venerdì 13 settembre 2013

Accoglienza vera e non elemosina per i profughi: la riforma parte dal Lazio?


di Emilio Drudi

E’ fuggito dall'Eritrea per sottrarsi alle persecuzioni della dittatura militare di Isaias Afewerki. Ci ha messo mesi, quasi un anno, per arrivare in Italia: un’odissea attraverso l’Etiopia, il Sudan, la Libia, il Mediterraneo, fino a Lampedusa. Sempre col rischio di essere bloccato, imprigionato, ricattato, venduto ai trafficanti di uomini. Da qualche settimana è ospite del centro di prima accoglienza di Pozzallo, nella Sicilia sud orientale. In attesa che la sua richiesta di asilo venga esaminata. Ma la sofferenza non è finita.  Il campo, attrezzato per 130 profughi, ne ospita in realtà più di 400. La maggior parte dormono su vecchi materassi gettati per terra in un capannone. Non c’è una mensa attrezzata: si mangia dove capita, accovacciati su se stessi. I servizi igienici sono quelli che sono. L’assistenza sanitaria è affidata a un solo medico. Insufficienti gli interpreti e i mediatori culturali. Lui si chiama Mohammed, ma nessuno lo conosce per nome. Nel campo il nome non conta. Conta  solo la sigla incisa sul braccialetto di plastica che ogni ospite è costretto a portare per entrare e uscire, per il cibo, per usufruire dei servizi. Così ora Mohammed è diventato “K68”.
La sua storia è stata raccontata da Flore Murard Yovanovitch in un servizio sul campo di Pozzallo pubblicato dall'Unità. Sono storie come questa che hanno indotto papa Francesco a rilanciare il problema della politica di accoglienza nei confronti dei profughi. Lo aveva già sollevato all’inizio di luglio, con il viaggio a Lampedusa, non a caso il primo del suo pontificato. In quella piccola isola sperduta nel Mediterraneo, la porta d’Europa per chi fugge dall'Africa, il pontefice ha voluto dare consistenza alla esortazione ad “andare verso le periferie” fatta al momento del suo insediamento, sollecitando l’Italia, l’Unione Europea, tutto il Nord del mondo ad assumere un atteggiamento più aperto verso i rifugiati e, ancora di più, a cambiare la propria politica nel Sud del mondo, mettendo fine alle ingerenze e allo sfruttamento sotterraneo che sono quasi sempre alla base di quelle situazioni drammatiche che costringono migliaia di giovani ad abbandonare il proprio paese. Ora, a poco più di due mesi di distanza, ha riproposto il problema visitando, nel cuore di a Roma, il centro di assistenza Astalli, al quale fanno capo ogni giorno centinaia di profughi, in prevalenza africani.
Il messaggio è stato esplicito: occorre cambiare il modo stesso di accogliere e aiutare questa gente. In questa sua battaglia, papa Francesco non ha esitato a chiamare in causa la stessa Chiesa, sottolineando che non ha senso tenere conventi e case religiose chiusi o semivuoti o, peggio, imbastirci una speculazione: vanno riempiti di disperati che non sanno come e dove vivere nell'attesa di riuscire ad integrarsi nel paese che li ha accolti. E’stato un monito forte nella sostanza e nella forma: “I conventi vuoti – queste le parole esatte – non servono ad aprire alberghi e fare soldi. Sono per la carne di Cristo, sono per i profughi”. Il centro Astalli è una delle strutture di assistenza più efficienti e dignitose. Ma in Italia, a Roma in particolare, la situazione è drammatica. Con casi che hanno richiamato spesso l’attenzione anche della stampa internazionale, oltre che della Commissione europea per i diritti umani: il campo spontaneo di baracche a Ponte Mammolo, sull'argine dell’Aniene, ad esempio, o l’enorme palazzo abbandonato alla Romanina, diventato l’alloggio di fortuna per migliaia di rifugiati, un ghetto di “non persone”.
Due i problemi che emergono. Il primo è la riorganizzazione di tutta la rete di assistenza più immediata, specie nelle situazioni di emergenza come quella che si sta profilando con la guerra in Siria e le tensioni crescenti in tutto il Corno d’Africa e nell’Africa sub sahariana. L’altro è la necessità di cambiare radicalmente la politica di accoglienza in Italia. Ha colto subito questo aspetto don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. “Oggi in Italia – ha dichiarato – il 90 per cento dei richiedenti asilo e rifugiati sono costretti a vivere in uno stato di indigenza totale. Spesso in un degrado offensivo della loro dignità umana. Le visite di papa Francesco prima a Lampedusa e poi nel centro Astalli richiamano tutti alla necessità di fare il proprio dovere. In primis lo Stato italiano, che deve garantire un’accoglienza dignitosa. Il centro Astalli è un luogo dove si fa ‘elemosina’: persone abbandonate dalle istituzioni italiane vanno lì per chiedere da mangiare. Non hanno altre alternative. Visitandolo, il pontefice ha sottolineato che non bisogna limitarsi a questo. L’elemosina non basta e non risolve i problemi. Il centro Astalli, in realtà, fa molto di più, ma quello che fanno questi enti di beneficenza è una supplenza a uno Stato latitante da anni. Uno Stato che non fa quello che gli spetta, mostra inefficienza anche nel poco che fa, non sa gestire i fondi disponibili”.
