venerdì 16 settembre 2011

Eritrea, il paese-prigione dove il dissenso è un crimine


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Eritrea, il paese-prigione dove il dissenso è un crimine

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE|
Domenica saranno trascorsi dieci anni dalla vergognosa purga con cui il presidente-dittatore dell’Eritrea, Isaias Afewerki, liquidò ogni forma di dissenso intorno a sé.
Eroi della trentennale guerra d’indipendenza dall’Etiopia, dieci uomini e una donna il 18 settembre 2001 sono finiti all’inferno. Non si sa neanche se siano ancora tutti vivi. Le loro famiglie chiedono notizie e non ne ricevono.
All’interno del Fronte popolare per la democrazia e la giustizia, il partito unico al potere, avevano costituito un’idea di dissenso, il Gruppo dei 15, chiedendo al presidente-dittatore l’avvio di un dialogo democratico. La sua risposta è stata: siete colpevoli di “crimini contro la sicurezza della nazione”.
I “criminali” sono Aster Fissehatsion, veterana di guerra ed ex dirigente presso il ministero del Lavoro e degli affari sociali; il suo ex marito, Mahmoud Ahmed Sheriffo, già vicepresidente e ministro degli Esteri; Haile Woldetensae e Petros Solomon, ex ministri degli Esteri; Beraki Gebreselassie, ex ministro dell’Educazione e poi della Cultura; Saleh Kekiya, ex ministro dei Trasporti e delle comunicazioni; Ogbe Abraha, Estifanos Seyoum e Berhane Gebregziabeher, ex generali dell’esercito; Germano Nati, dirigente regionale; e Hamad Hamid Hamad, ex ambasciatore in Sudan.Tre dei quattro che non sono stati arrestati sono fuggiti all’estero in tempo, l’ultimo ha fatto autocritica ed è tornato nei ranghi.
Gli undici prigionieri, se sono ancora vivi, sono detenuti “incommunicado”, il termine giuridico con cui si definisce una detenzione segreta, non riconosciuta dal governo e che isola il detenuto da ogni contatto col mondo esterno. La detenzione “incommunicado” aumenta il rischio di subire maltrattamenti e torture, così come quello di non ricevere cure mediche adeguate.
Le condizioni di prigionia in Eritrea sono tremende. I prigionieri sono tenuti in celle sotterranee o in container di metallo depositati nel deserto, esposti a temperature estreme. Le malattie fisiche e mentali sono diffuse. La tortura, racconta e la disegna chi ne è uscito vivo, è di routine.
In questi ultimi dieci anni le autorità eritree hanno ordinato arresti di massa per stroncare l’opposizione. Lo stato d’allerta permanente in cui ancora si trova il paese dopo la guerra del 1998-2000 con l’Etiopia, ha dato al presidente Afewerki e al suo partito unico l’alibi per esercitare un controllo totale sullo stato. Non sono consentiti partiti d’opposizione, mezzi d’informazione indipendenti e organizzazioni della società civile. Migliaia di fedeli delle religioni non registrate, tra cui i testimoni di Geova e i cristiani di chiese non riconosciute dal governo, sono in prigione. In un paese militarizzato, con la leva obbligatoria di 18 mesi, il concetto di “obiezione di coscienza” è semplicemente inimmaginabile e i disertori vengono torturati.
Chi può fugge dal paese-prigione: nel 2010, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, erano 223.562 i rifugiati e richiedenti asilo eritrei riparati all’estero. Il cinque per cento della popolazione…
L’Italia ha avuto un lungo dominio coloniale sull’Eritrea e, dall’indipendenza proclamata nel 1993, i rapporti tra Roma e Asmara sono rimasti molto stretti. L’attuale primo ministro e il suo predecessore hanno calorosamente ospitato il presidente Afewerki. Il tema dei diritti umani è stato costantemente assente.
Il decimo anniversario della purga del 18 settembre 2001 è un’occasione fondamentale per chiedere al presidente Afewerki se gli undici prigionieri sono ancora vivi e, nel caso, domandare la loro scarcerazione.

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