lunedì 14 dicembre 2015

Cento profughi intrappolati nella guerra del Sud Sudan

Agenzia Habeshia. Comunicato stampa
 Appello alla comunità internazionale




“Siamo abbandonati da oltre una settimana. Anche i funzionari dell’Unhcr non si sono più visti. Da tre giorni, intanto, infuria la battaglia a pochissima distanza dal luogo dove siamo accampati: ne udiamo il fragore, quando è buio ne vediamo i bagliori degli spari e dei fuochi. Siamo soli, indifesi. Terrorizzati per quanto può accadere. Molti rifugiati dell’Africa Centrale che erano con noi hanno lasciato il campo di notte: sono fuggiti senza dirci nulla. Noi, fuori da qui, non sappiamo dove andare: siamo costretti a restare, ma non c’è alcuna protezione. I militari di passaggio saccheggiano tutto ciò che trovano. Noi non possiamo opporci: dobbiamo subire e basta. E il pericolo cresce di giorno in giorno. Siamo tanti, un centinaio almeno, con molte donne e bambini…”.
C’è tutta la disperazione di chi non vede vie di scampo in questa richiesta di aiuto che un profugo eritreo ha fatto arrivare all’agenzia Habeshia dal Sud Sudan. Un dramma in più nel dramma enorme della guerra civile esplosa dal 2013 tra le milizie dinka del presidente Salva Kiir e quelle nuer dell’ex vicepresidente Riek Mashar. Una guerra feroce che ha provocato decine di migliaia di morti, circa due milioni di profughi costretti a fuggire dalla propria casa, dentro o fuori i confini, e sta aprendo le porte a una carestia spaventosa che, secondo un’indagine dell’Unione Africana, potrebbe interessare non meno di 4,5 milioni di persone.
Una situazione estrema eppure trascurata o addirittura totalmente ignorata dai media occidentali, nonostante i ripetuti, allarmanti rapporti di Human Rights Watch e di Amnesty International. E meno che mai, in questo strano clima di “silenziamento”, si parla dei profughi “stranieri” rimasti intrappolati in una guerra non loro: soprattutto eritrei, etiopi e somali entrati in Sud Sudan come “zona di transito” o, al massimo, di prima sosta, durante la fuga dal proprio paese. Come, appunto, il centinaio che sono riusciti a raggiungere Habeshia con un cellulare.
Si tratta di 101 persone: 70 eritrei, 2 somali e 29 etiopi di etnia oromo, in fuga, questi ultimi, dalle persecuzioni del governo di Addis Abeba che anche di recente – rileva un rapporto di Human Rights Watch – ha represso con estrema violenza e una raffica di arresti la protesta di numerosi giovani contadini contro  il rischio di essere sfrattati dalla loro terra. Si trovano da oltre quattro mesi nel campo profughi di MAKPANDU, posto sotto le insegne dell’Unhcr, l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, nel comprensorio di Yambiyo, una città con meno di 40 mila abitanti, lontana 600 chilometri da Juba, la capitale, ma al centro di una zona strategica importante: passa da qui una delle principali strade che conducono al confine con il Congo, distante una quarantina di chilometri. Forse proprio per questo tutta quell’area è fortemente contesa tra le truppe ribelli e quelle filo-governativi. La battaglia si è avvicinata progressivamente al campo, fino ormai a lambirlo.
Nel timore di essere presi tra i due fuochi o che addirittura il campo venga a trovarsi al centro dei combattimenti, molti profughi sono fuggiti. Ma per questi cento eritrei, etiopi e somali anche la fuga è un azzardo enorme. A differenza di quelli provenienti dal Centro Africa, non sanno dove andare: indietro non possono tornare e fuori dal campo di MAKPANDU per loro c’è il nulla: nessuna meta con un minimo di sicurezza da raggiungere, almeno finché tutt’intorno infuria la battaglia. E poi, soprattutto, sono un gruppo estremamente vulnerabile: tra i 70 eritrei ci sono 17 donne e ben 20 bambini; tra i 29 etiopi oromo altri 9 bambini e 6 donne, di cui una in stato di gravidanza piuttosto avanzata. “A un certo punto abbiamo anche pensato di andarcene, ma non possiamo esporre i nostri piccoli e le nostre donne a una marcia senza prospettive, a piedi, su piste estremamente pericolose, senza scorte di cibo adeguate e, in definitiva, senza un luogo preciso dove dirigerci: non ci resta che rimanere nel campo. E sperare che qualcuno ci venga finalmente in aiuto”, ha spiegato ad Habeshia il giovane eritreo che è riuscito a telefonare.

Habeshia si appella ora alla comunità internazionale. Al Commissariato Onu per i rifugiati, in particolare: “Tutto il Sud Sudan è un inferno. Non a caso Human Rights Watch ha denunciato più volte che crimini di guerra continuano ad essere commessi da entrambe le parti in lotta. Ma la situazione segnalata al campo di MAKPANDU appare di un’urgenza estrema anche rispetto a questo caos di sangue e di violenza. Ogni giorno, ogni ora che passa può essere fatale. Occorre organizzare un canale umanitario per portare in salvo prima possibile questi profughi. Poi, una volta al sicuro, l’Unhcr dovrà trovare il modo di attuare per loro un programma di reinsediamento, perché possano essere accolti in un paese in grado di garantire una forma di protezione internazionale: sono donne, uomini e bambini in cerca solo di pace e di dignità”.
don Mussie Zerai

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