martedì 30 luglio 2013

"AL CENTRO DI ACCOGLIENZA DI PERUGIA CI LASCIAVANO AL FREDDO E SI PRENDEVANO IL CIBO"

http://www.corrieredellumbria.it/notizie/perugia-accuse-operatori-centro-accoglienza/0014030

Emergono nuove testimonianze sulla struttura di via del Favarone. Ma la cooperativa risponde punto su punto

29/07/2013 15:51:48

“Tutto l’inverno del 2011 il riscaldamento dell’appartamento dove  vivevo era acceso solamente due ore al giorno, una la mattina e una la  sera. Nella mia camera faceva molto freddo e non c'erano vestiti caldi da  indossare. Dovevo comprare gli abiti con i pocket money (tre euro al giorno  che spettano ai rifugiati per i beni non essenziali, ndr) ma non bastavano.  Ero sempre triste e arrabbiato nel vedere che le persone che lavoravano  nell'ufficio avevano il riscaldamento acceso tutto il tempo mentre io avevo sempre freddo”.
Inizia così il racconto di un rifugiato per motivi umanitari  dell'Eritrea, ospite in via del Favarone due anni fa. Le accuse sono  dettagliate. E’ una delle tante sottoscritte e protocollate: circa venti.

"Ci dicevano: non siete tutti uguali" E  ne arrivano ancora delle altre. “Quando ho lasciato il centro immigrati -  continua il giovane eritreo - mi hanno dato solo 250 euro. Conosco molte  persone che sono uscite dal centro e che hanno avuto l'affitto pagato per  sei mesi. Quando ho chiesto spiegazioni, davanti a due operatori, mi è stato  risposto che quello era anche troppo per me. Poi mi è stato detto che non  era necessario che il progetto Sprar mi aiutasse perché parlavo un po' di  italiano. Che non eravamo tutti uguali e dunque 250 euro mi bastavano. Con il pocket money non potevamo comprare abbastanza cibo essenziale ccome carve e verdura. Ci davano sempre e solamente fagioli, lenticchie, pasta, zucchero, riso, qualche uovo, tonno e farina”.

"Portavano via il cibo" Un irakeno di Nassirya  racconta come un'operatrice l’abbia chiamato a casa sua “per lavorare come  muratore per due giorni. Non mi ha pagato il lavoro ma mi ha detto che per  pagarmi avrebbe trovato una borsa lavoro”. Ha anche raccontato di come “ha portato via il cibo del centro e l'ho messo nell’auto (dell’operatrice) per  le nozze del figlio”.

La risposta della cooperativa La cooperativa che gestisce il centro nega qualsiasi  sfruttamento. “Ciò che è stato fatto in alcuni casi - è scritto nella  memoria difensiva - è stato quello di testare le capacità manuali e di  comprensione della persona e di verificare le competenze dichiarate dal  beneficiario, in modo da redigere il curriculum del beneficiario nel modo  più veritiero possibile e di capire se fosse pronto per la ricerca  lavorativa”.
Per i presunti furti di cibo si specifica che “la cooperativa è  destinataria di prodotti del banco alimentare e Agea nonché del banco  farmaceutico. Prodotti destinati a persone il difficoltà. Capita che gli  operatori portino via tali prodotti sulle proprie auto per trasportarli a  persone in difficoltà che si trovano in altri luoghi e a ospiti nella  struttura di San Sisto”.
Per il vitto si assicura “che i beni sono  assolutamente sufficienti e che i beni deperibili come carne, pesce,  verdure e frutta non vengono acquistati dagli operatori va viene erogato un  contributo di 70 euro al mese”. Per i pocket money non erogati in maniera omogenea ci si difende con il fatto che “viene trattenuto per spronare gli  ospiti a seguire il corso di italiano, ma non viene intascato dai responsabili”.
Sul vestiario il progetto Sprar “acquista capi solo in caso  di necessità e solo biancheria intima. Il centro distribuisce beni usati in  buono stato, in parte offerti agli ospiti nel centro in parte presi alla  Caritas e alle suore Vincenziane per chi ne fa richiesta”. 