Dall'Europa, in effetti, arrivano contributi cospicui per l’accoglienza dei profughi. Secondo fonti del ministero degli interni, tra il 2010 e il 2012 sono stati assegnati all'Italia oltre 22 milioni di euro per la gestione “ordinaria” del problema e, nel solo biennio 2011-2012, altri 16 milioni per far fronte all'emergenza legata alle crisi esplose in Africa: rivolte arabe, guerra in Libia, secessione tuareg e colpo di stato in Mali, ecc. In tutto, dunque, quasi 40 milioni. “Il fatto è – contesta don Zerai – che, a fronte di queste risorse, manca in realtà una strategia di lungo termine. E’ certamente un bene aprire i conventi vuoti ai profughi come ha chiesto il santo padre. Ma resta pur sempre un gesto di ‘elemosina’, che può servire al massimo per far fronte a un’emergenza. L’accoglienza è un’altra cosa. Quello che serve davvero in Italia sono la volontà e la capacità di uscire dalla mentalità di gestione emergenziale dell’accoglienza, che va avanti ormai da almeno 30 anni. L’Italia deve assumersi le sue responsabilità, come fanno altri Stati europei, usando i fondi disponibili in modo rigoroso e rispettoso della dignità e dei bisogni delle persone. In nessun paese del Nord Europa, ad esempio, si vedono le file di gente in attesa di un piatto di pasta che il pontefice ha visto visitando il centro Astalli. La dignità di questi uomini e queste donne è violata. Uno Stato che rispetta le persone non le abbandona al punto di costringerle a mettersi in fila per un piatto di pasta. Ecco perché papa Francesco ha detto che non basta dare il panino: occorre varare progetti di inclusione sociale, culturale, economica delle persone accolte. Fare in modo, cioè, che i rifugiati possano al più presto possibile camminare con le proprie gambe e costruirsi un nuovo domani”.
C’è da chiedersi come siano stati impiegati finora in Italia i fondi europei. La sensazione diffusa è che questi finanziamenti siano serviti più alle organizzazioni di assistenza che ai migranti. Talvolta con autentici scandali, seguiti da inchieste della magistratura sulle presunte cooperative alle quali erano stati affidati dalle istituzioni centinaia di richiedenti asilo. Don Zerai non usa mezze parole: “Lo Stato italiano non può continuare a distribuire a pioggia, spesso con criteri clientelari o comunque poco chiari, i fondi per l’accoglienza, ignorando i bisogni reali dei rifugiati e magari criminalizzando i disperati che arrivano in cerca di aiuto e le persone che si battono per aiutarli con un sistema diverso, fuori dal controllo di certi circuiti e dagli agganci con certi poteri”.
E’ convinto della necessità di cambiare l’intero sistema dell’accoglienza e di far luce sulla situazione attuale dei profughi, almeno nel Lazio, pure il consigliere regionale del Pd Enrico Forte, eletto nella circoscrizione di Latina, da sempre terra di migranti. Anche alla luce delle ripetute denunce di don Zerai e, ora, degli appelli del pontefice, Forte ha sollevato come primo punto la necessità di fare al più presto un censimento delle strutture e delle organizzazioni che si occupano del problema a Roma come nelle altre province. Ha proposto, inoltre, di effettuare una serie di ispezioni consiliari in tutte le realtà che ospitano i profughi: quelle ufficiali, come i centri di assistenza per i richiedenti asilo, ma anche quelle “spontanee”. Anzi, in particolare in quelle “spontanee”, proprio perché nella maggioranza dei casi i profughi, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, sono abbandonati a se stessi: senza alloggio, senza possibilità di lavoro, senza alcun tipo di assistenza, di fatto senza diritti, sono condannati a diventare gli “invisibili” che popolano le baraccopoli come quella di Ponte Mammolo o i “formicai” come il palazzo della Romanina. “La mia proposta – afferma Forte – sarà presentata al più presto sia alla Giunta che al Consiglio. Direi di partire dal censimento delle strutture ufficiali e dall'ispezione nei campi spontanei per avere un quadro esatto della situazione reale nel Lazio. Su questa base credo che vada poi impostata una nuova strategia. Sono convinto che vadano radicalmente cambiati sia i criteri per gestire l’emergenza sia, soprattutto, la politica generale dell’accoglienza. Ha ragione don Zerai. L’Italia deve porsi come modello quanto già è stato realizzato nell'Europa del nord o in Svizzera. In queste realtà lo Stato o comunque le istituzioni pubbliche promuovono una politica di inserimento aiutando i rifugiati a trovare casa, lavoro, assistenza, scuole e percorsi didattici. Poi, iniziato il processo di integrazione, quando l’assistito comincia ad avere un proprio reddito, è tenuto a restituire gradualmente almeno una parte delle spese sostenute a suo favore. Il denaro così recuperato viene ovviamente reinvestito per aiutare altri rifugiati. Si crea in tal modo un circuito virtuoso che quasi si autofinanzia. Questa è la strada da seguire”.

Se la proposta verrà accolta, le ispezioni negli insediamenti spontanei dovrebbero iniziare già nella prima metà del prossimo mese di ottobre.

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