venerdì 13 gennaio 2017

Norme chiare sull’accertamento dell’età dei minori stranieri non accompagnati

Il 6 gennaio 2017 è entrato in vigore il d.p.c.m. n. 234/16regolamento che definisce i meccanismi per la determinazione dell’età dei minori non accompagnati vittime di tratta, adottato in attuazione dell’art. 4 d.lgs. n. 24/14.
La corretta identificazione come minorenni dei ragazzi e delle ragazze di età inferiore ai 18 anni che giungono nel nostro Paese costituisce un presupposto essenziale affinché siano loro applicate le misure di protezione e assistenza previste dalla normativa vigente. Se erroneamente identificati come maggiorenni, infatti, questi adolescenti non vengono accolti in strutture per minori e spesso vengono lasciati per strada, con l’elevato rischio di essere vittime di sfruttamento a scopo sessuale o di altro tipo. In alcuni casi, inoltre, vengono trattenuti in un CIE ed espulsi.
Ad oggi, non esiste alcun metodo scientifico che consenta una determinazione certa dell’età perché le differenze di maturazione scheletrica, accrescitiva e puberale fra soggetti della stessa età anagrafica sono frequenti, ampie e fisiologiche. Il metodo attualmente più utilizzato, la valutazione della maturazione ossea del polso e della mano, comporta un margine di errore di ± 2 anni. Spesso, tuttavia, sul referto non viene indicato il margine di errore, il che impedisce l’applicazione del principio di presunzione della minore età in caso di dubbio. Va inoltre considerato che tale metodo, sviluppato per lo studio dei disordini della crescita e della pubertà e non per finalità medico legali, si basa su standard ormai datati e comunque definiti su popolazioni (caucasici, per lo più anglosassoni americani o britannici) ben differenti rispetto a quelle di appartenenza dei soggetti valutati. Inoltre, diverse situazioni fisiologiche e genetiche, patologiche o ambientali possono accelerare o rallentare la maturazione scheletrica. A questo si aggiunge la possibilità di errore di refertazione da parte di operatori non esperti che eseguono solo occasionalmente tale prestazione.
Anche nei casi in cui gli accertamenti siano effettuati in modo così gravemente inadeguato, in genere i risultati non possono essere oggetto di contestazione in quanto il referto non viene quasi mai consegnato all’interessato né al tutore. Vi sono, poi, casi in cui vengono effettuati accertamenti sanitari anche su individui in possesso di un documento identificativo da cui risultano minorenni.
Il d.p.c.m. n. 234/16 chiarisce le procedure che devono essere adottate per determinare l’età dei minori vittime di tratta e introduce alcune fondamentali garanzie, prevedendo che:
·         solo ove sussistano fondati dubbi sull’età e questa non sia accertabile attraverso documenti identificativi (passaporto o altro documento di riconoscimento munito di fotografia), le Forze di Polizia possono richiedere al giudice competente per la tutela l’autorizzazione all’avvio della procedura multidisciplinare per l’accertamento dell’età;
·         tale accertamento è condotto, nel rispetto del superiore interesse del minore, da un’équipe multidisciplinare presso una struttura sanitaria pubblica, individuata dal giudice, ed è svolto attraverso un colloquio sociale, una visita pediatrica auxologica e una valutazione psicologica o neuropsichiatrica, alla presenza di un mediatore culturale, tenendo conto delle specificità relative all’origine etnica e culturale dell’interessato;
·         il minore deve essere adeguatamente informato, con l’ausilio di un mediatore culturale, sul tipo di esami cui sarà sottoposto, sulle loro finalità e sul diritto di opporvisi;
·         la relazione conclusiva deve riportare l’indicazione di attribuzione dell’età stimata specificando il margine di errore insito nella variabilità biologica e nelle metodiche utilizzate ed i conseguenti valori minimo e massimo dell'età attribuibile;
·         nei casi in cui, considerando il margine di errore, la maggiore o minore età resti in dubbio, la minore età è presunta;
·         il provvedimento di attribuzione dell’età, adottato dal giudice competente per la tutela, è notificato, con allegata traduzione, all’interessato e al tutore, e può essere oggetto di reclamo;
·         in attesa della determinazione dell’età, l’interessato deve comunque essere considerato come minorenne al fine dell’accesso immediato all’assistenza e alla protezione.

Mentre il d.p.c.m. n. 234/16 disciplina finalmente in modo chiaro le procedure per la determinazione dell’età dei minori non accompagnati vittime di tratta, vi sono ancora significative lacune normative per quanto riguarda i minori non accompagnati che non siano riconosciuti come vittime di tratta. Questi ultimi rappresentano ad oggi la quasi totalità dei minori non accompagnati presenti in Italia (in alcuni casi effettivamente non vi è alcun reato di tratta, in altri casi il minore è vittima di tratta ma non viene riconosciuto come tale).
Importanti norme sull’accertamento dell’età di tutti i minori non accompagnati sono previste dal disegno di legge S. 2583, approvato alla Camera e attualmente all’esame del Senato. Si attende inoltre la definitiva approvazione da parte della Conferenza Unificata del Protocollo per l'identificazione e per l’accertamento olistico multidisciplinare dell’età dei minori non accompagnati” presentato dalla Conferenza delle Regioni nel marzo 2016.
In attesa dell’approvazione in via definitiva di tali atti, le organizzazioni firmatarie auspicano che le disposizioni previste dal d.p.c.m. n. 234/16 siano applicate in via analogica a tutti i minori stranieri non accompagnati, anche non vittime di tratta.

Apparirebbe del tutto irragionevole, infatti, ipotizzare che i meccanismi per la determinazione dell’età debbano essere differenti a seconda che il minore non accompagnato sia o meno vittima di tratta, fatta eccezione per l’esigenza di tenere in considerazione gli specifici traumi derivanti dallo sfruttamento e dagli abusi subiti dai minori vittime di tratta.