Contro i profughi e rifugiati barriere sempre più alte e lontane

 di Emilio Drudi
Una barriera in mare e sulle sponde africane del Mediterraneo, rinforzata da una blindatura del confine meridionale della Libia, in pieno deserto, perché i migranti, bloccati prima ancora di entrare nel paese o subito dopo, non possano nemmeno giungere in vista della costa per imbarcarsi verso l’Italia e l’Europa. Sembra questa la sostanza del nuovo accordo tra Roma e Tripoli per il controllo dell’emigrazione nel canale di Sicilia. Ne hanno discusso il premier Letta e il presidente libico Ali Zeidan Mohammed il 4 luglio scorso. I termini precisi dell’intesa non sono ancora noti. Forse ci si limiterà ad aggiornare quella firmata nell’aprile del 2011 dall’allora ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri. Di certo nessun documento è finora pervenuto per l’approvazione alle Camere, il cui parere, trattandosi di trattati internazionali, è indispensabile. Il sospetto è che si stia procedendo quasi in segreto. Le dichiarazioni rese al termine dell’incontro bilaterale sono tuttavia di per sé eloquenti.
“Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina per noi è una priorità”, ha detto Letta, annunciando anche che l’Italia si farà carico di addestrare “cinquemila unità tra le forze libiche”. Ali Zeidan Mohammed gli ha fatto eco ribadendo che la Libia “farà tutti gli sforzi necessari per arginare il fenomeno dell’immigrazione clandestina”. Ha accettato in pieno, insomma, il ruolo di “gendarme” che l’Italia ha assegnato al suo paese fin dal 2009 con il governo Berlusconi e ribadito poi da Monti nel 2011. Non ha mancato, poi, di battere cassa in Europa: “Crediamo – ha detto – che questi sforzi debbano coinvolgere tutti gli Stati del Mediterraneo del nord, con contributi anche sul piano finanziario”. Ed è stato proprio lui a rivelare che la cooperazione con l’Italia comprende il rafforzamento, “con le infrastrutture necessarie”, non solo dei confini marittimi ma della frontiera meridionale, quella in pieno deserto dalla quale entrano in Libia i migranti e i profughi in fuga dall’Africa sub sahariana e dal Corno d’Africa. Quali siano le infrastrutture a cui fa riferimento Ali Zeidan non è stato specificato, ma è facile pensare a motovedette e naviglio minore per il Mediterraneo; automezzi, jeep, fuoristrada, strutture fisse e recinzioni, ecc. per il deserto. E c’è chi sospetta anche armi ed equipaggiamenti militari.
Non una parola, da parte di Letta, per pretendere da Tripoli, come condizione essenziale per qualsiasi tipo di accordo bilaterale, la garanzia dei diritti umani e, in particolare, dei diritti dei rifugiati. Silenzio assoluto sul fatto che la Libia continua a non riconoscere la convenzione di Ginevra del 1951 sui profughi. Totalmente ignorate la terribili condizioni di vita delle migliaia di migranti finiti nelle carceri e nei circa 20 campi di detenzione, che l’ipocrisia del governo italiano continua a chiamare centri di accoglienza, ma che sono in realtà autentici lager, dove i prigionieri subiscono ogni genere di soprusi e violenze, come testimoniano le continue denunce di numerose organizzazioni umanitarie. In particolare Amnesty International, l’agenzia Habeshia, il gruppo Everyone, la stessa Commissione Onu.
“La situazione in Libia è così grave – protesta don Mussie Zerai, portavoce di Habeshia – che non solo gli accordi specifici sull’immigrazione, ma l’intero trattato di collaborazione Italia-Libia, in tutti i suoi aspetti, anche economici e politici, dovrebbero essere subordinati al rispetto effettivo dei diritti più elementari degli africani ‘neri’ che sono entrati a vario titolo nel paese: in fuga da persecuzioni politiche o religiose, per lavoro, come luogo di transito. Non bastano assicurazioni generiche: alla luce di quanto è accaduto finora, occorre chiedere un efficace sistema di verifica e controlli affidato a commissioni europee o dell’Onu. E’ l’unico modo per non diventare complici o addirittura mandanti di fatto dei continui soprusi che si verificano”.
Tutto lascia credere, invece, che il governo Letta seguirà la linea inaugurata da Berlusconi con Gheddafi e ribadita poi da Monti con il primo governo rivoluzionario, affidandosi in toto alla Libia. Così il “lavoro sporco” dei respingimenti a priori, per i quali l’Italia ha già subito una condanna dalla Corte europea per i diritti umani, verrà svolto dalle milizie e dalla polizia di Tripoli, lontano dai confini e dai mari italiani. E senza che i richiedenti asilo abbiano alcuna possibilità di farsi ascoltare. Cancellati e basta. Costretti al di là anche della frontiera del Sahara, in modo che non riescano a mettere piede nemmeno in Libia. E’ l’esatto opposto dell’appello all’apertura e alla comprensione, a una politica diversa nei confronti delle “periferie”, che papa Francesco ha lanciato da Lampedusa, la piccola isola “porta dell’Europa” per i profughi africani, scelta come meta del suo primo viaggio ufficiale proprio per dar voce agli ultimi della terra. Tutti in Italia hanno applaudito le parole del pontefice. Anche nel governo e nel Parlamento. C’è da chiedersi, allora, come si concili questo consenso con le linee del nuovo accordo che si profila con la Libia. Forse ancora più pesante di quello firmato da Berlusconi e da Monti.
A dettare questa linea dura forse è il fatto che in realtà tutto il Nord del mondo sta alzando muri sempre più alti contro profughi e migranti. L’ultimo caso è quello di Israele, che ha completato nei mesi scorsi l’impenetrabile barriera di filo spinato nel Sinai, lungo il confine egiziano, intensificando anche controlli e pattugliamenti. E’ stata chiusa, di fatto, la via percorsa in questi anni da decine di migliaia di disperati in fuga dal Sudan, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dalla Somalia. “Il flusso verso Israele – conferma don Zerai – è pressoché cessato. Quasi nessuno fugge ormai attraverso il Sinai dai campi profughi del Sudan e dell’Etiopia, perché le speranze di riuscire a passare sono praticamente nulle. L’unica strada rimasta è quella verso il Nord Africa e in particolare la Libia. Forse per questo l’Italia pensa di spostare la barriera il più a sud possibile, magari lungo la frontiera meridionale della Libia”.
A barriere come questa bussano già adesso migliaia e migliaia di disperati. Pensare di bloccarli con un muro è illusorio, tanto più che continuano a moltiplicarsi i conflitti e le persecuzioni che alimentano il flusso di altre migliaia di disperati. Basta scorrere le cronache. L’onda lunga della crisi di Damasco è arrivata ormai anche sulle nostre coste, come dimostra il numero crescente di richiedenti asilo siriani. La rivolta tuareg e la guerra che ne è seguita in Mali hanno “prodotto” almeno 800 mila sfollati. La maggioranza si è stabilita nei paesi limitrofi: soprattutto in Niger e in Mauritania. Ma non è finita: arrivano notizie di vendette e persecuzioni etniche e religiose e molti guardano ormai all’Europa come unica via di salvezza. Per non dire delle situazioni occulte o sottaciute, come quella dell’Eritrea, dominata da oltre vent’anni dalla dittatura militare di Isaias Afewerki. Solo in Etiopia sono 65 mila i rifugiati eritrei, concentrati in quattro campi di accoglienza, tutti nella regione del Tigrai: Shimelba, il primo ad essere aperto, nel 2004, a 30 chilometri dal confine; Mai Ayni e Adi Harish, più all’interno, ciascuno con 20 mila ospiti; e un quarto, più piccolo e ancora in fase di realizzazione, non lontano da Mai Ayni. Le condizioni di vita sono dure, poverissime. Il governo etiope cerca di fare qualcosa. Ha messo a disposizione, ad esempio, mille borse di studio per i ragazzi, in modo che possano frequentare le scuole o l’università ad Addis Abeba o in una delle altre principali città del paese, facendosi carico di tutto: alloggio, vitto, costo dei corsi, ecc. Consente inoltre ai profughi che hanno parenti in Etiopia di raggiungerli e vivere con loro, lasciando i centri di raccolta. Sono migliaia, in aggiunta ai 65 mila censiti a Shimelba, Mai Ayni e Adi Harish. “E il flusso continua – rileva don Zerai, appena rientrato da un viaggio nel Tigrai e ad Addis Abeba – In Etiopia arrivano dall’Eritrea almeno mille nuovi rifugiati al mese. Il problema grosso è costituito da quelli che vivono nei campi. Lì non hanno alcuna prospettiva. Il paese è povero. Difficilmente lo Stato potrà fare più di quello che sta facendo”.
Nei campi si vive come si vive: baracche di fortuna come casa, un solo centro medico ogni 20 mila persone, servizi quasi inesistenti, nessuna possibilità di lavoro, libertà di movimento limitata, condizioni di grave insicurezza, specie per le ragazze e le donne o per i minorenni, che sono tantissimi, spesso senza genitori o comunque senza adulti che si prendano cura di loro. La polizia garantisce solo la sorveglianza esterna. All’interno del campo non ci sono controlli: può accadere di tutto, è come avere una città di migliaia di abitanti senza alcun presidio.

