venerdì 28 febbraio 2014

Libia l'ultimo viaggio

http://www.ilgiornale.it/static/reportage/reportage_libia.htm

L'ULTIMO VIAGGIO

di Gian Micalessin

La porta si schiude, un volto nero e due occhi candidi ti scrutano sospettosi. I tuoi si spingono oltre, incrociano la disperazione. Alle nostre spalle ci sono Tripoli, il quartiere di Shura Ashuk, le facce pazienti degli africani allineati agli incroci in attesa di qualcuno disposto a comprare un'ora del loro lavoro. Qui oltre il cemento cariato di questa palazzina fatiscente, oltre il suo portone rugginoso si muove l'umanità in attesa del grande balzo oltre il Mediterraneo. Nel cortile assolato e polveroso vagano uomini vestiti di stracci, ruzzolano bimbi di tutte le età, sciacquano il bucato decine di donne avvolte in scialli a fiori. 
Tutt'attorno l'odore di urina e sudore si mescola all'aroma vaporoso del cibo ribollito. Trasuda da dietro le tende sistemate alla meglio per chiudere le otto stanzucce trasformate in gironi dell'attesa. Prima quelle degli uomini soli, poi quelle per le famiglie infine quella delle donne . Dal girone delle famiglie s'affaccia il volto scavato di Ibrahim. E' scappato dall'Eritrea nel 2007 ha attraversato il Sudan e il Sahara. Il passar degli anni e dei deserti è disegnato nelle rughe scavate sul suo volto. 
Kiev


Ibrhaim ti fa segno d'entrare. Sulla stuoia sudicia è raggomitolata Lettenzi, sua sorella. Ha 38 anni, un'accettata di dolore le taglia la schiena, la piega al pavimento.
Kiev


"L'Italia –sussurra Ibrahim - è la sua ultima speranza, qui non la cura nessuno se non ci mettiamo su una barca la perderò". Come tutti i duecento e passa inquilini di questa palazzina parcheggio attendono solo la traversata per l'Italia e l'Europa. Con loro ci sono Danait, Mikias e Zara. Hanno dieci, otto e tre anni, sono i figli messi al mondo da Lettenzi e dal marito durante gli anni della transumanza. Il marito e i due rampolli più grandi, Nardos di 17 e Miral di 19, sono a lavorare, a raggranellare il malloppo per il viaggio. "Ci vogliono 1600 dollari a testa per me, Lattanzi e suo marito. I figli non pagano, ma sono comunque tanti soldi e ci vorranno ancora dei mesi. Partiremo tra giugno e luglio quando il mare e più calmo". Ibrahim e Lettenzi condividono lo stesso sogno delle migliaia di clandestini che affollano gli appartamenti di questo quartiere dormitorio. Un quartiere trasformato in redditizio deposito d'umani dai trafficanti d'uomini e diventato un polmone di quest' economia sommersa. Un angolo di questi stanzoni luridi costa quasi cento dollari a testa. Moltiplicati per duecento e passa fanno la fortuna del proprietario. Moltiplicati per le decine di dormitori lager di Shara Ashuk rappresentano un'autentica economia parallela.
Kiev