Si ricorda che il Ministero dell’Interno ha in passato chiarito come il principio di presunzione della minore età in caso di dubbio, sancito dal codice di procedura penale minorile, “possa trovare applicazione in via analogica anche in materia di immigrazione”, dunque anche con riferimento ai minori non sottoposti a procedimento penale (circolare del Ministero dell’Interno del 9 luglio 2007). Lo stesso ragionamento vale per l’applicazione in via analogica delle norme di cui al d.p.c.m. n. 234/16 ai minori che non siano vittime di tratta.

Nella circolare del 25 luglio 2014, il Ministero dell’Interno ha poi espressamente previsto, con riferimento a tutti i minori non accompagnati per i quali si renda necessario l’accertamento dell’età e non solo ai minori vittime di tratta, che tale accertamento debba essere svolto “secondo i criteri dell’art. 4 del D.Lgs. n. 24/2014”, in attuazione del quale è stato adottato il d.p.c.m. n. 234/16.

Va infine evidenziato come il d.lgs. 142/2015, all’art. 2 lett. e), abbia fornito una definizione unitaria di “minore non accompagnato”, tale essendo “lo straniero di età inferiore agli anni diciotto, che si trova, per qualsiasi causa, nel territorio nazionale, privo di assistenza e rappresentanza legale”, senza distinguere, dunque, dalla ragione della presenza in Italia. Definizione unitaria che esclude la possibilità che possa attuarsi un trattamento discriminatorio in sede di accertamento dell’età, poiché sarebbe fondato su una illegittima differenziazione basata sulla condizione personale, vietata dall'art. 3 della Costituzione.

In attesa dell’adozione del Protocollo sopra citato e delle norme generali sull’accertamento dell’età previste dal ddl S. 2583, di cui si auspica la celere approvazione senza modifiche rispetto al testo licenziato dalla Camera, riteniamo che solo l’immediata applicazione delle norme previste dal d.p.c.m. n. 234/16 anche ai minori che non siano vittime di tratta possa consentire un’efficace identificazione dei minori non accompagnati, nel rispetto delle principali raccomandazioni adottate in materia a livello internazionale e nazionale (tra cui le raccomandazioni dell’UNHCR del 2014 e il parere del Consiglio Superiore della Sanitàdel 2009), ai fini di una piena tutela dei diritti loro riconosciuti dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, dal diritto comunitario e dalla normativa interna.

[Per approfondire segnaliamo la pagina http://www.asgi.it/minori- stranieri-accertamento-eta/  che contiene i principali riferimenti sull'accertamento dell'età (normativa, protocolli, raccomandazioni, giurisprudenza ecc.)]
13 gennaio 2017


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Nonostante la condanna del 2012 si profila un altro patto di respingimento

di Emilio Drudi

Petrolio, terrorismo, lotta ai trafficanti di uomini. Sono i punti essenziali dell’intesa raggiunta dal ministro dell’Interno Marco Minniti a Tripoli. Il più immediato dei tre appare senza dubbio il terzo: la “lotta ai trafficanti”. Un “titolo” nel quale la parola “immigrazione” non compare. Eppure sembra proprio questo il vero obiettivo: il controllo dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo. Ma “controllo” come? Lo stesso Minniti ha fatto riferimento ad una continuità con i trattati stipulati tra Roma e Tripoli ai tempi di Gheddafi e subito dopo: il primo nel 2008, con il governo Berlusconi, firmato, come “capo” del Viminale, dal leghista Roberto Maroni; il secondo nel 2012, governo Monti, con la firma di Annamaria Cancellieri. “Tenendo conto degli accordi già fatti tra Libia e Italia – ha spiegato infatti Minniti in una dichiarazione a La Stampa – abbiamo comunemente deciso di raggiungere un’intesa nei tempi più brevi possibili, che consenta di combattere insieme gli scafisti”.
Più che un patto per “combattere insieme gli scafisti”, però, quello di Maroni era un piano di respingimento, che ha portato l’Italia sul banco degli imputati e poi a una dura condanna da parte della Commissione Europea per i diritti dell’uomo. L’accordo prevedeva il pattugliamento misto, con personale e navi italiane e libiche, delle acque territoriali di Tripoli e del Mediterraneo, con l’obiettivo di riportare in Africa – come in effetti è avvenuto – tutti i migranti intercettati, a prescindere dalle loro ragioni e dalle loro storie e negando la possibilità di presentare una richiesta di asilo. In sostanza, un respingimento di massa indiscriminato. Poi, una volta ricondotti in Libia, questi migranti sono finiti in centri di detenzione (in Italia definiti ipocritamente centri di accoglienza) finanziati da Roma, che si sono rivelati autentici lager, dove gli “ospiti” sono sottoposti a un trattamento inumano, a ricatti, a ogni genere di violenze, inclusi stupri sistematici per le donne, come hanno documentato numerose inchieste giornalistiche e soprattutto i rapporti di Ong come Medici Senza Frontiere, Amnesty, Human Rights Watch. Senza contare la taglia di almeno mille dollari pretesa dalle guardie per poter uscire da quell’inferno.