Don Zerai non si stanca di dirlo: “Vista la vita a cui si è condannati in queste strutture, è normale che alla prima occasione molti tentino di andarsene, puntando verso l’Europa per chiedere asilo come rifugiati, proseguendo la fuga iniziata in Eritrea. La risposta dell’Europa non può essere quella di innalzare barriere sempre più alte e munite, chiudendosi nella sua ‘fortezza’. Quello che occorre è invece una politica di accoglienza più aperta, regolando i flussi direttamente dall’Africa: dall’Etiopia, dal Sudan, dal Mali, dalla Libia. Tramite le ambasciate o con apposite commissioni incaricate di esaminare le domande e i requisiti dei richiedenti asilo, in collaborazione con l’Onu. Si tratta, insomma, di riaprire la strada alla speranza. Perché, sapendo che le richieste di emigrare verranno prese in considerazione, penso che sarebbero molti di meno quelli disposti a sfidare la fortuna, pagando migliaia di dollari a un ‘passatore’, per attraversare clandestinamente prima il deserto e poi il mare, con il rischio di bruciarsi ogni possibilità di essere ascoltati e accolti. Naturalmente vanno migliorate anche le condizioni di vita nei campi, facendone veri centri di accoglienza attrezzati. La soluzione globale, come ha ammonito il papa, è sicuramente nel cambiamento della politica del Nord del mondo nei confronti delle periferie africane, asiatiche e sudamericane. Ma nell’immediato non vedo altre vie per ridurre e riuscire a gestire questo flusso crescente verso l’Europa di uomini e donne costretti ad abbandonare il proprio paese da guerre e persecuzioni, da fame e miseria. Da situazioni terribili spesso create dalle ingerenze e dagli interessi di quegli stessi paesi che poi alzano barriere sempre più alte per respingere e ‘tenere fuori’ migliaia di esseri umani ai quali non resta che la fuga per trovare scampo e un futuro migliore”.

venerdì 5 luglio 2013

Profughi: l’Italia conferma alla Libia il ruolo di “gendarme”

di Emilio Drudi

“Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina per noi è una priorità”. Lo ha dichiarato il premier Enrico Letta al termine dell’incontro a Roma con il primo ministro libico, Ali Zeidan Mohammed, nell’ambito delle trattative per un nuovo trattato con Tripoli. Proprio mentre papa Francesco, con il suo viaggio di lunedì a Lampedusa, lancia implicitamente un monito all’Italia e all’Europa a rivedere la loro politica nei confronti del Sud del mondo, a cominciare dalle barriere sempre più alte erette nei confronti di profughi e migranti, il governo appare orientato a confermare la scelta di fare della Libia il “gendarme del Mediterraneo”. Nonostante il bilancio disastroso degli ultimi anni, segnati da centinaia di disperati scomparsi in mare durante la traversata e da migliaia di perseguitati rinchiusi a tempo indefinito nelle carceri e nei centri di detenzione libici, autentici lager dove la violenza è pratica quotidiana e dove tutti i diritti, anche i più elementari, sono annullati.
Quello che conta, evidentemente, è solo impedire che i “clandestini” arrivino in Italia. Letta non sembra nemmeno sfiorato dall’idea che i “clandestini” che sbarcano sulle nostre coste dall’Africa, nella stragrande maggioranza sono in realtà richiedenti asilo che hanno diritto ad essere accolti come rifugiati. Giovani in fuga da guerre, persecuzioni e soprusi non possono essere respinti a priori, prima ancora di giungere in vista di Lampedusa o della Sicilia: occorre quanto meno esaminare le ragioni che li hanno portati ad abbandonare il loro paese e a chiedere aiuto, affrontando un viaggio pieno di rischi, che spesso dura mesi e mesi e che per molti si conclude in fondo al Mediterraneo, in una fossa comune nel deserto, in una tomba dimenticata, in un lager.
A imporre una politica di accoglienza più “aperta” all’Italia sono le convenzioni internazionali che ha firmato e, prima ancora, la stessa Costituzione Repubblicana. Ma si continua a fingere di ignorare che chiunque fugga da un regime che lo perseguita non può che essere un “migrante clandestino”, costretto a sottrarsi alle normali procedure dell’immigrazione (quote e flussi guidati, permessi, controlli e visti delle ambasciate…) proprio perché sta scappando per salvarsi la vita o quanto meno per sottrarsi al carcere. E’ la stessa ipocrisia posta alla base dei due precedenti accordi anti immigrazione tra Italia e Libia: quello voluto dal ministro leghista Roberto Maroni e firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2009, costato all’Italia una pesante condanna della Corte Europea, per la pratica dei respingimenti in mare; e quello fotocopia siglato dal ministro degli interni Anna Maria Cancellieri il 4 aprile 2012, con il governo Monti. Letta, per parte sua, non sembra intenzionato a cambiare alcunché. Anzi, l’Italia intende intensificare il suo supporto e la sua collaborazione con Tripoli, garantendo – ha specificato il premier – un programma di “attività di addestramento italiano che riguarderà 5 mila unità tra le forze libiche”. La conferma è arrivata da Alì Zeidan: “In Libia – ha dichiarato – faremo tutti gli sforzi per arginare il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Abbiamo concordato che questa cooperazione comprenda il rafforzamento dei confini meridionali e marittimi con le infrastrutture necessarie”.
Il presidente libico non ha specificato quali siano queste “infrastrutture”, ma è facile intuire più pattugliamenti in mare e sulle coste e magari una barriera che blindi la frontiera del deserto, lasciando fuori i disperati che arrivano in cerca di asilo in Europa. Anzi, Zeidan ha allargato il suo discorso proprio all’Europa, ribadendo che il suo governo “darà piena collaborazione all’Italia e alla Ue per affrontare e arginare l’immigrazione”, ma chiedendo “contributi anche sul piano finanziario” a tutti gli Stati del Nord del Mediterraneo”. Esattamente come aveva fatto Gheddafi.
Da parte delle forze politiche non ci sono state reazioni. Non c’era da aspettarsele. Il Pdl e la Lega sono da sempre per la linea dura contro tutti gli immigrati. Il Pd ha votato a favore sia dell’accordo Berlusconi-Maroni che di quello Monti-Cancellieri, soffocando le voci contrarie che si erano levate nel gruppo parlamentare alla Camera: a maggior ragione tace ora che la trattativa è condotta da Letta. Il movimento5 Stelle non ha mai mostrato di volersi far carico di questo problema. Al contrario: tra le sue fila si sono levate voci tutt’altro che amichevoli nei confronti dei migranti. Resta Sel, ma finora non si è sentito. Con l’eccezione della presidente della Camera Laura Boldrini la quale, in una significativa intervista rilasciata alla Stampa alla vigilia del vertice Italia-Libia, ha dichiarato: “La visita del papa a Lampedusa è un messaggio epocale, che restituisce dignità alle migliaia di vittime della guerra a bassa intensità che da quindici anni si combatte nel Mediterraneo. Ma è anche un monito contro le campagne ideologiche che disgregano la coesione sociale, denunciando una invasione inesistente, e diffondo la paura chiamando gli immigrati ‘clandestini’ invece che rifugiati”.
Le uniche voci contrarie sono così quelle delle organizzazioni umanitarie. A cominciare da Amnesty International. L’associazione ha già contestato duramente le intese precedenti, presentando anche una petizione a livello europeo che, forte di decine di migliaia di firme, ha sollecitato al ministro Cancellieri la revoca del “patto” 2012. Senza fortuna. Ora è stata di nuovo la prima a sollevare il caso, chiedendo non solo di non sottoscrivere accordi sull’immigrazione ma di bloccare anche i trattati di sostegno e cooperazione economica fino a che non sarà garantito in Libia il rispetto dei diritti umani e, in particolare, dei profughi e dei migranti, sulla base della convenzione di Ginevra del 1951. I motivi della protesta, inviati a Letta il giorno stesso del suo incontro con Alì Zeidan, sono riassunti nel documento che, presentato il 20 giugno in occasione della “Giornata mondiale del Rifugiato”, è il frutto di una visita effettuata in Libia da rappresentanti di Amnesty tra aprile e maggio. Vi si denuncia, in particolare, “la detenzione a tempo indeterminato di rifugiati, richiedenti asilo e migranti (compresi bambini) in prigioni, definite centri di trattenimento”, dove le condizioni di vita sono pesantissime.
Al momento della visita – specifica Amnesty – nel paese erano operativi 17 “centri di trattenimento” gestiti dal ministero dell’interno, con almeno 5 mila prigionieri, senza contare però i campi affidati alle milizie armate. Anzi, secondo l’agenzia Habeshia, le milizie sono in realtà “padrone” anche di diversi centri formalmente amministrati dal ministero. Dei 17 centri “ufficiali”, Amnesty ne ha potuti visitare sette. Il rapporto è eloquente: “In tre di essi c’erano anche minori non accompagnati, alcuni di 10 anni, detenuti da mesi. A Sabha, dove a maggio si trovavano 1.300 persone, i detenuti erano ammassati in celle sporche e sovraffollate. La prigione risultava priva di un servizio di fognature, mentre i corridoi erano pieni di immondizie. Circa 80 prigionieri, presumibilmente affetti da scabbia, erano sottoposti a ‘trattamento’ in un cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione”. E ancora: “Sono stati documentati numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali pestaggi con cavi elettrici o tubi dell’acqua. In almeno due centri è stato riferito dell’uso di munizioni letali per controllare le proteste. Un uomo che era stato raggiunto da un proiettile a un piede, è stato legato a un letto e poi colpito con il calcio del fucile: per quattro mesi non ha potuto camminare”.
Di fronte a denunce di questo genere, vari esponenti del governo e della maggioranza hanno spesso ribattuto che comunque “l’immigrazione va gestita” e non può essere una questione abbandonata a se stessa o allo “spontaneismo”. “Ma gestire il problema – protesta don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia – non significa delegare tutto alla Libia come si sta facendo da anni, senza pretendere la garanzia del rispetto dei diritti umani più elementari per migliaia di persone, tenute prigioniere in autentici lager e consegnate di fatto all’arbitrio della polizia di Tripoli o, peggio, delle milizie ausiliarie armate che vigilano sui centri di detenzione. Questa delega totale equivale a rendersi complici dei crimini commessi ogni giorno contro quei disperati, come documentano ormai decine e decine di denunce. Se si volesse davvero gestire il problema, basterebbe organizzare vie di ingresso legale in Italia e in Europa, sotto il controllo della Ue. Penso, ad esempio, all’opportunità di stabilire in Libia, magari presso le ambasciate, i consolati o altre sedi europee e d’intesa con l’Onu e la Ue, le commissioni incaricate di esaminare le richieste di asilo. Garantendo nel frattempo condizioni di vita dignitose e pretendendo da Tripoli la libertà di ispezionare in ogni momento e senza preavviso i centri di accoglienza”.