Ma qui, almeno, c'è l'impressione di attendere in libertà. Più in basso nella scala dell'attesa ci sono i centri di detenzione o le galere. I centri di detenzione - condannati a suo tempo come orrori gheddafiani o spacciati come le conseguenze dei patti anti immigrati stretti dai governi italiani con il Colonnello - sono ancora lì. Attorno a Tripoli funzionano a pieno ritmo quelli di Gharyan e di Towisha. Oggi a differenza del passato oggi puoi chiedere di visitarli ufficialmente. Ma, com'è successo a "Il Giornale", il permesso non viene poi rilasciato. Più in basso nella scala dell'orrore ci sono le galere delle varie "khatibe". Le milizie non paghe di contendersi con le armi il controllo di città e territori si spartiscono anche immigrati e prigionieri. "Ho passato quattro mesi nella galera di una milizia e mi sono pentito di esser fuggito dalla Somalia. Neanche in mezzo alla guerra, neppure tra gli shebab ho visto cose del genere - 
racconta Omar arrivato fin qui da Kisimaio - se uno di loro veniva ferito ci portavano all'ospedale e ci costringevano a donare il sangue. Io ho la sfortuna di poterlo dare a tutti e una volta mi hanno succhiato mille centimetri cubici. Poi mi hanno riportato in cella e sono finito in coma. Di notte bevevano, si ubriacavano e per divertirsi sparavano con i kalashnikov nelle celle". In mezzo a questa umanità sfruttata e dissanguata non si muove una sola organizzazione umanitaria. Le organizzazioni non governative presentissime a Lampedusa, l'Alto Commissariato dei Rifugiati sempre in prima linea nel puntare il dito contro l'Italia, l'Unione Europea sempre puntuale nell' accusarci qui non muovono un dito. L'unica a curarsi di questi disgraziati, a portar loro medicine e aiuti è madre Emma Moja, una suora spagnola delle figlie della Carità. 
E' arrivata in Libia 14 anni fa, lavora con il vescovo Giovanni Martinelli e due volte alla settimana bussa alle porte di questi dormitori dimenticati, cerca posto negli ospedali per malati e sofferenti. "Qui c'è di tutto, dalla scabbia alla polmonite, vivono uno accanto all'altro e si contagiano a vicenda eppure - sussurra - nessuno fa nulla, queste creature sono abbandonate e disperate". 
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L'unico modo per sottrarsi a questa disperazione è affrontare l'ultimo viaggio. Uno dei blocchi di partenza è Zwara, un porto 75 chilometri ad ovest di Tripoli, centro della tratta di uomini. Per capirlo basta avvicinarsi alla città. Parcheggiate nel piazzale di un cantiere marino ci sono le carene in costruzione dei barconi usati per raggiungere Lampedusa. "Ufficialmente vengono costruite per la pesca, ma ormai il principale mercato è la tratta degli umani. Vengono registrati in Tunisia e poi riportati qui per usarli nella tratta degli immigrati" - spiega un ufficiale di polizia di Zwara che si rifiuta di dare il proprio nome, ma si lamenta di non avere né mezzi, né strutture per fermare il traffico di umani. "La spiaggia da cui partono la conosciamo tutti è quella di Bukeshfa cinque chilometri a ovest dalla città. 
Voi italiani invece di spendere tanti soldi con le vostre navi dovreste darci un paio di elicotteri e di barche. Poi i clandestini ve li fermiamo noi." – assicura l'ufficiale. Da quella spiaggia partiranno tra qualche settimana o mese anche Ibrahim, Omar e tutti gli altri ospiti dei lager dormitorio di Shrura Ashuk. Ma differenza di un tempo quel viaggio non fa più paura. "Una volta era rischioso, moriva tanta gente, ma ora non è più così il vostro governo e la vostra marina ci aiutano - spiega Ibrahim. I nostri compagni quelli che sono già partiti ce l'hanno spiegato, basta chiamare un numero di telefono e voi mandate le barche a salvarci. Per questo non abbiamo più paura e aspettiamo solo di trovar i soldi per partire."
Kiev

venerdì 14 febbraio 2014

"I Wanted to Lie Down and Die"

