sabato 17 gennaio 2015

18 gennaio, Giornata mondiale del migrante e del rifugiato.

Comunicato stampa.
  
Sembra ieri e invece è già passato un anno dall’ultima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che la Chiesa Cattolica tornerà a celebrarsi il 18 gennaio. Il Santo Padre Francesco, con la Sua memorabile visita a Lampedusa, i Suoi ripetuti appelli al rispetto della dignità umane e diritti di tutti Migranti e Rifugiati, per ultimo il Suo messaggio per la giornata mondiale del Migrante e Rifugiati, sollecita tutti noi uomini e donne, credenti e non credenti, alla solidarietà verso chi è nel bisogno, chi è costretto a lasciare la sua terra, chi è vittima della guerra, persecuzioni, traffici e schiavitù.
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/migration/documents/papa-francesco_20140903_world-migrants-day-2015.html
 Ma guardando il panorama politico e culturale europeo c’è ben poco da celebrare. E’ stato, questo appena trascorso, un anno iniziato con grandi speranze e che purtroppo si chiude invece con profonda delusione. Certo, c’è l’innegabile, prezioso risultato di aver aiutato e assai spesso salvato, con l’operazione Mare Nostrum, oltre 168 mila richiedenti asilo, facendoli sbarcare nei porti italiani. E’ l’argomento di cui più si è parlato in questi ultimi dodici mesi: sui mass media e nel “sentire” della gente. Molto meno si è parlato degli oltre 3.600 che non ce l’hanno fatta: altri 3.600 morti nell’arco di un anno, una media di dieci al giorno, che fanno salire a ben oltre 23 mila il conto delle vite spezzate nella traversata del Mediterraneo dal 2000 a oggi.
Resta comunque l’importanza enorme della catena di salvataggi assicurata dalla dedizione della Marina Militare italiana. Ma, per quanto importante, questa è l’unica nota positiva nell’intero arco di quest’anno, nata da un’emergenza e peraltro ormai definitivamente conclusa, mentre restano inalterate, anzi aggravate, tutte le cause che spingono tanti, troppi giovani a lasciare il proprio paese, perché nella fuga è l’unica via di scampo da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni. Accade in tutto il Medio Oriente e accade ormai in ogni angolo dell’Africa: la regione orientale, quella sub sahariana, quella occidentale ed equatoriale.
Eppure lo scorso gennaio si è partiti con una grande speranza: la speranza che finalmente la Fortezza Europa si decidesse ad aprire un po’ di più le sue porte e, più in generale, che cominciasse a cambiare la sua politica – e quella di tutto il Nord del mondo – nei confronti dei paesi da cui arrivano tutti questi profughi. Autorizzavano queste aspettative i tanti impegni che a più voci l’Unione Europea, l’Italia e numerosi altri Stati hanno assunto all’indomani della strage di Lampedusa quando, il 3 ottobre 2013, tutti quei morti per una volta almeno sembrava che cominciassero a pesare sulla coscienza dei “potenti della terra” e della comunità internazionale. Mare Nostrum è nato sulla scia di questa emozione. E il semestre italiano di presidenza Ue, per la seconda metà del 2014, lasciava intravedere che probabilmente proprio Mare Nostrum sarebbe potuto diventare il simbolo della svolta, superando il progetto iniziale di operazione di polizia destinata al controllo delle frontiere marittime, per diventare il primo progetto europeo organico di soccorso, nell’ambito di un generale cambiamento della politica sull’emigrazione.
Così molti hanno interpretato le ripetute dichiarazioni del premier italiano, Matteo Renzi, che più volte ha contestato all’Europa di pensare di più a “salvare le banche” piuttosto che a “salvare vite umane”. C’era da aspettarsi,  in effetti, che sulla scia di questi “richiami” la sua presidenza europea lasciasse il segno, con atti e provvedimenti concreti. Tre in particolare: la trasformazione di Mare Nostrum in programma permanente, con il contributo di tutti i governi europei; il deciso avvio di un piano per un sistema di accoglienza unico per tutta l’Europa, accettato e applicato da ognuno degli Stati membri dell’Unione; l’abolizione o quanto meno la revisione – come primo passo di questo piano – del trattato Dublino 3, che vincolando i profughi al primo paese Europeo a cui chiedono aiuto, si risolve in una aperta violazione della libertà di residenza e movimento, creando situazioni di grande sofferenza e spesso occasioni di sopruso nei confronti dei profughi.
Nulla di tutto questo si è realizzato o quanto meno è stato impostato. Tanto da chiedersi che senso abbiano non solo gli impegni presi all’indomani del naufragio di Lampedusa e, ancora di più, quelli ribaditi con enfasi giusto dodici mesi dopo, nell’anniversario della strage, quando l’isola si è di nuovo riempita di rappresentanti di primo piano dell’Unione Europea, del governo italiano, di numerosi altri Stati.
Vale la pena, allora, fare brevemente il punto per singoli “capitoli”. Se non altro come promemoria per quei “potenti della terra” a cui si è rivolto papa Francesco, all’inizio di luglio del 2013, proprio da Lampedusa, scelta non a caso per ribadire la necessità di “andare verso le periferie”. Era la sua prima visita pastorale fuori dalle mura del Vaticano: pochi mesi dopo, la tragedia del 3 ottobre ha confermato come le sue parole fossero fondate.