Come dire: va cambiata radicalmente tutta la politica di accoglienza. E’ difficile pensare che il governo dia risposte in questo senso. Tutto lascia credere, piuttosto, che sul contenuto preciso dei nuovi accordi finirà per attivarsi un processo di “silenziamento” simile a quello che ha coperto di fatto il trattato sull’immigrazione del 2012. Un “silenziamento” che riguarda anche l’inferno delle carceri e dei campi di accoglienza sparsi in tutta la Libia, una notizia scomoda che sulla stampa trova molto meno spazio, ad esempio, dei resoconti “buonisti” sui salvataggi e sul recupero in mare dei barconi carichi di migranti da parte della nostra Guardia Costiera. Anche se si tratta della sofferenza e della vita stessa di migliaia di uomini e donne. Ed è sintomatico, forse, che questo nuovo accordo arrivi proprio in questi giorni. Magari è solo un caso, ma nei mesi scorsi Israele ha completato la lunghissima, impenetrabile barriera di filo spinato sul confine egiziano, nel deserto del Sinai. Non solo: ora sta prendendo provvedimenti per espellere quasi tutti i 60 mila rifugiati, in massima parte sudanesi ed eritrei, arrivati negli anni scorsi. Si è chiusa definitivamente, insomma, la via del Sinai, percorsa da migliaia di profughi fuggiti da Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan. Così, sbarrata la “porta” di Israele, l’unica strada rimasta è quella del nostro Mediterraneo. Nasce il sospetto, allora, che possa essere proprio questo il motivo guida alla base del nuovo accordo tra Italia e Libia. E quella dichiarazione lapidaria del premier Letta – “Il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina è per noi una priorità” – potrebbe essere la spia che si sta puntando sulla stessa linea dura adottata da Israele. Solo che Tel Aviv ha almeno il coraggio di farsi da sola il “lavoro sporco”. Roma lo delega a Tripoli.

