venerdì 9 dicembre 2016

Profughi. Lettera aperta al commissario Ue Avramopoulos









Gentile commissario,

le scriviamo a nome dell’Agenzia Habeshia che, come forse saprà, si occupa della tragedia dei profughi e dei migranti e che, dunque, vorrebbe vedere in lei un alleato nel difficile cammino teso a dare libertà, dignità e sicurezza ai milioni di persone costrette ad abbandonare la propria terra.

Partiamo da una delle ultime, drammatiche richieste di aiuto. Certamente conoscerà il rapporto dell’Onu che appena poche settimane fa ha denunciato che oltre 400 mila bambini sono vittime della carestia, in Nigeria, a causa della situazione provocata dai miliziani fondamentalisti di Boko Haram. Anzi, secondo l’Unicef, 75 mila rischiano di morire di fame nei prossimi mesi, al ritmo di 200 al giorno. Senza contare le uccisioni, i rapimenti, i saccheggi che investono interi villaggi, gli attentati, le stragi e tutto il nord del paese precipitato da anni sotto il controllo diretto dei fondamentalisti fedeli all’Isis. E allora qualcosa non torna se ripensiamo alle sue dichiarazioni, diffuse da tutti i media europei, secondo cui non occorre cambiare i criteri delle nazionalità dei rifugiati da accogliere e “ricollocare” in qualcuno degli Stati dell’Unione.


“Se confrontiamo Italia e Grecia, vediamo che fino all’80 per cento dei migranti che attraversano l’Egeo sono profughi, mentre la maggioranza di quelli che arrivano in Italia dal Mediterraneo centrale, anche in questo caso l’80 per cento, sono irregolari. Non intendiamo cambiare i criteri…”: questa è la dichiarazione che le ha attribuito la stampa, in risposta a chi le chiedeva se non pensasse a qualche modifica per le nazionalità da ridistribuire, visto che in Italia non ci sono “abbastanza siriani ed eritrei”. Ecco, già questa idea delle nazionalità come “requisito a priori” sembra a dir poco assurda. Se non altro perché – lei lo sa bene – secondo il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra, le richieste di asilo vanno esaminate caso per caso, ascoltando le storie individuali di ciascuno e non, invece, espletate in base a criteri di “appartenenza nazionale” come purtroppo si sta ormai facendo, tanto da accogliere solo coloro che fuggono dalla Siria sconvolta dalla guerra o dall’Eritrea schiavizzata dalla dittatura di un regime autoritario.


Se proprio vuole, tuttavia, parliamo pure di nazioni e paesi. Abbiamo detto della Nigeria, dove per migliaia di persone l’alternativa è morire sotto i colpi di Boko Haram o di fame. Andiamo oltre: ad esempio, prendiamo il Sud Sudan. Anche in questo caso, lei è troppo ben informato, per il ruolo che riveste, per non sapere che la guerra civile che sta devastando il paese da tre anni, tanto da provocare almeno 10 mila morti e 3 milioni di profughi, rischia di trasformarsi in un vero e proprio genocidio, con le fazioni in lotta pronte ad ammazzare e a fare strage in base all’etnia, seguendo la logica perversa della pulizia etnica. Lo denuncia un rapporto dell’Onu pubblicato all’inizio di dicembre, in aggiunta all’ormai “abituale” corollario di uccisioni, rapimenti, villaggi saccheggiati e incendiati, incursioni persino all’interno dei campi profughi posti sotto le insegne dell’Unhcr. Per non dire della “carestia provocata”: già, a parte i cambiamenti climatici e la siccità, da almeno due anni non si fanno più le semine a causa della guerra e, dunque, non ci sono raccolti per soddisfare almeno in parte i bisogni alimentari della popolazione.
Allora, che dire? Chi fugge da questo inferno non deve essere accolto in Europa come rifugiato?