EGYPT/SUDAN: TRAFFICKERS WHO TORTURE

https://multimedia.hrw.org/distribute/cvyodjnrzt

Embargoed for Release
Not for Publication Until:
10:30 in Berlin, Tuesday 11 February, 2014
09:30 GMT, 11 February 2014
Traffickers have kidnapped, tortured, and killed refugees, most from Eritrea, in eastern Sudan and Egypt’s Sinai Peninsula, Human Rights Watch said in a report released today. Egypt and Sudan have failed to adequately identify and prosecute the traffickers and any security officials who may have colluded with them, breaching both countries’ obligation to prevent torture.
The 79-page report, “‘I Wanted to Lie Down and Die:’ Trafficking and Torture of Eritreans in Sudan and Egypt,” documents how, since 2010, Egyptian traffickers have tortured hundreds, and likely thousands, of Eritreans for ransom in the Sinai Peninsula, including through rape, burning, and mutilation. It also documents torture by traffickers in eastern Sudan and 29 incidents in which Sudanese and Egyptian security officers facilitated trafficker abuses rather than arresting them and rescuing their victims. Egyptian officials deny there are trafficker abuses in Sinai, allowing it to become a safe haven for traffickers.
VIDEO FEATURE PRODUCED BY HUMAN RIGHTS WATCH
RAW VIDEO FOOTAGE
PHOTOGRAPHS
  • An Eritrean man shows the wounds he says traffickers inflicted on him in Egypt’s Sinai Peninsula to force him and his relatives to pay ransom for his release.
    © 2013 Tom Dale for Human Rights Watch

Orrore Sinai, i rapiti uccisi per gli organi

Testimonianza
Orrore Sinai, i rapiti uccisi per gli organi
Doveva sparire nell’inferno del Sinai perché era diventato un testimone scomodo dei traffici di armi e uomini gestiti da alti ufficiali sudanesi ed eritrei nella terra di nessuno al confine tra i due stati, a Kassala. Invece Assalom, nome di fantasia per non creare guai alla famiglia, eritreo di 37 anni, è miracolosamente tornato dalle rotte della morte un mese fa.

Lo hanno liberato durante un blitz dell’esercito cairota che negli ultimi mesi ha distrutto molti covi togliendo le catene a 144 prigionieri subsahariani. Assolom si è consegnato alla polizia ed è stato imprigionato come irregolare. Poi l’ong Gandhi guidata da Alganesh Fessaha, premiata con l’Ambrogino d’oro della solidarietà del comune di Milano per aver salvato centinaia di rifugiati, ha posto fine alla sua odissea e l’ha portato in Etiopia. Raggiunto al telefono, ci ha raccontato gli orrori visti nel deserto della Bibbia, trasformato da bande di spietati predoni beduini in un supermarket di organi umani.

Assalom è uno dei tanti sottufficiali delle forze della Difesa eritrea fuggiti dalla coscrizione a vita imposta dal regime di Isaias Afewerki e condannata il 5 febbraio scorso a Ginevra dall’Onu. I disertori normalmente fuggono in Sudan, nei campi dell’Acnur di Shegarab, vicino a Kassala, e ci restano per racimolare denaro e dirigersi poi verso Khartoum. Dal quartiere eritreo della capitale sudanese si organizzano i viaggi per la Libia e da lì si attraversa il Mediterraneo. Un flusso ininterrotto: solo a gennaio sono sbarcati sulle coste italiane 2.156 stranieri, contro i 217 del gennaio 2013 e gli eritrei, dopo i siriani, sono la seconda etnia.

Ma Shegarab, 30mila ospiti perlopiù eritrei, è anche il primo anello della catena infernale dei sequestri. Dal 2012 nessun eritreo percorre più, volontariamente, la rotta verso Israele che ha eretto un muro al confine con l’Egitto. Così i nomadi Rashaida, organizzatori con i predoni beduini - con cui hanno antichi legami di clan - del traffico di esseri umani dal Sudan al Sinai, hanno iniziato a rapire le persone all’esterno del campo, anche donne e bambini, e a portarle in Egitto per consegnarle alla mafia beduina. Per i dati ufficiali ne sono sparite 551 solo nel 2012. Potrebbero essere molte di più perché la zona è controllata da bande di criminali Rashaida con la complicità delle forze di sicurezza sudanesi.