Papa Francesco a Lampedusa: monito per un nuovo rapporto con il Sud del mondo


di Emilio Drudi
 “Andare verso le periferie”. Lo ha detto papa Francesco all’indomani della sua elezione. Un programma esplicito di umiltà e solidarietà. Di più: una rivoluzione che pone al centro la necessità di guardare ai problemi con gli occhi degli ultimi. Gli ultimi lasciati indietro dalla nostra società, dove i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e che non si fa scrupolo di abbandonare al loro destino i più deboli e i più sfortunati. E gli ultimi del Sud del mondo, la gente di paesi troppo spesso sfruttati, tenuti in soggezione, privati di fatto della propria sovranità nazionale ed economica, per alimentare la prosperità e il modello di vita del Nord del mondo. Quei milioni di uomini e donne che lo stesso papa Francesco, non a caso latino-americano, ha definito “fratelli in stato di estremo bisogno”. Ora, con il suo primo viaggio ufficiale fuori dal Vaticano, in Italia, il pontefice sembra voler concretizzare il suo messaggio: proprio questo può significare, infatti, la decisione di andare, lunedì prossimo, a Lampedusa. La quale, per volontà del sindaco Giusi Nicolini, lo accoglierà senza feste, operazioni di make-up e “belletti”, per mostrarsi così com’è, nella vita di tutti i giorni. Come quando accoglie i migranti che guardano alle sue sponde dall’Africa.
Lampedusa è la porta dell’Europa per centinaia, migliaia di giovani in fuga da fame, carestia, guerre, persecuzioni politiche, razziali, religiose, xenofobe. Ne stanno arrivando numerosi anche in queste ore: sanno che migliaia di loro coetanei, altrettanto pieni di speranza, sono stati inghiottiti dal mare durante la traversata, ma la voglia di libertà e di futuro che li anima è più forte della paura. Ragazzi che hanno il diritto di essere accolti come rifugiati ed aiutati a costruirsi una vita migliore, ma che troppe volte vengono scacciati con respingimenti indiscriminati o soffocati nell’indifferenza. Mentre l’Europa tende a rinchiudersi sempre di più dentro i propri confini. Come in una fortezza. O in un ghetto di lusso, al cui interno però cominciano ad aprirsi profonde crepe e contraddizioni. Ed egoismi, ingiustizie palesi. In contrasto con le sue stesse costituzioni e con i principi di rispetto dell’uomo e dei suoi diritti ai quali dice di ispirarsi.
Diventa un messaggio pesante, allora, il viaggio che Jorge Mario Bergoglio farà lunedì in questa piccolissima isola italiana nel cuore del Mediterraneo, più vicina all’Africa che alla Sicilia. Può essere interpretato come la richiesta di cambiare radicalmente il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo. Ed è rivolto all’intera Europa, all’Occidente “sviluppato” e ricco. L’Italia per prima non può chiamarsene fuori. Anzi, alla luce delle scelte fatte negli ultimi anni nei confronti dei migranti, può considerarsi uno dei paesi che più dovrebbero riflettere su questa visita inattesa, che ha spiazzato la Curia stessa ed ha costretto qualche giorno fa il vicepremier e ministro degli interni Angelino Alfano a precipitarsi a Lampedusa, per assicurarsi che nel centro di prima accoglienza almeno una volta tanto ci siano condizioni di vita dignitose per i profughi, senza il sovraffollamento, i disagi, le proteste, le sofferenze, l’isolamento che hanno raccontato le cronache negli ultimi anni. Perché l’Italia – a parte il “caso Lampedusa”, non di rado creato ad arte per giustificare certi provvedimenti capestro di fronte all’opinione pubblica internazionale – ha tantissime cose da farsi perdonare nei rapporti con i rifugiati e i migranti. Per almeno due motivi: la politica del respingimento e l’abbandono nel nulla dei disperati che riescono a “entrare”; la complicità di fatto con le atrocità alle quali gli immigrati “respinti” sono sottoposti nelle carceri e nei centri di detenzione libici.
Alla politica del respingimento sono legati centinaia di morti in mare. Uomini e donne che non ce l’hanno fatta ad attraversare il canale di Sicilia su una “carretta”. Inclusi i 63 eritrei, somali, etiopi, sudanesi, tra cui due bambini, abbandonati alla deriva su un gommone a morire di fame e di sete, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 2011: la tragedia che è costata all’Italia la pesante condanna del Consiglio d’Europa, ma per la quale ancora nessuno ha pagato. Accadeva quando era la nostra polizia di frontiera a costringere quei fuggiaschi a invertire la rotta o a consegnarli alla Libia. Accade ancora oggi che l’Italia ha eletto la Libia a “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione, fornendole motovedette, assistenza tecnica, consulenza e mezzi per i pattugliamenti in mare e sulla costa, sussidi per quelli che vengono ipocritamente chiamati centri di accoglienza ma sono in realtà autentici lager. L’unica differenza è che ora il “lavoro sporco” lo fanno i libici.
Ed ecco il secondo punto. L’accordo sull’immigrazione, firmato da Berlusconi e rinnovato da Monti, abbandona di fatto rifugiati e migranti in balia della polizia e delle milizie di Tripoli. Senza tener conto che la Libia non ha mai riconosciuto la convenzione del 1951 sui diritti dei profughi, senza pretendere alcuna garanzia sul loro trattamento e, anzi, senza nemmeno preoccuparsi di verificare le condizioni di vita a cui vanno incontro dopo essere stati intercettati, arrestati, condotti nei centri di detenzione. Cosa accade in realtà in quei lager lo raccontano le continue denunce di varie organizzazioni umanitarie: sovraffollamento invivibile, servizi inesistenti, mancanza di assistenza medica e farmaci anche per i malati e i feriti più gravi, insufficienza di cibo e persino di acqua da bere. E poi, la soggezione totale ai carcerieri, con continui soprusi, maltrattamenti, pestaggi al minimo cenno di protesta. Persino, talvolta, torture gratuite, per puro sadismo. C’è un voluminoso dossier presentato dall’agenzia Habeshia, su tutto questo, alle commissioni europee per gli affari interni e l’assistenza. Ma l’Italia continua a tacere. Ed è un silenzio assordante. Che, di fatto, la rende complice di questi crimini. Di una violenza infinita alla quale si aggiunge, in Italia, una indifferenza colpevole delle istituzioni per la sorte degli stranieri accolti come profughi ma consegnati a un’odissea di sofferenza anziché a un percorso di accoglienza e di integrazione. Sono migliaia quelli che vengono abbandonati a se stessi, nonostante i milioni di euro, 22 negli ultimi tre anni, stanziati per l’Italia dal Fondo Europeo per i rifugiati: “non persone” con in tasca il nulla osta per la richiesta di asilo, ma privi di tutto. Senza soldi, senza alloggio, senza possibilità di lavoro, sono destinati a finire nelle decine di baraccopoli di “invisibili” sorte nelle periferie, sfruttati come manodopera in nero ed esposti a mille rischi.

Non c’è da aspettarsi che tutto questo abbia un’eco esplicita lunedì, nella “giornata di Lampedusa”. Ma la scelta di papa Francesco di iniziare i suoi viaggi “nel mondo”, fuori dal Vaticano, proprio da qui, sembra lanciare un monito evidente: sono in tanti a pensare che urli all’Italia e all’Europa, all’Occidente, che non possono continuare a chiudersi in se stessi e a gettare le sofferenze di migliaia, milioni di “fratelli in stato di estremo bisogno” al di là del muro.

Che dirà il Papa a Lampedusa?

Che dirà il Papa a Lampedusa? Chiediamolo a Don Zerai, il prete che si trova sulla “frontiera” più calda d’Europa

By Paolo Zeriali   /   4 luglio 2013  /      

Lampedusa è tornata al centro dell’attenzione mediatica. Sbarchi a ripetizione negli ultimi giorni, con il rischio incombente di nuove tragedie. E poi… una visita eccezionale ed inattesa, quella di Papa Francesco che tra pochi giorni approderà allo stesso molo dove giungono le barche dei disperati. Il tutto mentre l’Italia ha la prima ministra di origine africana, che ha aperto con forza il dibattito sullo “ius soli” e mentre il Mediterraneo in fiamme rischia di innescare nuove colossali ondate di profughi.
Sembra la “tempesta perfetta” ed allora noi abbiamo deciso di contattare un uomo che in questo scenario gioca un ruolo da protagonista: don Mussie Zerai, prete cattolico eritreo che vive in Europa e ha dato vita ad Habeshia, agenzia per la cooperazione e lo sviluppo che ha però il preciso compito di aiutare rifugiati e richiedenti asilo in Italia.