Ma l’elenco di situazioni come questa è lunghissimo. La Somalia implosa e in preda alla guerra civile, con i miliziani di Al Shabaab, affiliata ad Al Qaeda, che mettono a segno una media di oltre 900 attentati l’anno, con centinaia, migliaia di morti e, anche qui, una siccità e una carestia che investono milioni di uomini e donne. Il Mali dove, contrariamente a quanto si continua a dire in Europa, la guerra esplosa con la rivolta del 2012 nelle regioni del nord, il cosiddetto Azawad, non è mai finita, come dimostra la lunga, quotidiana catena di attacchi, attentati, agguati, uccisioni. Il calvario del Darfur, la martoriata regione del Sudan che non conosce pace da anni e che alimenta, appunto, un flusso costante di profughi che vedono nella fuga l’unica via di salvezza dalle violenze di ogni genere perpetrate dalla polizia del regime di Al Bashir, i famosi “diavoli a cavallo”. Lo Yemen, travolto dalla guerra tra sciiti e sunniti: anche qui migliaia di morti e milioni di profughi o sfollati, disperati scacciati dalle loro case e dalle loro città anche dalle bombe e dalle armi che l’Europa (e l’Italia in particolare) vende, insieme agli Stati Uniti, ad una delle fazioni in lotta. O, ancora, il Gambia, soggiogato per anni da una dittatura feroce, che speriamo sia stata davvero scacciata dalle elezioni di qualche giorno fa. O la Repubblica Centrafricana. O lo stesso Niger, scelto dall’Europa per farne un grande “hub” di smistamento per i profughi ma che sembra tutt’altro che sicuro, in seguito alla crescente escalation di attacchi terroristici da parte di Boko Haram dalla Nigeria e di jihadisti di Aqim e dell’Isis dal Mali, tanto che nel giugno scorso il coordinatore delle Nazioni Unite, Fode Ndiaye, si è appellato alla comunità internazionale parlando senza mezzi termini di “crisi umanitaria”…


Si potrebbe continuare – lei lo sa – per chissà quanto ancora. Con l’Afghanistan, ad esempio, dove l’Unione Europea vuole “rimpatriare” 80 mila profughi, come se il paese fosse diventato all’improvviso “pacifico e sicuro”. Purtroppo i media parlano poco di queste tragedie e l’opinione pubblica ne sa poco. Ma che si tratti, appunto, di tragedie lo denunciano i profughi che continuano a bussare alle porte dell’Europa, in fuga dalla Nigeria, dal Sud Sudan, dal Sudan, dalla Somalia, dal Gambia e così via: basta scorrere l’elenco delle nazionalità dei tanti giovani sbarcati in Italia. Però, stando alle sue dichiarazioni, a quanto pare queste situazioni non sarebbero “sufficienti” ad aprire le porte della solidarietà in Europa. Non bastano a garantire – come pure prevede il diritto internazionale – aiuto e accoglienza.
Perché questa scelta? Habeshia non riesce a spiegarselo. A meno che  il motivo non sia che questi Stati da cui si è costretti a fuggire sono in buona parte proprio gli stessi con cui l’Unione Europea ha stretto tutta una serie di trattati per fermare i profughi prima ancora che arrivino alle sponde del Mediterraneo. Ci riferiamo ai Processi di Rabat e Khartoum, agli accordi firmati a Malta nel novembre 2015, al patto con la Turchia da lei esaltato e che, in effetti, funziona benissimo come “barriera” posta al di là dell’Egeo: peccato che funzioni sulla pelle dei profughi. Già, perché accordi e patti di questo genere servono all’Europa per esternalizzare le sue frontiere addirittura al di là del Sahara o comunque lontano dalla sponda meridionale del Mediterraneo, delegando ad altri il lavoro sporco di sorvegliarle, queste frontiere, e renderle invalicabili. E le sue dichiarazioni, ora, rischiano di dare voce ulteriore a chi vuole alzarle ancora di più le barriere dell’egoismo e dell’indifferenza e si appella da sempre a una politica di chiusura e respingimento.

Noi speriamo davvero, come Habeshia, di essere smentiti. Ma – a meno di smentite, appunto – proprio questo emerge dalle sue parole riferite dai media. Parole che sembrano dimenticare che lasci la casa solo quando la casa non ti lascia più stare1Cordiali saluti,
  
Don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia Habeshia

Emilio Drudi, portavoce dell’Agenzia.

Roma, 8 dicembre 2016
  
NOTA


1 – Giuseppe Cederna, Home. I versi successivi dicono: Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci fuoco sotto i piedi, sangue caldo in pancia, qualcosa che non avresti mai pensato di fare, finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…

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