Roma ha sempre preferito ignorare questa terribile realtà, tanto da rinnovare senza problemi, il 3 aprile 2012, con il governo nato dalla rivolta del 2011, l’accordo sottoscritto quattro anni prima tra Berlusconi e Gheddafi. Anzi, nel luglio 2013, l’esecutivo guidato da Enrico Letta, non solo ha ribadito l’accordo Cancellieri del 2012, ma ai pattugliamenti in mare ha aggiunto l’impegno di fornire a Tripoli mezzi, logistica e addestramento per blindare il confine terrestre meridionale della Libia, in modo da bloccare i profughi al di là del Sahara, in pieno deserto. Non una parola, né con Monti né con Letta, sulle condizioni disumane dei migranti rinchiusi nei 23 centri di detenzione istituiti nel frattempo in tutto il territorio libico.
Si era proprio alla vigilia dell’accordo firmato da Annamaria Cancellieri a Tripoli quando, il 22 febbraio 2012, è arrivata la condanna del “tribunale” di Strasburgo, che ha contestato all’Italia di aver violato, con i respingimenti indiscriminati in mare, la Convenzione sui diritti umani: in particolare, l’articolo 3, quello sui trattamenti degradanti e la tortura. Il giudizio ha preso le mosse dalla vicenda di 200 profughi, in maggioranza eritrei e somali, che intercettati su un barcone alla deriva nel Canale di Sicilia, il sei maggio 2009, in acque internazionali, da una nave della Marina italiana, sono stati presi a bordo e riportati in Libia, contro la loro volontà, senza essere identificati e senza verificare se avessero i requisiti per ottenere l’asilo politico o comunque una forma di protezione. Consegnati alla polizia libica, sono finiti tutti nei centri di detenzione, dove molti hanno subito maltrattamenti, sevizie, torture. Ventiquattro di loro, rintracciati dal Consiglio italiano per i rifugiati, una volta liberi hanno sollevato il caso di fronte alla Corte di Strasburgo. Il processo, durato due anni, si è concluso con la condanna dell’Italia. Condanna la quale, anche se mossa dal ricorso di sole 24 persone, ha dato voce in realtà a tutti i migranti respinti in mare dalla Marina italiana e dalla Guardia Costiera libica. Ha messo sotto accusa, cioè, il fondamento della politica di Roma nei confronti dei migranti, sottolineando che veniva sistematicamente violato il protocollo della Convenzione di Ginevra in base al quale sono proibiti i respingimenti collettivi.

Né il Governo Monti né il Governo Letta hanno tenuto conto di questa pesante sentenza, che è stata anzi quasi “silenziata”. Pur ponendo fine ai respingimenti in mare, infatti, nelle intese successive con Tripoli si è continuato sostanzialmente a procedere sulla linea di chiusura tracciata da Maroni. Ora c’è da chiedersi che cosa abbia in mente il Viminale con il patto annunciato da Minniti. Non è pensabile che si voglia tornare ai respingimenti dei profughi sui barconi da parte direttamente della nostra Marina. A giudicare dal programma di addestramento affidato alcuni mesi fa proprio all’Italia dall’Unione Europea, questo compito verrà con ogni probabilità svolto dalla Guardia Costiera libica, con un raggio d’azione che si potrebbe spingere fino a 80 miglia dalla riva africana, ben oltre le acque territoriali. Già adesso le barche cariche di migranti intercettate sotto costa vengono costrette dalle motovedette di Tripoli a ritornare in Libia: con l’entrata in vigore del nuovo piano, quando la Marina libica svolgerà il suo compito di gendarme fino alle soglie delle acque europee, appare evidente che avverrà lo stesso con i battelli fermati nel Canale di Sicilia.
C’è da sospettare, insomma, che si stiano preparando di nuovo respingimenti di massa indiscriminati nel Mediterraneo, in contrasto con il diritto internazionale, ma “appaltati” a terzi. Ovvero, che il “lavoro sporco” di bloccare e riportare in Libia i battelli dei migranti verrà svolto da Tripoli – che non ha mai riconosciuto la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati – su incarico dell’Italia e della Ue, in linea con la scelta dell’Europa, introdotta da accordi come il Processo di Khartoum o i trattati di Malta, di affidare a qualcun altro, a pagamento, la vigilanza sui confini di mare e di terra. Illudendosi così di restare con le “mani nette”.
Il capitolo successivo è la blindatura della frontiera meridionale, già programmata con l’accordo firmato nel 2013 dal Governo Letta ma che non si è mai concretizzata per gli avvenimenti e gli scontri armati che hanno fatto implodere la Libia, divisa tra due governi contrapposti (Tripoli e Tobruk), dilaniata da rivalità tribali e conflitti tra miliziani di ogni colore, inclusi i gruppi jihadisti di Al Qaeda e dell’Isis. Per rilanciare questa blindatura c’è l’impegno specifico, analogo a quello del 2013, di fornire a Tripoli mezzi e assistenza in grado di potenziare i controlli lungo tutta la linea di confine del Sahara. Letta promise autoblindo ed altri mezzi speciali per il deserto e l’addestramento di 5 mila tra poliziotti e militari. E’ probabile che ora sia previsto un “contributo tecnico/logistico” della stessa portata. Pare sia già disponibile, però, anche materiale più sofisticato che Roma ha fornito a Tripoli negli ultimi mesi di potere di Gheddafi: un sistema radar in grado di individuare tutti i movimenti e le infiltrazioni dal Sahara verso la Libia. In sostanza, una “barriera elettronica”, fatta di radar e sensori a infrarossi, che consente alla polizia di frontiera una vigilanza costante e una capacità di intervento estremamente rapida. Progettato e realizzato da Finmeccanica, l’impianto non è mai entrato in funzione a causa della caduta di Gheddafi, ma il materiale è stato regolarmente consegnato. Il costo totale del programma si aggira sui 300 milioni di euro, pagati interamente dall’Italia perché l’Unione Europea, “all’ultimo momento”, si sarebbe rifiutata di coprire la sua parte di spese, circa 150 milioni.
A rivelare l’esistenza di questo programma è stato, in una intervista rilasciata al quotidiano Il Tempo di Roma nel settembre 2015, Pierfrancesco Guarguaglini, ex presidente di Finmeccanica, secondo il quale il sistema, fino a quel momento (poco più di un anno fa), era ancora a disposizione del governo libico e con tutta probabilità perfettamente funzionante. “Una delegazione del nuovo governo – ha specificato infatti Guarguaglini – mi ha detto di aver visto le casse imballate in alcuni depositi. Il materiale non era distrutto. Forse funziona: il sistema è di quelli ancora all’avanguardia…”.

