mercoledì 22 ottobre 2014

Profughi: braccia per il lavoro nero ! Cosa fa lo Stato?


di Emilio Drudi

Uno sportello per l’assistenza e l’integrazione dei migranti indiani, con l’obiettivo di aiutare i braccianti sfruttati a denunciare i caporali e le aziende che sfruttano la loro fatica. Poi, la promessa di varare una legge regionale contro il caporalato e di assicurare controlli più capillari e frequenti degli ispettori del lavoro. E’ il progetto “Bella Farnia”, proposto dall’associazione In Migrazione e dalla Cgil e aperto dalla Regione sulla scia dell’inchiesta, condotta sempre da In Migrazione e dalla Cgil, che ha portato alla luce condizioni di vera e propria schiavitù per molti lavoratori, per la maggior parte sikh emigrati dal Punjab. Se ne è parlato in un convegno all’Istituto per l’agricoltura di Latina. Un convegno “folto”: c’erano rappresentanze e ospiti ai massimi livelli delle istituzioni e del mondo del lavoro: Regione, Provincia, vari comuni, Prefettura, forze di polizia, sindacato, associazioni imprenditoriali, Curia vescovile. Nei vari interventi si sono sottolineati spesso concetti come legalità, diritti, integrazione, dignità della persona e del lavoro, inclusione sociale. A questo, infatti, punta il “progetto anti schiavitù” che ha preso il via a Bella Farnia, nel cuore dell’Agro Pontino, e promette di diventare un modello anche per altre realtà.
Si tratta, senza dubbio, di un grande risultato. Eppure… Eppure si ha la sensazione che nel convegno, nel confronto cioè tra le massime istituzioni regionali e locali, si sia discussa solo “l’ultima mezz’ora” del problema. Il punto è che mentre si vara finalmente un progetto credibile contro lo sfruttamento e il lavoro nero, giorno dopo giorno, in questo Paese, in Italia, si continua a costruire un serbatoio enorme proprio di sfruttamento e lavoro nero. E a costruirlo è lo Stato stesso con le sue leggi. A cominciare dal sistema di accoglienza per profughi e migranti.
Secondo l’ultimo rapporto del Commissariato Onu (Unhcr) ci sono oggi 53 milioni di profughi nel mondo: non “migranti economici” ma uomini e donne costretti a fuggire dal proprio paese per salvarsi da guerre, dittature, uccisioni mirate, persecuzioni, galera. Una fuga per la vita. C’è chi parla, ormai, di “catastrofe umanitaria” e il fenomeno è appena all’inizio: continua a crescere. Basta seguire la progressione dei numeri per rendersene conto: i profughi censiti dall’Unhr erano 50 milioni a fine 2013, sono saliti a 51 all’inizio di marzo, ora sono 53. E una larga percentuale gravita sul quadrante del Mediterraneo, una moltitudine di persone costrette a scappare dal Medio Oriente e dall’Africa. Solo dalla Siria ne sono fuggite più di tre milioni, senza contare i 4 milioni di sfollati all’interno del paese, molti dei quali saranno spinti prima o poi a varcare la frontiera dalla guerra di tutti contro tutti che si trascina irrisolta da anni. E dalla dittatura eritrea si calcola che fuggano non meno di 4/5 mila persone al mese.
Oltre il 90 per cento di questi disperati si ferma nei paesi limitrofi al proprio. Ma per chi punta verso l’Europa, la nostra penisola è uno dei principali terminali, magari con l’intento poi di proseguire verso un’altra nazione Ue. Dall’inizio dell’anno a oggi, ne sono arrivati quasi 150 mila. Per l’esattezza, secondo i dati della direzione della polizia di frontiera, 149.698. L’Italia ha aperto loro le porte: li accoglie e spesso va a soccorrerli in mezzo al Mediterraneo, portandoli al sicuro nei porti siciliani, con le navi dell’operazione Mare Nostrum. Poi basta, però. Una volta sbarcati, quella stessa Italia che è andata a salvarli si dimentica totalmente di loro. Appena arrivati, vengono presi e rinchiusi in un centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), in attesa che le loro domande di protezione internazionale siano esaminate. Un’attesa che dura a volte più di un anno. Mesi e mesi di confino in strutture invivibili, isolate come ghetti. Dove spesso persino l’assistenza sanitaria per i malati è insufficiente e precaria, come denuncia con forza il gruppo Medici per i diritti umani. E dove i suicidi per disperazione sono frequenti.