Le vittime. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr e dall’Oim, nell’arco dell’anno ci sono stati almeno 3.600 vittime nel Mediterraneo tra morti e dispersi. Sono circa il 2 per cento rispetto a quanti ce l’hanno fatta a salvarsi. Potrebbe sembrare una percentuale non troppo elevata, ma si tratta di vite spezzate: 3.600 vite. Ed è solo un censimento parziale: non vi figurano, ad esempio, quanti hanno trovato la morte nel Sahara o comunque nei paesi di transito verso la sponda maghrebina del Mediterraneo e in Libia, un buco nero sicuramente enorme ma su cui non si è mai indagato. Senza contare le centinaia di morti nel Mar Rosso, una via di fuga sempre più battuta dopo che sono diventati più difficili o si sono addirittura chiusi altri itinerari (verso il Sinai e Israele, ad esempio) collegati al Mediterraneo.
Mare Nostrum e Frontex-Triton. Il pesantissimo conto delle vittime rischia di moltiplicarsi a causa dell’abolizione di Mare Nostrum. Al suo posto, a partire dal primo novembre 2014, opera ora Triton, la missione europea gestita dall’agenzia Frontex, che ha il mandato di vigilare sui confini meridionali dell’Unione ma le cui navi, meno di un terzo di quelle messe in campo dal programma italiano, si limitano a pattugliare una fascia di appena 30 miglia, poco più delle acque territoriali dei vari Stati Ue. Gli effetti si sono visti subito con una tragica catena di nuovi naufragi e nuovi morti. Bruxelles si giustifica asserendo che comunque c’è il mandato di assicurare i soccorsi in caso di necessità. Ma appare evidente che un conto è intervenire da una distanza di poche miglia dalla situazione di emergenza, un conto è intervenire dalle acque territoriali, con davanti centinaia di miglia di mare da percorrere. Lo hanno denunciato le stesse Nazioni  Unite: “C’è il timore – ha contestato Francois Crepeau, relatore speciale Onu per i diritti dei migranti – che senza un’operazione come Mare Nostrum migliaia di persone moriranno”.
Sistema di accoglienza. Non c’è traccia, neanche come proposta, della volontà di arrivare a un sistema unico di accoglienza, uguale per tutti gli Stati membri dell’Unione. Eppure è proprio questa la chiave di volta non solo per garantire un programma di accettazione e inclusione sociale dignitosa per i profughi in Europa, ma per poter concretamente attuare quei “canali di emigrazione legale” (i cosiddetti corridoi umanitari e la possibilità di presentare le richieste di asilo direttamente alle ambasciate europee in Africa) che sono l’unico vero strumento efficace per sottrarre i migranti al ricatto dei trafficanti di esseri umani e degli scafisti. Inascoltati dalla politica gli appelli in questo senso di varie Ong e della stessa Unhcr.
Non solo. La mancanza di un programma unico europeo consente di lasciare in vigore sistemi di accoglienza dimostratisi ampiamente inefficienti e inadeguati, se non peggio, come quelli italiano e greco che, facendo dei profughi “non persone” senza diritti, creano un enorme serbatoio di lavoro nero e sfruttamento e che sono stati ripetutamente condannati dalla Corte Europea per i diritti umani.