Don Zerai è famoso soprattutto perché è al suo telefonino che chiamano gli occupanti dei barconi in difficoltà nel Mediterraneo. E’ lui che poi lancia l’allarme, avvisa le autorità italiane e consente i salvataggi.
Don Zerai, lei è naturalmente emozionato per la visita del Papa a Lampedusa. Quale messaggio crede che lancerà il Pontefice?
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Sì, sono molto emozionato, perché è la prima volta che un Pontefice va in questo luogo simbolo dove molti profughi e migranti arrivano carichi delle loro sofferenze e speranze, cosi come molti altri che non ce l’hanno fatta ad arrivare ed hanno perso la vita. La visita del Papa è importante anche per gli abitanti dell’isola, che abbiano il massimo riconoscimento per il valore di solidarieta che hanno praticato in tutti questi anni. Sono certo che il Papa chiamerà tutta l’Europa alle sue responsabilità di fronte a questi bisogni di protezione di migliaia di profughi, di rispondere con strumenti adeguati perché nessuno sia costretto ad arrivare in queste condizioni disperate.
Gli sbarchi sono ripresi alla grande. Dobbiamo aspettarci che continuino a questo ritmo per tutta l’estate?
Il rischio c’è. Finché l’Europa non metterà in campo vie alternative di ingresso legale per richiedenti asilo politico, ci saranno gli sbarchi.
L’Italia sta vivendo una grave crisi. Oltre 3 milioni di persone (tra cui molti stranieri) sono disoccupate e in autunno si teme un ulteriore peggioramento per il mercato del lavoro. Lei comprende quanti guardano con preoccupazione all’arrivo in massa di altra gente qui o pensa che gli italiani siano razzisti?
Conosco la situazione economica italiana, ma chi arriva spesso fugge da realta molto peggiori, guerre e dittature ect… Il 98% delle persone sbarcate sono richiedenti asilo, l’Italia non è obbligata a tenersi tutti i rifugiati in casa, potrebbe fare come fa Malta, chiedere agli altri Stati di condividere il peso. Gli italiani non tutti sono razzisti, ma in Italia c’è il razzismo usato come arma politica per il tornaconto elettorale, che rischia di imbarbarire la società civile di questo Paese. Perché la soluzione del problema non è la guerra tra i poveri, ma una politica estera, economica e di cooperazione, che cerca di risolvere il problema alla radice nei Paesi di origine dei disperati che arrivano.
Che cosa pensa dello “ius soli”? Se viene applicato in maniera integrale, non c’è il rischio che i trafficanti di uomini riempiano le barche di donne incinte, che in alto mare si consumino tragedie, come aborti o decessi delle stesse madri senza alcuna assistenza?
Si dà lo ius soli a figli di migranti residenti in Italia, non a quelli nati sul barcone. Prima di ottenere la residenza, un migrante deve passare il controllo delle autorità competenti, una volta che le autorità italiane hanno dato l’ok per la residenza, quella persona ha dei diritti e doveri in questo Paese. Ecco, i figli nati da persone residenti in Italia è giusto che abbiano la cittadinanza.
E non c’è il rischio che gli sfruttatori impongano con lo stupro delle gravidanze forzate alle prostitute per consentire loro di rimanere in Italia?
Quanti sono in percentuale ? Poi esiste la Magistratura per indagare se ci sono dei abusi di questo genere.
D’altro lato, è possibile che lo “ius soli” riduca il numero degli aborti, visto che oggi sono soprattutto le immigrate a ricorrere all’interruzione di gravidanza?
Se uno il figlio non lo desidera non sara certo il ius soli a fermarlo. Se qualche vita umana si salva con questo, non sarebbe tanto male.
Non crede che la cittadinanza dovrebbe essere accompagnata da un minimo di conoscenza dei diritti e dei doveri?
Non credo che lei che mi sta facendo la domanda appena nato aveva coscienza della cittadinanza che stava assumendo in quel momento. Lo ha imparato crescendo, cosi anche i figli dei migranti nati sul suolo italiano che crescono qui lo imparano come tutti gli altri bambini.
Che cosa sta succedendo in Sinai? I mass media italiani non ne parlano… So che gli eritrei in fuga sono stati torturati. Da chi?
Nel Sinai è in atto da anni ormai un fiorente traffico di esseri umani gestito da beduini in collaborazione con elementi della criminalita organizzata e gruppi armati che si finanziano con i traffici di ogni genere, tra cui anche quello di esseri umani. Questi trafficanti che tengono in ostaggio i profughi eritrei li torturano per costringerli a chiamare amici e parenti a farsi dare soldi del riscatto.
Come giudica il comportamento delle autorità egiziane rispetto ai rifugiati africani?
L’Egitto ai tempi di Mubaraq ha negato l’esistenza di queste persone in ostaggio, quindi si è perso molto tempo prezioso, poi arrivata la “primavera araba” che ha cambiato tutto lo scenario, quindi ora non abbiamo un governo che sia in grado di fronteggiare questi problemi.
E Israele? C’è razzismo in Israele?
La politica israeliana nei confronti dei profughi provenienti attraverso il Sinai non è positiva, sono stati criminalizzati, li chiamano “infiltrati”, non riconoscendo a loro nessuna protezione, anzi vengono tenuti in centri di detenzione a tempo indeterminate. In Israele c’è il razzismo come c’è qui in Europa, spesso anche là è fomentato da politici o gruppi per interessi particolari.
Perché si fugge dall’Eritrea?
Molti fuggono dall’Eritrea per la situazione di totale assenza di libertà. Come ben descrive l’utimo rapporto dell’Onu, l’Eritrea è la Nord Corea dell’Africa sul piano dei diritti umani e civili. Il servizio militare si è trasformato in una schiavitù legalizzata, molti giovani non sono disposti a dare 15-20 anni della loro vita al servizio del regime che tiene con pugno duro tutto il Paese.
Che cosa succede adesso per gli stranieri in Libia? Si stava meglio ai tempi di Gheddafi?
In Libia per i profughi sub-sahariani la vita è molto dura, spesso finiscono nei centri di detenzione dove viene calpestata la loro dignità di esseri umani. Questo è anche frutto dell’accordo Italia-Libia, di cui in questi giorni si sta parlando anche con il primo ministro libico in visita in Italia. Non si stava meglio prima, ma almeno c’era un interlocutore, ora c’è troppa confusione, le forme di discriminazione razziale o religiose si sono accentuate rispetto ai tempi di Gheddafi.
Perché il mondo non ha parlato della strage di africani da parte dei miliziani anti-Gheddafi? Almeno da Obama ci si poteva aspettare una presa di posizione…
Molti crimini commessi dalle milizie sono stati taciuti, tra cui il massacro di molti africani. Non so perché nessuno ha parlato, so che io sono stato tra quelli che hanno denunciato, consegnando un CD fotografico dei massacri al Commissario Europeo per diritti umani nel 2011.
Come prete cattolico, cosa pensa del dilagare del fondamentalismo islamico? A parte le motivazioni economiche, la denuncia di precedenti regimi corrotti filo-occidentali, non c’è forse un disegno fondamentalista religioso?
Come sempre, la religione viene strumentalizzata per fini politici o economici e di potere, quello che sta succedendo anche oggi in molti Paesi tra cui il Nord Africa. Penso sia importante che la comunità internazionale offra più spazio ai moderati, supporti loro nelle trattative sul piano politico ed economico senza intromettersi a gamba tesa, perché finisce per favorire il fondamentalismo.
La Turchia è in rivolta, l’Egitto è sull’orlo della guerra civile, in Siria la guerra civile c’è già. Dobbiamo attenderci nuove masse di rifugiati in fuga verso l’Europa? Saranno milioni?
Non credo all’esodo di cui si parla. Anche durante il 2011 si temeva l’arrivo di milioni, invece il più grosso numero dei profughi è stato nei Paesi limitrofi. Ma è molto importante la rapidita con la quale i conflitti vengono risolti, se si protraggono nel tempo è ovvio che la gente è costretta a cercare altre soluzioni. Ecco, l’impegno della Comunità internazionale deve essere quello di chiudere con rapidità i conflitti attuali e prevenire che non nascano altri.
L’Africa ha ricevuto tanti aiuti negli ultimi decenni. Perché non è riuscita a decollare economicamente? Non ci saranno delle colpe anche da parte degli africani? Perché la Cina ha saputo diventare una potenza (senza aiuti) e l’Africa no (con gli aiuti)?
Gli aiuti dati all’Africa nei deceni sono spesso falsi aiuti, non per rendere autonome le popolazioni ma per renderle più dipendenti da questi aiuti. La colpa dei leader africani nei deceni passati è gravissima, avidita di denaro e di potere ha fatto dimenticare il bene comune per il loro popolo. L’Occidente invece di sostenere gli Stati più virtuosi ha preferito corrompere i più propensi alla corruzione per fare affari con dei veri mostri al potere.
Non c’è forse una carenza di autostima da parte degli africani, che cercano sempre qualche modello “bianco” da imitare, cui ispirarsi?
Sicuramente ci sarà questo che lei dice, perché nei Paesi che sono stati occupati per centinaia di anni dai “bianchi” è normale che le generazioni arrivate dopo che hanno conosciuto solo quello come modello guardino a quel modello. I cinesi hanno dovuto chiudersi per più di 50 anni in se stessi per elaborare un loro modello di sviluppo, molto copiato dall’Occidente ma adattato alla loro realta. Si vedra in futuro se tutto questo è riuscito bene o meno. Anche in Africa qualcosa si sta muovendo con molta fatica perché sono 56 nazioni diverse, con mentalità e cultura diverse una dall’altro, ci vorrà molto più tempo ancora.
Le politiche di rimpatrio assistito falliscono, a mio avviso, perché non tengono conto di un fattore psicologico. A parità di soldi, l’africano si sente comunque più ricco se vive in Europa o in America. Sente quasi una “promozione sociale” il fatto di vivere circondato da bianchi. Io ho tratto spesso questa impressione. E’ del tutto sbagliata?
Questa sua impressione potrebbe essere una senzazione iniziale del migrante o profugo africano, ma dopo pochi anni cambia del tutto. Il rimpatrio assistito fallisce perché chi torna vuole tornare con la vita cambiata, cioè l’africano vuole tornare con soldi per fare qualche attività in propria, fare casa, sollevare la propria famiglia dalla condizione di indigenza, come gli italiani che sono emigrati negli Usa, in Canada o Australia e nel Nord Europa, cosi molti migranti africani oggi sorreggono l’econimia del loro Paese con le rimesse, altrimenti milioni di persone morirebbero di fame o ci sarebbero molte più ondate di migranti che arrivano.
In Europa e negli Stati Uniti molti accusano gli africani di fare troppi figli e dicono che questa è la causa del mancato sviluppo. Come prete e come eritreo, come replica?
I Figli sono un dono di Dio e la ricchezza dell’Africa, se avessimo ascoltato gli europei oggi l’Africa sarebbe un Continente solo per i vecchi, come sta diventando l’Europa. Ovvio, bisogna dare formazione alle coppie per fare figli essendo in grado di garantire una vita dignitosa, ma questo non deve tradursi nel fatto che chi è povero non deve fare figli. In Africa non c’è il benessere che c’è in Europa per cui le persone vivono fino a 90 anni, spesso l’età media è di 45 anni, se non si fanno figli presto, il Continente resta vuoto, ma man mano che arriverà il benessere calera anche il numero dei figli, come è successo in Europa.
Pensa di riuscire a vedere nei prossimi decenni, nell’arco della sua vita, un Mediterraneo pacificato e felice, dove nessuno debba salire su un barcone per fuggire?
Questo lo spero, ci vuole lo sforzo di tutti perché questo si realizzi, questo prosuppone meno egoismi più solidarietà e dialogo tra le diverse culture del Mediterraneo e non solo, ci deve essere una sinergia per il bene comune tra il Nord e il Sud del mondo, altrimenti la Pace o la Felicità di cui parliamo non ci sarà.
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lunedì 1 luglio 2013

