
Ne hanno trovate una ventina, in aramaico, la lingua ufficiale dell'Etiopia, l'unico idioma scritto che ci sia in Africa insieme con il tigrino dell'Eritrea. Un alfabeto che ai latini appare incomprensibile e che deriva dal remoto ge'ez, oggi utilizzato soltanto dai monaci copti per le liturgie. Lettere, svelate e tradotte per la prima volta, che raccontano gli immigrati-uomini prima che diventino numeri da contare nella cronaca quotidiana degli sbarchi.
«Se la vita che fai è quella che mi racconti, in confronto la tomba è un rifugio caldo. Ma io sono fiduciosa, alla tua impresa manca solo il dieci per cento e io sono sicura al cento per cento che arriverai», scrive Meseret al fratello che è in Libia, stazione della via crucis per raggiungere la Sicilia. «Non puoi immaginare, mamma, tutto quello che ho passato. Mi sento come Cristo crocifisso sul Golgota», aggiunge un uomo che scrive un diario fitto fitto su fogli microscopici di un'agendina scompaginata.
Parole scritte per sé e solo per sé, perché la famiglia va rassicurata. E anche a casa bisogna ricacciare giù le lacrime e dare speranza. «Noi lo sappiamo che soffri, andiamo in chiesa e preghiamo per te, vedrai che Gesù ti aiuta», scrivono le donne Workie e Mekdef a Tecca, anche lui partito per il viaggio della speranza attraverso la Libia.
Le lettere sono raccolte in due faldoni insieme con le fotografie - gruppi, famiglie, bambini sorridenti, donne in posa o solo macchie colorate gli oggetti sono disposti in una stanza che è un po' museo, un po' luogo d'accoglienza per gli immigrati, un po' atelier d'artista, visto che il responsabile dell'associazione, Giacomo Sferlazzo, con quei legni mangiati dalla salsedine, con quelle barche sfasciate, con quei Corani stropicciati, realizza opere forti e struggenti, un impegno artistico e civile che porta avanti anche con la sua musica autoprodotta e con una rassegna di cinema dedicata alle migrazioni, LampedusainFestival.
Alle pareti pendono scarpe che rimandano a quelle accatastate ad Auschwitz, c'è la ciabatta rossa di un bambino. E poi monete, documenti d'identità, sigarette, pentole, brillantina per capelli e dentifricio. «Li lasciano sulle barche per lo choc, per la concitazione, per la paura - dice Sferlazzo - o nella fretta di togliersi di dosso gli abiti fradici». O magari perché non ce l'hanno fatta ad arrivare. Sono approdate le cose che parlano per loro, che parlano di loro, mentre i corpi restavano a galleggiare nel Mediterraneo.
Le lettere sono infarcite di preghiere, di affidamenti a Cristo, alla Madonna, a San Michele, pervase di religiosità, a volte trovate insieme con libri sacri. Già, perché questo popolo di profughi subsahariani che sembra venuto dalla luna ha la stessa devozione dei nostri emigranti di inizio secolo. Sono copti-ortodossi, cattolici, protestanti. E fanno a gara, per religiosità, con i musulmani del Maghreb che caricano le barche di libri del Corano. E che pure hanno lasciato qualche traccia scritta. C'è un foglio che fa sorridere, appunti di ricette: l'insalata Windsor, la Contadina, la beef salad, la messicana, gli ingredienti per il french dressing (il condimento alla francese), quella per la pasta con il tonno. Nome delle pietanze in inglese, appunti veloci in arabo per sapere cosa metterci dentro. Forse il memo di un aspirante cuoco, forse gli appunti di un ragazzo che vuole finalmente assaggiare le prelibatezze di cui ha sentito parlare. E ci sono pure un pacchetto di fogli scritti in una non-lingua, probabilmente un rituale magico.
Il recupero delle memorie - come una ricomposizione pietosa di identità - va avanti da tre anni, nella prospettiva di realizzare una Ellis Island siciliana in quest'isola che è frontiera tra continenti. In un angolo ci sono le cataste raccolte nell'assedio delle ultime settimane, «ma abbiamo raccolto poco sulle barche - spiega Giacomo - adesso è vietato pure avvicinarsi, ufficialmente per evitare saccheggi, contiamo però di ricominciare presto».
Ma le parole, a volte, sono arrivate proprio sulle onde. Come quando sugli scogli della vicina isola di Linosa, l'anno scorso, qualcuno ha trovato una bottiglia di plastica verde con dentro un foglio di carta a quadretti e un messaggio in arabo: «Chiunque troverà questa lettera, voglio sposarlo con il rito musulmano». Una donna in carne e ossa, non una creatura da favola di pirati. C'è pure un numero di telefono, alla fine, un numero tunisino. Ma all'altro capo non risponde nessuno. Chissà se la ragazza è viva o è morta in quello stesso mare cui ha affidato il suo messaggio d'amore. Un'altra faccia, grande, sorride appesa a una parete: «È, anzi era, un ventenne di Tunisi - racconta Sferlazzo - Il fratello, regolare e sposato in Francia, è venuto a cercarlo qui, quando ha saputo che si era imbarcato. È rimasto per dieci giorni sul molo, fino a quando non ha saputo che il corpo del ragazzo era stato trovato a galleggiare vicino a una spiaggia del suo Paese». Per dieci giorni ha inghiottito le lacrime, offrendo pasti e aiuto a chi ce l'aveva fatta. Abbracciava tutti. A tutti diceva: «Fratello mio».

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