Mafia capitale: lo sfruttamento della disperazione. L’inchiesta “Mafia capitale” ha sollevato il sospetto che le disfunzioni e le lungaggini del sistema di accoglienza italiano siano almeno in parte pilotate, al fine di perpetuare un meccanismo su cui lucrano grosse organizzazioni malavitose che hanno messo le mani sulla gestione dei centri di accoglienza per richiedenti asilo e migranti (Cpa, Cara, Cie, ecc.). Al di là delle responsabilità penali e dei reati sui quali sta facendo luce la magistratura, appaiono più che evidenti i ritardi e le gravissime responsabilità della politica. E’ assurdo che nessuno, a tutti i livelli (Governo, Regioni, Province, Comuni, rappresentanti delle organizzazioni a cui fanno capo le cooperative e le istituzioni sotto accusa), si sia mai posto il problema di come siano gestiti i centri di accoglienza nonostante le ripetute denunce di numerose Ong e le frequenti proteste dei profughi, sfociate spesse in autentiche sommosse. Ed ancora più assurdo è che né il Governo, né alcuna forza politica abbiano colto l’occasione per proporre di attuare una riforma radicale del sistema, magari sul modello di quelli più funzionali di altri paesi europei e in vista di arrivare, appunto, a un sistema unico in tutta l’Unione. E’ un’altra delle occasioni perdute di dare un segnale di reale volontà di rinnovamento: per l’Italia ma anche per l’Europa.
Politica estera italiana e Ue nel Corno d’Africa. Probabilmente anche sulla scia dell’invito formulato da Bruxelle nel novembre 2013 all’Italia di “fare di più” per le sue ex colonie, in particolare l’Eritrea e la Somalia, nel corso del 2014 si è intensificata l’attenzione della Farnesina per il Corno d’Africa. Il primo segnale si è avuto con la visita ufficiale fatta dal viceministro agli esteri Lapo Pistelli in tutti i paesi della regione. E’ seguita, a fine novembre, la firma a Roma del cosiddetto Processo di Khartoum, un accordo tra Unione Europea e vari governi dell’Africa maghrebina e orientale per il controllo dell’emigrazione. Il trattato è stato presentato come uno strumento di lotta alle organizzazioni dei trafficati di esseri umani in collaborazione con i paesi d’origine dei profughi, quelli di transito e di prima sosta. In realtà, le caratteristiche degli interventi previsti sembrano configurare la costruzione di una ulteriore barriera per bloccare i migranti lontano dall’Europa, prima ancora che arrivino alle sponde del Mediterraneo. Ovvero: una ulteriore esternalizzazione dei confini della Fortezza Europa, spostandoli sempre più a sud. Non importa a che prezzo.
Non solo. L’avvio di questi colloqui “al buio”, senza porre alcuna condizione pregiudiziale e senza porsi la necessità di “condurre il gioco”, si stanno rivelando una insperata apertura di credito da parte dell’Italia e dell’Unione Europea nei confronti di alcuni paesi Africani.
C’è da chiedersi quali altri interessi inconfessabili nasconda questa scelta politica, oltre alla costruzione di nuove barriere al di là delle quali bloccare i profughi.
Ecco perché non c’è molto da celebrare nella Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Questo appuntamento avrà senso solo se cercherà di affrontare questi problemi, chiedendo con forza a Bruxelles, ai Governi nazionali, alle istituzioni, in una parola alla politica, di portarli a soluzione entro un tempo ragionevole. Altrimenti rischia di diventare una cerimonia sterile. Quasi un alibi per chi ha la responsabilità, il potere e il dovere di dare risposte alle migliaia di giovani, uomini e donne, che bussano alle porte dell’Europa per vedersi riconosciuti i più elementari diritti umani e civili, a cominciare da quello alla vita stessa.

 Don Mussie Zerai

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