Profughi: violenze alle frontiere e violenze in Europa



di Emilio Drudi


Massacrati di botte sulla linea di confine. A Melilla, enclave spagnola e dunque dell’Unione Europea nel Nord Africa, in Marocco. Un pestaggio sistematico, brutale e assolutamente immotivato, contro un centinaio di profughi e migranti. Da parte della polizia. Accade spesso alle frontiere. E non solo alle frontiere. Stavolta, però, questo abuso inumano è stato documentato, trascinando sotto accusa la Guardia Civil spagnola e le milizie ausiliare marocchine.

Era l’11 marzo di quest’anno. Circa cento giovani fuggiti da vari paesi dell’Africa occidentale e sub sahariana (Mali, Gabon, Camerun, Burkina Faso, Guinea, Ciad e Senegal) tentano di attraversare la munitissima border line tra il Marocco e Melilla. Vengono intercettati da pattuglie della Guardia Civil e della polizia marocchina. Non hanno scampo. Pensano che li aspetti un centro di internamento e magari un foglio di via per il rimpatrio forzato. Va molto peggio: comincia una specie di mattanza. Il bilancio è terribile: un giovane muore dopo qualche giorno, decine di altri risultano feriti gravemente. Respinti in Marocco, terrorizzati, vengono raggiunti in un accampamento di fortuna da un gruppo di volontari dell’associazione umanitaria Alecma. Tra i soccorritori c’è anche la regista veronese Sara Creta la quale, insieme a un altro cineoperatore, Sylvin Mbarga, camerunense, documenta le pesantissime conseguenze della violenza e raccoglie le testimonianze delle vittime, sia scritte che registrate in audio-video. “Hanno usato pietre e mazze di ferro per colpirci”, denunciano molti. Uno dei feriti, Clement, profugo del Camerun, muore sotto gli occhi di Sara Creta, prima che arrivi un’ambulanza per trasportarlo in un ospedale: ha lesioni devastanti alla testa, un braccio e una gamba fratturati. Tutto il suo misero guardaroba si riduce alla maglietta da calcio con il numero 9 che ha indosso. La sua vicenda e quella dei suoi compagni diventa un documentario agghiacciante: intitolato “N. 9”, come la t-shirt di Clement, il film, uscito in questi giorni, sta destando una sensazione enorme ed ha dato vita in tutta Europa alla campagna “Stop alla violenza alle frontiere”. Ma non soltanto alle frontiere, perché la violenza è ormai quasi la norma nel rapporto delle istituzioni con disperati come Clement e gli altri.

In Libia, promossa dall’Europa al ruolo di “gendarme del Mediterraneo” contro l’emigrazione clandestina, torture, pestaggi e soprusi sono la vita quotidiana dei profughi e dei migranti rinchiusi in tutti le carceri e nei campi di detenzione, autentici lager che l’ipocrisia europea si ostina a chiamare centri di accoglienza. E’ eloquente il dossier presentato alle commissioni affari sociali e interni della Ue da parte di don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, circa un anno fa e via via aggiornato con diversi rapporti integrativi. L’ultimo è di queste settimane, corredato anche da una serie di fotografie “rubate” con un cellulare e fatte uscire clandestinamente dal campo di Burshada. Ma l’indifferenza della comunità internazionale non ne è stata scalfita. Nessuna reazione, in particolare, dall’Italia, nonostante abbia stipulato con il governo Berlusconi e rinnovato con Monti un accordo bilaterale che assegna a Tripoli il compito di blindare con ogni mezzo il Canale di Sicilia, bloccando i profughi in mare mentre tentano di raggiungere Lampedusa o la penisola, presidiando la costa per impedire gli imbarchi o arrestando in massa quei disperati nelle città o appena hanno varcato, in pieno Sahara, il confine libico. Non a caso gli oltre venti campi di detenzione sparsi nel paese sono strapieni, già di per sé invivibili per il sovraffollamento e la mancanza di servizi, di assistenza, cibo e persino acqua potabile sufficiente, senza contare i continui maltrattamenti, gli abusi, le percosse, le violenze a cui si abbandonano i militari e i miliziani di guardia.