Questo “muro” elettronico appare una palese conferma di come Roma, prima d’intesa con Gheddafi ma poi anche con i governi libici successivi, abbia sempre perseguito una politica di chiusura nei confronti dei profughi, preoccupandosi di esternalizzare la frontiera italiana ed europea il più a sud possibile, fino al Sahara, senza considerare la tragedia di migliaia di disperati, uomini e donne, in fuga da situazioni di crisi estreme. In linea con i respingimenti in mare voluti nel 2008 dal ministro Maroni. Il piano Minniti sembra aver imboccato la stessa strada: stando a quanto è emerso finora sulla stampa, l’obiettivo guida è quello di bloccare in Libia o comunque in Africa, al di là del Sahel, i migranti che puntano verso il Mediterraneo attraverso le piste del deserto, guardando all’Italia e all’Europa come ultima speranza. Bloccarli a prescindere dalla sorte che li attende, ignorandone le storie e gli orrori da cui sono scappati o che incontrano nei paesi di transito e di prima sosta. L’importante è che non arrivino a bussare alle porte della Fortezza Europa. Non a caso, sia nelle dichiarazioni di Minniti che nell’intervista resa, il 10 gennaio, al quotidiano Libya Herald dal nuovo ambasciatore a Tripoli Giuseppe Perrone, si parla insistentemente di collaborazione per combattere i trafficanti, prevenire e porre fine agli imbarchi dalle coste libiche, mentre non c’è neanche un cenno all’eventualità di istituire canali legali di immigrazione. Che sono l’unico sistema concreto per eliminare l’attuale mercato di morte e smetterla di fare del Mediterraneo un enorme cimitero.