Alleanza  cementata da business sporchi
Secondo diversi report dell’Onu, infatti, sui pickup dei rapitori lanciati nel Sahara viaggiano persone e armi destinate a essere vendute alle cellule terroristiche insediatesi nel Sinai e ai palestinesi dei Territori. Armi che passano di mano al confine eritreo dai militari asmarini a quelli sudanesi e che Assalom, diventato nel frattempo negoziante a Shegarab, aveva visto un giorno dell’ottobre 2012. Da ex militare capisce al volo chi c’è dietro al traffico. «Ho visto un pickup carico d’armi fuori da Shegarab proveniente dall’Eritrea e ho fatto l’errore di dire in giro che l’Eritrea e i Rashaida trafficavano anche in armi», ammette Assalom. La voce arriva a un ufficiale della sicurezza sudanese invaghitosi della moglie di Assalom che gli intima di tacere. Assalom propone al rivale un accordo: lui e la moglie partiranno da Shegarab se il graduato li aiuta a raggiungere Khartoum. Ma la coppia è ormai pericolosa. I militari sudanesi ed eritrei decidono di farla sparire.

«Ci ha consegnati ai Rashaida che hanno portato me e la mia donna nel Sinai». Anche nel viaggio verso l’orrore Assalom ha un’altra conferma della complicità tra eritrei e sudanesi. «Il camion che ci trasportava era carico di kalashnikov e lanciarazzi, ne ho contati 16. Le armi venivano dall’Eritrea e dovevano essere consegnate ai beduini». E nulla passa dal confine senza il permesso dei militari eritrei e sudanesi. Alla fine di novembre l’uomo finisce vicino a El Arish, al confine nord con Israele, nelle mani della banda di Abu Suleiman che chiede un riscatto di 75mila dollari per lui e la moglie. Equivale a una condanna a morte. Nella casa Assalom condivide i maltrattamenti inflitti ai rapiti: botte, sprangate, abusi, stupri, bruciature con la plastica fusa. Il 13 gennaio 2013 assiste al brutale pestaggio di Mohamed, 27enne eritreo di Keren che non poteva pagare. Il giovane è a terra agonizzante.

«A un certo punto - racconta - nella stanza dove eravamo incatenati è arrivato un medico che ci aveva visitato altre volte. Ma stavolta aveva una borsa frigorifera. Ha addormentato Mohamed e davanti a noi gli ha tolto le reni, poi le ha messe in un contenitore con il coperchio bianco. lo ha messo nella borsa frigorifera ed è andato via su un Land cruiser. I carcerieri hanno portato via quel poveretto mentre stava morendo. Non ho più saputo nulla di lui».

In cinque anni sarebbero morte nel deserto 8.000 persone, di cui 5.000 eritrei. Questa testimonianza è una conferma ulteriore di quello che i trafficanti hanno fatto loro. L’ex militare inaspettatamente viene risparmiato. I predoni si sbarazzano dei prigionieri più poveri anche rivendendoli ad altre bande. In questo modo si limitano i rischi e si dividono i proventi del traffico d’organi e di uomini. Assalom cambia così tre covi. La moglie, intanto, è riuscita a fuggire. «La sua famiglia aveva pagato una parte del riscatto e quindi lei era più libera. È riuscita a impadronirsi di un fucile, si è fatta liberare e si è consegnata alla polizia egiziana».

Per l’ex negoziante invece nessuno può pagare. A novembre gli ultimi banditi cui è stato venduto gli offrono la libertà in cambio dell’asportazione di un rene. Ma un raid dell’esercito egiziano distrugge il covo e mette in fuga i sequestratori. Poi il carcere a El Arish dal quale viene liberato, insieme ad  altre 45 persone, dall’ong Gandhi, che lo porta in Etiopia nel campo profughi di May Aini con la compagna. L’incubo è alle spalle.

Paolo Lambruschi
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