“Un vero inferno”, denunciano tutti i testimoni delle organizzazioni umanitarie. Un inferno destinato probabilmente ad inghiottire ancora migliaia di vittime. Tutto lascia prevedere, infatti, che in Libia come nell’intera fascia dell’Africa settentrionale il flusso di richiedenti asilo e migranti, lungi dal diminuire, continuerà ad aumentare. Una delle vie di fuga dei profughi, specie dal Sudan e dal Corno d’Africa, quella israeliana attraverso il Sinai, si è chiusa. Tel Aviv ha terminato di costruire una impenetrabile barriera di filo spinato lungo il confine egiziano, eliminando di fatto ogni possibilità di ingresso e completando così la politica dei respingimenti nel deserto, prima della frontiera. Contemporaneamente, il governo sta predisponendo l’espulsione di gran parte dei 60 mila rifugiati, soprattutto sudanesi ed eritrei, arrivati negli ultimi anni. E’ lecito attendersi dunque che, sbarrato il Sinai, anche il flusso che passava di lì si riverserà sull’Africa settentrionale e, dunque, sul nostro Mediterraneo. Forse anche per questo corre voce che il trattato tra Italia e Libia verrà riesaminato per arrivare a forme ancora più restrittive. Mentre nessuno sembra ricordarsi e tener conto di violenze tremende come quelle denunciate a Melilla o nelle carceri di Tripoli.

Ci sono, del resto, anche altre forme di violenza. Spesso direttamente in Europa, frutto di indifferenza, burocrazia, insensibilità, norme e procedure assurde. Magari hanno meno eco, tra la gente e sui giornali, delle torture e dei maltrattamenti feroci che di tanto in tanto riescono a portare alla luce le denunce del Commissariato Onu per i rifugiati e delle organizzazioni umanitarie. Tuttavia finiscono anch’esse per “uccidere dentro”, a poco a poco, centinaia, migliaia di giovani che hanno lanciato il loro grido d’aiuto all’Occidente, in nome dei diritti umani e delle convezioni internazionali. E’ quanto emerge da una nuova protesta di don Mussie Zerai, questa volta a proposito dei Cara, i Centri di accoglienza per i richiedenti asilo. In particolare, quello di Caltanissetta. Il caso è stato portato direttamente all’attenzione del ministro dell’interno Angelino Alfano.

In base alle procedure, dopo aver ottenuto dalla Commissione territoriale lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, i profughi dovrebbero essere trasferiti nei circuiti dello Sprar, il Servizio per la protezione dei richiedenti asilo, o in altri centri simili, per aiutarne il processo di integrazione in Italia, fino al pieno inserimento nella società. Secondo le testimonianze raccolte direttamente da don Zerai, invece, a Caltanissetta starebbe accadendo esattamente il contrario: “Dopo il pronunciamento della Commissione – racconta il sacerdote eritreo – i migranti vengono messi fuori dal Centro di accoglienza senza aver nemmeno ricevuto tutti i documenti previsti. Per averli devono tornare dopo 40 giorni. Ma nessuno si preoccupa di come, privi di qualsiasi risorsa, senza un alloggio, senza soldi, senza lavoro, potranno vivere in quei 40 giorni. Ovvero, vengono di fatto consegnati ad ogni genere di sfruttamento o anche peggio. Non solo. Per il rilascio del primo permesso e del biglietto per il viaggio verso la località indicata per il soggiorno, è richiesto il pagamento di 127 euro. Può sembrare una cifra non elevata. Ma bisogna tener conto che queste persone sono state letteralmente ‘pescate in mare’, senza un solo euro in tasca. Dal giorno del loro arrivo in Italia sono stati ospiti di centri di accoglienza e, dunque, non hanno avuto alcuna possibilità di lavorare e di mettere insieme qualche soldo per le necessità più urgenti. Ecco perché non hanno quei 127 euro. E’ essenziale, allora, che il rilascio del primo permesso e del documento di viaggio sia a carico dello Stato. Come avviene del resto in tutta Europa. Altrimenti, una volta usciti dal Cara, questa gente si ritroverà allo sbando, per volontà dello Stato stesso. Con in tasca il parere positivo della Commissione territoriale sulla loro domanda di asilo, ma senza denaro, senza cibo, senza alloggio. Costretti a mendicare un piatto di minestra e a dormire dove capita: per strada, in un portone, in una delle infinite baraccopoli di ‘invisibili’ e ‘non persone’ sparse in tutta Italia. Braccia da sfruttare in nero e rischi infiniti di ogni genere”.

E’ difficile non definire anche questa una violenza. Sia pure con tutte le “procedure” legali formalmente a posto. E, ovviamente, con effetti immediati sulle persone e un impatto “esterno” molto minori del massacro di Melilla o delle torture libiche. Si potrebbe obiettare che, in tempi di crisi e di ristrettezze come quelli che stiamo vivendo, è difficile per lo Stato accollarsi queste spese. Sarà bene, allora, fare un po’ di conti per capirne l’entità. Secondo i rapporti annuali della Caritas, ogni anno in Italia vengono presentate in media 35 mila richieste di asilo. Nonostante l’opinione diffusa, molte di meno di quante ne ricevano altre nazioni, a cominciare dalla Francia, prima in Europa con una media di 50-55 mila l’anno. Di queste 35 mila, in genere ne vengono accolte la metà circa. Dunque, 17 o 18 mila che, moltiplicate per 127 euro a testa, portano a un totale di 2 milioni 286 mila euro l’anno. Sembra tanto. Ma è in realtà molto meno dei 3 milioni e 310 mila euro che costituiscono l’ammontare totale delle diarie (3.503 euro ciascuna) per soggiorno, viaggi, ecc. assegnate ogni mese ai 945 senatori e deputati del nostro Parlamento. Se si aggiunge poi il rimborso spese previsto per “l’esercizio del mandato”, pari a 3.690 euro a testa ogni trenta giorni, si arriva a quasi 6 milioni e 800 mila euro. Sempre al mese, è bene ripeterlo. E senza contare i benefit indiretti delle tessere gratis di autostrade, treni, aerei e linee marittime per gli spostamenti nazionali. Ovvero, in soli 30 giorni le “spese” di deputati e senatori ammontano a quasi il triplo di quelle annuali che lo Stato dovrebbe affrontare per consegnare gratis permessi e documenti ai rifugiati. Anzi, per “coprire” questi 2 milioni e 286 mila euro, basterebbe ridurre di soli 200 euro i 7.193 che tra diaria e rimborsi riceve a fine mese ciascun parlamentare. Sarebbe un “taglio” di appena il 2,78 per cento.