Ma il dopo, quando finalmente si ottiene una forma di tutela (status di rifugiato, asilo politico, protezione per motivi umanitari, ecc.), forse va anche peggio. Dai Cara i rifugiati escono con in mano il permesso di soggiorno e magari un biglietto del treno, ma tutto finisce lì: nessuno si prende più cura di loro. Arrivano a Roma, Milano, Napoli, nelle grandi città, e usciti dalla stazione non sanno a chi rivolgersi, dove andare, dove e come trovare lavoro, un tetto, un letto per passare la notte. Nulla di nulla. Invisibili senza diritti, destinati ad affollare ancora di più i palazzi occupati abusivamente o le baraccopoli dove già vivono migliaia di “fantasmi” come loro. Non persone consegnate, regalate al lavoro nero, allo sfruttamento, talvolta alla criminalità. Disperati “scaricati” dallo Stato che li ha accolti ma della cui sorte non si preoccupa, una volta esaurita la “pratica” del permesso. Con queste migliaia di uomini e donne si trovano così a dover fare i conti – di fatto, senza un programma coordinato, senza direttive chiare, senza risorse – le Regioni, le Prefetture, le Province, i Comuni. I soliti Comuni che sono lo Stato “in prima linea”, quello che è immerso tutti i giorni nella realtà dei problemi.
E’ strano. Da una parte lo Stato, con le sue stesse leggi, “consegna” allo sfruttamento una marea montante di uomini e donne disperati e dall’altra cerca di creare un argine alla marea che ha lui stesso scatenato. Ma la marea è così grande che non c’è argine che tenga, a valle, se non si risolve prima il problema a monte. Se non si riforma radicalmente, cioè, il sistema di accoglienza che questo Paese si è dato, giudicato il peggiore d’Europa, insieme a quello greco. Appare assurdo, allora, che Regioni, Prefetture, Province, Comuni non si mobilitino per chiedere allo Stato “centrale” di mettere fine alla fatica di Schiavo alla quale sono condannati. Per chiedere, cioè, un nuovo programma di accoglienza adeguato alla “catastrofe umanitaria” che preme alle porte dell’Europa. Meglio ancora se un programma unico, condiviso tra tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, che garantisca ai rifugiati una permanenza dignitosa, libertà di residenza e di circolazione. E, magari, con una ripartizione più equa dell’ospitalità: secondo l’ultimo rapporto dell’Onu, in Italia c’è un solo rifugiato (1,2 per l’esattezza) ogni mille abitanti contro i 9 della Svezia, i 7 dell’Olanda, i 6 della Germania, i 4/5 della Francia.

Il convegno di Latina ha invocato diritti e legalità per i lavoratori migranti, perché possano davvero sentirsi liberi e affrontare la vita con dignità. Il progetto “Bella Farnia” va in questa direzione. E’ un passo importante ma, appunto, solo un passo. La battaglia da combattere è più vasta e comincia dal sistema a monte. La impone, prima ancora che le convenzioni internazionali che l’Italia ha sottoscritto,  la nostra stessa Costituzione, che all’articolo 10, terzo comma, dice testualmente: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Non c’è diritto d’asilo senza libertà, dignità, legalità, sicurezza. E non rispetta certamente il diritto d’asilo un sistema che scarica migliaia di profughi in un serbatoio enorme di sfruttamento e lavoro nero.

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