Tratto da: Diritti e Frontiere

mercoledì 11 gennaio 2017

Già 6 profughi morti nel 2017 ma l’Italia continua ad alzare barriere






di Emilio Drudi

Già sei profughi hanno perso la vita dall’inizio dell’anno. Uno “a terra”: il bambino siriano di 7 anni malato, respinto da ben quattro ospedali ad Antalya, nel sud-est della Turchia. Cinque annegati il quattro gennaio nel naufragio di un gommone poche miglia al largo di Tripoli. Anzi, le vittime potrebbero essere molte di più. La Guardia Costiera libica, oltre alle cinque salme, ha recuperato 65 naufraghi ma, tenendo conto che su ciascun battello vengono in genere costretti a salire dai trafficanti non meno di 100/110 migranti, c’è da temere che ci siano dai 30 ai 40 dispersi.
Un’altra tragedia è stata scongiurata in extremis dalla Aquarius, la nave di Sos Mediterranee e di Medici Senza Frontiere, arrivata appena in tempo a salvare 145 donne e uomini su un altro gommone ormai semi-affondato. Inclusi questi 145 naufraghi, nei primi sette giorni del 2017 sono arrivati in Italia quasi 600 profughi, recuperati, oltre che dalla Aquarius, da unità di soccorso messe in mare da altre Ong: la nave catalana di Proactive Open Arms e la Golfo Azzurro olandese. I flussi dall’Africa verso l’Italia, infatti, non si sono interrotti neanche con il sopraggiungere del maltempo. Lo conferma Yohan Mucherie, il coordinatore dell’equipe di ricerca di Sos Mediterranee: “Tutti contavano che l’inverno avrebbe fatto diminuire le partenze, ma non è stato così. L’anno è appena iniziato, siamo nel pieno dell’inverno e noi di Sos Mediterranee come altre Ong stiamo soccorrendo centinaia di persone lasciate alla deriva in mare, su battelli di fortuna, dopo essere fuggite da condizioni di vita inumane”. “Nel Mediterraneo continua una grave situazione d’emergenza”, ha aggiunto Sophie Beau, direttrice della stessa Ong.
E’ l’ennesimo grido d’allarme, ma la risposta europea resta quella di chiudere gli occhi e alzare barriere, in linea con il Processo di Khartoum e gli accordi di Malta, i trattati sottoscritti con numerosi Stati africani per bloccare i migranti direttamente in Africa e rimandare nei paesi d’origine o di transito quelli espulsi dall’Europa. Va esattamente in questa direzione il programma, annunciato dal ministro dell’Interno Marco Minniti, di moltiplicare gli allontanamenti dei migranti “irregolari”, facendo dei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, uno dei cardini della politica sull’immigrazione. Una nuova politica presentata come una “stagione a tolleranza zero” e che fa temere respingimenti di massa indiscriminati, decisi in base alla nazionalità dei migranti e, peraltro, anticipati nell’agosto scorso dal rimpatrio forzato di 40 ragazzi sudanesi fermati in un centro accoglienza a Ventimiglia. Sulla stessa linea il ministro della difesa Roberta Pinotti la quale, in una intervista televisiva, ha illustrato l’altro aspetto della “strategia”, spiegando che occorre impedire ai battelli dei migranti di lasciare la Libia: “La missione europea di sicurezza marittima deve rimanere – ha dichiarato – ma occorre imprimerle una trasformazione. In accordo con il governo di Tripoli dobbiamo sostenere la guardia costiera perché ci siano dei controlli nelle loro acque. Non possiamo continuare a veder partire migliaia di barconi dalle coste libiche”. Se si aggiungono i patti con vari Stati che la Farnesina e il Viminale hanno già firmato o stanno cercando di firmare, perché i migranti vengano bloccati prima ancora che possano raggiungere la sponda meridionale del Mediterraneo per cercare di imbarcarsi, il quadro è completo.
Come dire: i profughi devono restare in Libia o comunque in Africa. Si sta erigendo una barriera difficile da superare come quella costruita con il Processo di Rabat sulla rotta del Mediterraneo Occidentale, dal Marocco verso la Spagna, che da anni, infatti, fa registrare flussi molto bassi rispetto alle altre: nel 2016 poco più di 8 mila arrivi contro gli oltre 180 mila segnalati in Italia e in Grecia. Solo che barriere di questo genere colpiscono per primi non certo i trafficanti ma gli stessi migranti, bloccati e respinti ad ogni costo, a prescindere dalla sorte che li attende, dalla loro storia, dagli orrori che hanno vissuto, dalla disperazione che li ha indotti a tentare la fuga come ultima speranza.
Il tutto mentre proprio in Africa si moltiplicano le situazioni di crisi estreme, anche se la politica europea e italiana sembrano non accorgersene. Emblematico il caso del Sud Sudan. Dal luglio scorso a oggi la guerra civile che sconvolge il paese dal 2013 è diventata ancora più feroce, assumendo connotazioni etniche sempre più marcate. Gli ultimi rapporti dell’Onu denunciano senza mezzi termini che si è sull’orlo di un genocidio, perché le diverse milizie ormai ammazzano, stuprano, saccheggiano senz’altro motivo che l’etnia delle vittime. Non a caso i profughi, quasi due milioni fino a cinque mesi fa, sono aumentati di almeno 400 mila a fine dicembre. Disperati che si sono riversati nei paesi vicini, soprattutto in Uganda, perché i miliziani non esitano ad assalire anche i centri di accoglienza gestiti dall’Unhcr.
E ce ne sono tantissime altre di queste “situazioni estreme”. Nella Nigeria sconvolta dalla rivolta jihadista di Boko Haram, con circa 20 mila morti e milioni di profughi, un rapporto dell’Unicef ha denunciato che 400 mila bambini sono vittime della carestia: 75 mila rischiano di morire di fame già nei prossimi mesi, al ritmo di 200 al giorno. Il governo ha annunciato come risolutiva, nella lotta contro le milizie fondamentaliste, la distruzione di una delle loro basi principali e la riconquista delle maggiori città del nord est, dove è nata la rivolta. In realtà numerosi osservatori segnalano che Boko Haram controlla ancora larghe zone di territorio sia in Nigeria che negli Stati vicini (Ciad, Niger, Camerun) e nulla lascia prevedere che attentati, stragi, uccisioni, rapimenti, violenze possano cessare. Non nel breve periodo, comunque. In Somalia le milizie di Al Shabaab, legate ad Al Qaeda, sono padrone di gran parte del paese e stanno conquistando, una dopo l’altra, anche le città e i villaggi abbandonati dai reparti dell’esercito etiopico presenti dal 2006 ed ora richiamati in patria. In Mali la guerra scoppiata nel 2012 con la rivolta tuareg non è in realtà mai finita: anzi, proprio il Mali e più in generale il Sahel sono indicati come probabile nuova, principale base per la lotta dell’Isis in Africa, alimentata anche da miliziani provenienti dalla Libia. Non a caso, proprio in questi giorni, nel timore di infiltrazioni di terroristi in fuga dalla regione di Sirte, il Ciad ha chiuso la sua frontiera.
E ancora. In Gambia, la sconfitta elettorale non ha posto fine alla dittatura che ha soffocato con galera, uccisioni, violenze, ogni forma di dissenso: il presidente Yahya Jammeh si è rifiutato di lasciare il potere. Tutto come prima: anzi, è stato costretto a fuggire dal paese anche il presidente della commissione elettorale che ha proclamato la sconfitta di Jammeh. Il Congo è alla soglia della guerra civile perché il presidente Joseph Kabila, insediato nel 2001, vuole restare per un terzo mandato: solo negli ultimi dieci giorni di dicembre ci sono stati quasi cento morti in una serie di scontri e repressioni che hanno investito Kinshasa, la capitale, e le altre principali città. Lo stesso accade nel Burundi dall’aprile 2015, quando il presidente Pierre Nkurunziza, è stato confermato per la terza volta con elezioni viziate da arresti, violenze, morti: dall’indomani del voto ad oggi sono state accertate 348 esecuzioni extragiudiziali e 651 casi di tortura, arresti, detenzioni arbitrarie, ma le vittime potrebbero essere molte di più perché foto satellitari avrebbero individuato numerose fosse comuni. E nell’ultimo anno e mezzo è stata repressa ogni possibilità di opposizione: cento giornalisti sono dovuti fuggire all’estero, tredici Ong sono state chiuse, numerosi avvocati radiati, aboliti i diritti civili.
C’è da chiedersi, allora, che senso abbia adottare una politica che respinge i profughi in situazioni come queste o comunque li blocca in Africa, scaricandoli su paesi di transito spesso allo sbando come la Libia o magari ad alto rischio come il Niger, dove appena pochi mesi fa l’Onu ha dichiarato lo stato di “emergenza umanitaria” in numerose regioni in seguito ad una serie di attacchi jihadisti sferrati sia dalla frontiera con la Nigeria che da quella con il Mali. La realtà è che l’Unione Europea e l’Italia confermano la scelta di esternalizzare i propri confini sulla sponda sud del Mediterraneo o addirittura oltre il Sahara, pagando “altri” perché facciano il lavoro sporco di impedire con ogni mezzo ai migranti di varcarli. E’ questo, in definitiva, che emerge dai programmi del Viminale, della Difesa e della Farnesina, con la “giustificazione” della necessità di gestire l’immigrazione e della lotta ai trafficanti. Non una parola, infatti, sull’istituzione di canali legali di immigrazione, che sono l’unico modo valido per “amministrare” i flussi, combattere davvero i trafficanti, mettere fine alla strage nel Mediterraneo e nei paesi di transito.
 Tratto da: Diritti e Frontiere


lunedì 9 gennaio 2017

Eritrean Refugees CYCLING TEAM fundraising project

A group of Eritrean refugees in Ethiopia who have formed a club of cyclists, seeking a sponsor to continue racing. They have already been accepted and recognized by the sports federation in Ethiopia, will soon be competing in Kenya at the continental level. We try to support them with fundraising, if anyone interested in this project please contact us.


