lunedì 24 novembre 2014

Migranti: mille pretesti per negare i ricongiungimenti familiari


di Emilio Drudi

“Torna tra dieci giorni”. Così ha detto un funzionario dell’ambasciata italiana in Uganda a Helen, una giovane etiope che aveva appena presentato la richiesta di visto per volare finalmente in Italia a ricomporre famiglia e affetti. A Helen c’erano voluti ben sei mesi di attesa per “conquistarsi” quell’appuntamento all’ufficio consolare di Kampala: già, metà anno solo per essere ricevuta, riempire i moduli per la domanda, pagare le tasse ed esibire il nulla osta rilasciato dal Viminale a suo marito, residente da anni a Roma. Ma… “Pazienza – si è detta – dieci giorni ancora e questa odissea sarà finita.
Passano i dieci giorni ed Helen (il nome è fittizio per evitare eventuali ritorsioni) risale le scale dell’ambasciata. “Mi dispiace – le dice lo stesso funzionario – Devi ritornare tra due settimane”. Lei vorrebbe protestare, ma si sforza di restare calma: “Va bene, tornerò…”. Quindici giorni dopo, quando sono ormai trascorsi 7 mesi dalla prima richiesta di appuntamento, stesso funzionario e stessa storia. L’unica variante è che il nuovo rinvio prevede il raddoppio del tempo di attesa: “Devi ritornare fra trenta giorni”, sono le parole che si sente dire, accompagnate da un sorriso più beffardo che benevolo. Ci sarebbe di che esplodere di rabbia, ma Helen riesce ancora a frenare la frustrazione e il disappunto. Si rifà viva dopo un mese ma neanche stavolta il visto è pronto. Tutto come prima, incluso lo strano sorriso del funzionario, sempre quello. Allora non ce la fa più e prova a farsi dare qualche spiegazione. Con fermezza ma senza perdere il controllo. “Si può sapere almeno – dice – quando sarà pronto il mio visto? Ho già pagato 159 dollari per la pratica e avrete constatato che dall’Italia è arrivato da tempo il certificato per il ricongiungimento”. “Per tutta risposta – riferisce Helen – ho ricevuto il solito, indecifrabile sorriso e una specie di sfogo senza senso. Qualcosa come: non lo so, non sono mica Dio…”.
Questo tira e molla è stato raccontato da Helen e da suo marito a don Mussie Zerai, dell’agenzia Habeshia. Hanno pensato che, dopo otto mesi di umiliazioni, forse la soluzione si sarebbe potuta trovare direttamente in Italia: ad Habeshia hanno chiesto se al ministero degli Esteri o a quello degli Interni, si può almeno trovare qualcuno in grado di fornire una spiegazione plausibile e magari di sbloccare la situazione, visto che il nulla osta per il ricongiungimento familiare è stato firmato da mesi.
Nelle stesse condizioni di Helen ci sono decine e decine di giovani donne, a volte con i bambini piccoli. A Kampala e ancora di più in altri Stati africani. Soprattutto a Khartoum e ad Addis Abeba storie di questo genere si ripetono da anni. Con le motivazioni più assurde. Molto frequente è l’insinuazione che il matrimonio su cui si basa il ricongiungimento familiare potrebbe essere falso o comunque non valido. Senza però addurre prove per un’accusa così pesante. E nonostante il Viminale abbia certificato che tutto è in regola. Le conseguenze, a volte, sono devastanti. Specie in Sudan, dove il visto per i migranti ha in genere una validità di soli sei mesi: alla scadenza o si viene espulsi o si finisce nel lager di Shakarab. Una prospettiva paurosa. Pur di evitarla diverse donne, disperate e stanche di aspettare, finiscono per rivolgersi ai trafficanti: pagano migliaia di dollari e corrono mille rischi per raggiungere in qualche modo la costa libica e da lì attraversare il Mediterraneo su un barcone “a perdere”, insieme a centinaia di altri profughi. Condannate da motivazioni pretestuose a imboccare una via di emigrazione clandestina, nonostante siano perfettamente in regola.
Non sono soltanto giovani donne le vittime di dinieghi e lungaggini basate su crudeli pretesti. Spesso sono prese in questo vortice anche persone anziane, che non hanno né la possibilità né la forza di tentare vie alternative di emigrazione, inclusa quella, al limite, degli scafisti. E’ eloquente la vicenda di una signora somala di oltre 60 anni che suo figlio vorrebbe portare in Italia. Lui vive da tempo a Roma. Ha un permesso di soggiorno regolare, una casa, un lavoro, un reddito dignitoso: tutto quello che richiede la legge per il ricongiungimento familiare, insomma. Manca il visto dell’ambasciata. In Somalia i nostri uffici diplomatici sono stati chiusi 23 anni fa, in seguito alla guerra civile che ha sconquassato il paese. Nell’aprile scorso la Farnesina ha deciso di riaprirli: in giugno l’ambasciatore Fabrizio Marcelli ha ricevuto le credenziali dal presidente Hassan Sheikh Mohamud ed è stato scelto il sito dove costruire la nuova sede, all’interno del compound dell’aeroporto di Mogadiscio, fortificato e presidiato come una trincea. Quella signora ha avviato la sua “pratica” molto prima dello scorso giugno. In mancanza di una nostra ambasciata a Mogadiscio, è stata costretta a rivolgersi alla diplomazia italiana in un altro Stato. I nostri consolati più vicini alla Somalia sono a Nairobi, in Kenya, e ad Addis Abeba, in Etiopia. Ma ai somali non è consentito accedere a questi due uffici per visti, pratiche di emigrazione, ecc. Non è rimasto che andare a Sana’a, nello Yemen, al di là del Mar Rosso. Visto il disagio, il lungo viaggio, le spese ingenti, l’età stessa della “richiedente”, sarebbe stato lecito attendersi attenzione e sollecitudine. Nient’affatto: anche in questo caso ne è nato un tira e molla infinito. E tuttora insoluto.
La Farnesina è al corrente di questa situazione. Storie come quella di Helen, della signora somala o delle ragazze eritree bloccate a Khartoum e ad Addis Abeba, sono state segnalate più volte sia a vari funzionari che, soprattutto, agli stessi ministri e viceministri in carica negli ultimi tempi. Finora non si è fatto nulla di concreto: un mare di promesse e basta. Senza esito anche gli appelli lanciati a parecchi parlamentari: in particolare ad alcuni che fanno parte della Commissione Esteri della Camera. C’è da chiedersi, allora, se non ci sia in realtà una tacita disposizione agli uffici diplomatici per ostacolare in tutti i modi la concessione dei visti di immigrazione, anche in caso di ricongiungimento familiare. Appare per lo meno strano, infatti, che certi incomprensibili comportamenti possano essere casuali, visto che si verificano contemporaneamente e sostanzialmente con le stesse modalità in diverse ambasciate: da Kampala a Khartoum, da Addis Abeba a Sana’a.

Ora sta per essere inviata l’ennesima segnalazione, questa volta indirizzata a Paolo Gentiloni, che dal 31 ottobre ha sostituito Federica Mogherini al vertice degli Esteri. Cambierà finalmente qualcosa?

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