Dear Abba Mussie Zerai
Date 03/01/2016
Greetings first!!!
We are Eritrean Refugees CYCLING TEAM based in Addis Ababa, Ethiopia. Our team riders were composed of talent Eritrean riders. Currently we have 12 riders. We dream big for our team in the future. Indeed we are aiming to become an UCI continental team for 2017. And do races in Africa and other continents. It Mean that we want to become one of the best team in the world and compete against the best riders in the world. But more important we want to develop African cycling, and become the number one African cycling team and help young African cyclists to become Proffessionals. We want to show to evry body in the world that African refugee can have a team constitute of African staff and riders. That Africans are the future of cycling and also of the sport. As part of our programe we made a lot of internal & few international races esspecialy in 2016. At this moment we have 12 riders with having 8 modern road bikes. That means that we are urging to search some governmental or NGO’s that helps us to donate 4 road bikes having a 52 & 54 sizes to challenge the current problem which is facing us.

1. What national and international competitions are you scheduled to participate in and what is the schedule? 
Firstly I would like to express my gratitude for being interested in our team. And in the name of all who struggle to survivie we wish you all the best for the coming year 2017. To get back to your question our club came in to existence on February 2015. At that time we could have completed in the Tour Dedebeit held in Ethiopia but we had a 100% shortcoming and few members of the team competed in the mountain bike competitions. Our team finished the year of 2015 without participating in major races in Ethiopia. In the year 2016 we made major progress. At the beginning of the year the team still had problems but we managed to compete in March and the outcome was encouraging. In the following championship races one of our cyclists, Daniel Teklay finished first on two occasions and second in the individual time trial race. In addition to this our team finished second in the team time trial of the Addis Ababa annual cycling championship. After this we have tried to keep contact with several federations from all over the world in order to participate internationally through facebook and email address. And we were invited in many races. Since we were not able to acquire the passport on time we didn’t participated. But this year we will compete in many these races.

2. What is the training plan for the riders? Do you have a daily, weekly or monthly plan you can tel me about or show me? 
We train regularly and produce weekly training plans. For instance after Sunday competition, the team trains an easy 60 km training in Monday. Tuesday’s training is longer and covers a 140 km with slopes in order to activate indurance. On Wednesday the team trains in a 40 km speed training and make sure the trainins is finished in less than an hour. On Thursday the cyclists train in a 120 to 140 km where they pedal normal. On this training they pedal around 25 km/hr. They reset on Friday. To relax their muscles they train for 50 km on Saturday. Then we enter the Sunday competition. Our training is not for tours. When training for tours to increase indurance, ti up to 200 km daily.

3. Where do the riders live? How do they make a living? Do they need to work on jobs other than riding? 
We are located in Addis Ababa, Ethiopia. For accommodation as a team we manage from the little remittance we get from family and relatives and live together. Our cyclists are aged between 18 and 24 and have a vision and talent to develop and compete as professionals. In order to stay healthy and strong, they don’t work any other job. After training they have ample time for rest.

4. Which organization or agency held your team and who finances you? We don’t have governmental or non-governmental sponsors. 
As I have mentioned above, the team is supported families and relatives in diaspora of the cyclists. An amount of less than three thousand dollars was donated by Eritreans humanitarian group in America. We expend this money to buy the team’s jersey and one road bike for the talent cyclist Daniel Teklay. It took us for months to finally hold the refugee passport from UNHCR. This is one of the main problems that impeded us from participating in international races in 2016.

5. Are you in connection with other pro teams and associations over Africa and the world? Is there any cooperation between you? 
We have. We have committee for public relations. This committee’s work is to contact both national and international federations of cycling competitions and interact with professional and amateur team to share experience. As a result, we have received 9 invitations which we should have participated. Because we were granted the passport later we were not able to participate. Now that we have our passport we will participate in international competitions from beginning of the coming year. In April we have two international races and that is The Tour of Togo & Tour of Gila (USA). In May and June we will compete in Tour of BEUACHE & Tour of Sagunay (Canada) respectively. We have many other invitations from Africa, Asia & South American nations. And we ask you politely to help us and make contacts with the organizations of the Tour of ARAD Israel.

6. What nationalities do you have on your team? 
So far our club is comprised of Eritrean refugee and members only. However, many African brothers and cyclists have asked to join in. in due time, after solving our financial problems, we plan to add cyclists in Israel and others in Africa and Europe who compete individually. As yet, Filimon Gebregziabihier has come from Israel and joined the club’s competition. Our door is open to any talented with our any prejudice of origin.

7. Do young refugees riders, kids and adolescents have an opportunity to start riding professionally? 
In order to achieve your aim what you need is to start up. Because we had started with a clear vision, our club was able to own gears and jersies and competed in relatively good races. Our future plans are to upgrade into professional team and we have no doubts this will be possible. These refugees with clear vision and practical work can reach professional stage definitely. The gold medalist Eritrean-Dutch in Rio-Brasil Para Olympic is one example of this. 

8. What is the situation of the pro riders in Eritrea? 
Cycling in Eritrea passes through many impediments. These cyclists who compete in the ground tour are not because of their talents and excellence. Many of the talented cyclists are seattered all of the world, this gave the few remaining to win. Another reason many talented leave to do their national service. And this is hard to swallow for these talented cyclists. However, one way or another, cycling can be described as the 10th ethnicity group and 3rd religion in our country. Even our mothers use them on daily basis. It is given as a gift to a child and ride it to and from school from a young age. It is for this reason that Eritrea from the whole Africa comes first raising a number of amateur and professional cyclist and the stronges teams.

Our trainer! (MEWAEL MEHANSHO) HEAD COACH OF AFRICA REFFUGEE CYCLING TEAM
He was born in 1979 in a place called Demsebay. He learned his elementary, Junior and secondary education in asmara. In 1994 he joined the N.U.E.Y.S. with the mountain bike competition. In 1997, after he finished his high school education, he left for Sawa to enlist in the 7th round military training. From 1998 to the day he stepped down from the saddle of a bicycle he competed with teams like Barako and Zula. Under the umbrella of N.U.E.Y.S, Mewael played a great role in remodeling and developing mountain bike and giving birth to most of the cyclists that are competing internationally. He was an exceptional citizen who worked as a trainer for clubs such as Keih Bahri and Debubawi Keih Bahri Zone and introduced tour Eritrea Mountain Bike in 2007. In the four tours that have been done, he is the only youth that has cycled the whole country. From 2003 he dedicated his life in promoting through mass media and published a book titled “Cycling Competition in Eritrea, 1936-2011” that describes the history of cycling in Eritrea. As a result of all his devotion and hard work to improve cycling in Eritrea, he has been promoted to technical manager of the national cycling federation. Mr. Mewael Mehansho, curently the coach for the Africa reffugee cycling team that has been based in Addis ababa capital of Ethiopia, is certified with the 'level 1 UCI cycling coaching lesson'. and he just left Eritrea 22 months ago. And he founded the team to offer opportunities for the promissing Eritrean riders who are fleeing out of the country for different reasons and became refugees in Ethiopia. Africa Reffugee cycling Team This team is founded by the former Eritrean technical manager of the Eritrean national cycling federation, Mr. Mewael mehansho, curently the coach for the team that has been based in addis ababa capital of Ethiopia. The team comprises a group of individuals which consists both cyclists and members of the technical and official sector of the club. The main purpose of the club is to create a foundation for all African refugees, including Eritrean refugees living in Ethiopia, where the cyclists can demonstrate their skills and share experience. In addition, to change the fate these cyclists which is basically crossing borders illegally, the Sahara and the mediteranean sea like so many refugees, endangering their lives to the point of death. At this moment the club is launched by a group of 12 refugees having 8 road bikes. And made necessary talks to Eritrean cyclist located in different parts of the world. Finhace Micheal from USA, Senay Tsegay from Uganda and we already joined Filmon Gebregiorgis from Israel. The future plans of Africa Refugee Cycling Team has plans to participate in both continental and international competition to find permanent solution to all its preliminary difficulty. And we would like to convey our deepest gratitude to all the countries which invited us to participate in different competitions and we promise to try putting into consideration our budget. Our finance will also decide our future programs in including our African refugee brothers who have requested in joining our club. But we beleive financial shortcoming will not overcome our efforts and deligence. In the near future our club will join some talented cyclists from different refugee camps.



Technical & Management Personnel:
1. Mewael Mehansho Sereke, Head Coach Coach
2. Michael Tesfazghi Gebregziabihier, Team Coach
3. Birikti Kalaab BerhaneMeskel (Team Physician)
4. Natsinet Tesfamariam Mehari (Public realations) Mechanics
5. Medhanie Andemariam Gebregergish
6. Merhawi Mebrahtu Gebrekiristos

12 Cyclists:
1. Daniel Teklay Gebrekiristos
2. Yohannes Eyob Yosief
3. Mehari Haile Gebreselasie
4. Merhawi Tesfalem Menameno
5. Natnael Haile Okbay
6. Sirak Yohannes BieDemariam
7. Michael Nuguse Bekuredngil
8. Bienhur Fetsum Abraha
9. Yonas Afewerki TewoldeBrhan
10. Filimon Gebregziabiher Gebregergish
11. Mussie Ghirmay Kibreab
12. Amanuel Wolday Mihtsun


Africa Refugees cycling Team,

Adiss Ababa, Ethiopia., 

giovedì 5 gennaio 2017

Migranti, a Cona l’ennesimo naufragio del sistema Italia


di Emilio Drudi

La protesta esplosa nel centro accoglienza di Cona, dopo la morte di una giovane ivoriana, ha di nuovo scoperchiato la realtà del “sistema Italia” per i migranti. “Di nuovo” perché la situazione era ormai fin troppo chiara, specie dopo quanto è emerso con Mafia Capitale, l’indagine promossa dalla Procura di Roma che ha investito diverse strutture di ospitalità romane e si è poi estesa a casi analoghi in altre parti del Paese, incluso il Cara di Mineo, in Sicilia, il più grande d’Europa, dando origine anche a una commissione parlamentare d’inchiesta. Prima ancora di Mafia Capitale, anzi, a mettere sotto accusa il sistema erano stati tutta una serie di dossier roventi presentati da Ong come Medici per i Diritti Umani, Amnesty, Habeshia, l’Asgi, Lasciatecientrare. Roventi ma rimasti inascoltati. Così come, a ben vedere, è stata di fatto “dimenticata”, dalle istituzioni e dalla politica, anche la stessa Mafia Capitale: altrimenti non si sarebbe arrivati a una vicenda come quella di Cona.
Sembra trattarsi ancora una volta, a Cona, di un “caso di scuola”, con una gestione piena di ombre dell’accoglienza da parte della Ecofficina Edeco di Padova, leader nel settore in Veneto. Ombre, in particolare, nel centro dove è maturata la protesta: 1.500 giovani stipati in una ex base militare, che ne potrebbe ospitare al massimo, in condizioni dignitose, poche centinaia. C’è da stupirsi, anzi, che la protesta non sia scoppiata prima. Negli ultimi mesi, infatti la cooperativa è stata coinvolta in ben tre inchieste, con l’ipotesi di truffa, falso e maltrattamenti. Non solo. A parte le indagini di carabinieri e magistratura, la coop (che in breve tempo, secondo quanto riferisce il Fatto Quotidiano, citando fonti di stampa locali, avrebbe decuplicato il fatturato) lo scorso settembre è stata allontanata dalla Confcooperative perché faceva “troppo business”. Come dire: sarebbe venuta meno al modo di agire, al sistema, allo spirito proprio delle cooperative. A spiegare nei dettagli i motivi del provvedimento al Fatto è stato Ugo Campagnaro, presidente regionale Confcoop: “Non esiste – ha detto – una legge che impedisce di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza, della qualità dell’intervento, dell’integrazione e della relazione. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business. Per tutte queste ragioni vogliamo prendere le distanze da questo soggetto e dalla maniera in cui opera”.
C’è da chiedersi come mai la stessa attenzione della Confcooperative non l’abbia manifestata la Prefettura di Venezia, che si è accordata con la Ecofficina per il centro di Cona, con ispezioni e controlli sulle condizioni di vita degli ospiti, sugli alloggi, sui servizi effettivamente prestati, ecc., facendosi magari venire dei dubbi sulla opportunità della scelta fatta e “richiamando all’ordine” i responsabili. Specie a fronte, in particolare, dell’indagine sui presunti maltrattamenti aperta nell’aprile 2016 sulla scia di una segnalazione che denunciava “cibo di scarsa qualità distribuito agli ospiti delle strutture gestite dalla coop, angherie, soprusi e nessun corso di alfabetizzazione organizzato per far studiare l’italiano ai migranti”. Denunciava, cioè, la pressoché totale inadempienza degli impegni assunti di fronte allo Stato. Senza esito, del resto, è rimasta anche l’interrogazione parlamentare presentata da Giovanni Paglia, deputato di Sinistra Italiana, e che ha anticipato ampiamente quanto è venuto ora alla luce: “Condizioni di alloggio, limitate di fatto a tende di diverse dimensioni, caratterizzate da sovraffollamento e condizioni ambientali estremamente disagiate… Difficoltà di garantire assistenza sanitaria adeguata… Rischio che la situazione possa degenerare in qualsiasi momento”. Non risulta che l’allora ministro dell’interno Alfano abbia risposto o preso qualche provvedimento. Ed ora si è arrivati alla sommossa di cui tutti parlano.
Cona, però, è tutt’altro che un episodio isolato. Segnalazioni analoghe, ad esempio, continuano ad arrivare all’agenzia Habeshia da tutta Italia. Il contenuto delle denunce è sempre lo stesso: alloggi inadeguati, cibo scadente ma, soprattutto, la costrizione in un limbo infinito e pieno di incertezza, senza alcuna informazione sulle procedure da seguire o sullo “stato” delle richieste di asilo o relocation in un altro Stato europeo, per la mancanza pressoché sistematica di mediatori culturali e linguistici in grado di esprimere le esigenze dei profughi ai gestori dei centri e alle stesse istituzioni, a cominciare dalle prefetture e dalle questure. Accade a Roma e a Latina nel Lazio; in varie località della Sicilia; a Crotone e Cosenza in Calabria; a Taranto in Puglia; a Napoli, Caserta e Salerno in Campania; a Bergamo in Lombardia. O, ancora, a Cagliari, dove si è dovuta registrare anche la morte di un giovane eritreo in circostanze mai chiarite sino in fondo: trovato agonizzante ai piedi di un albero, accanto all’edificio del Cas dove era ospite, secondo i carabinieri è rimasto vittima di un incidente mentre tentava di rientrare nella sua stanza dalla finestra, dopo l’orario di chiusura, ma altri profughi sono convinti che si tratti di un suicidio, provocato dallo stato di depressione in cui il ragazzo era sprofondato a causa dei lunghi tempi di  attesa per i documenti di esule e per le condizioni di vita nel centro.
E’ l’immagine di un disastro, perché queste strutture allo sbando, i Cas, centri di assistenza straordinaria, sono il cardine del sistema di accoglienza italiano. Con quasi 145 mila posti disponibili (75 mila in più rispetto al dicembre 2015) coprono l’80 per cento dell’offerta messa in campo dallo Stato. Offerta che sale addirittura all’86 per cento se si aggiungono i Cara (i centri per richiedenti asilo) contro appena il 14 per cento della rete Sprar organizzata in collaborazione con i Comuni, che è l’unica a garantire o almeno tentare un percorso adeguato di inserimento sociale. La spesa, assorbita dalle cooperative e dalle altre organizzazioni che gestiscono le strutture,  è ripartita di conseguenza. Dei 1.162 milioni di euro stanziati complessivamente nel 2015, 918,5 milioni sono andati appunto ai Cas e ai Cara mentre 243,5 sono stati destinati allo Sprar. La ripartizione dei 1.200 milioni investiti nel 2016 (una media di 100 al mese) ricalca grossomodo la stessa proporzione.
Già queste cifre evidenziano le falle del sistema Italia. L’accoglienza si basa essenzialmente su strutture “straordinarie”, cioè temporanee e precarie, adatte al massimo per un soggiorno di poche settimane, non di mesi e di anni interi. Il compito di trovarle, nelle varie province, è affidato ai prefetti, senza alcuna programmazione a monte, con il risultato che viene in pratica utilizzato qualsiasi tipo di alloggio, purché reperibile rapidamente. “Con i profughi già sull’uscio”, ha detto sagacemente un operatore volontario. Così nella “mappa” è finito di tutto: caserme chiuse e in disuso da anni, appartamenti o addirittura interi edifici sfitti, scuole ed altri edifici pubblici inutilizzati, casolari di campagna, stanze d’albergo, pensioni, sistemazioni presso affittacamere. Catapultando i migranti dove capita e quasi sempre senza neanche preoccuparsi di informare preventivamente i sindaci e le popolazioni locali, di cui invece è assolutamente necessario avere la collaborazione e la comprensione. Anche questo – al di là delle numerose, fin troppe contestazioni strumentali di certe parti politiche – ha contribuito a suscitare molte proteste e un clima diffuso di incomprensione o addirittura di rifiuto.
Non solo. Proprio questa improvvisazione e questo criterio costantemente “precario” di affrontare il problema hanno impedito controlli e trasparenza, favorendo spesso gravi, lucrose, inaccettabili speculazioni. Oltre che  un livello medio di trattamento e ospitalità assolutamente inaccettabile, come ha denunciato fin dal febbraio 2016 una meticolosa indagine condotta da Cittadinanzattiva, dal gruppo Lasciatecientrare e dall’associazione Libera, presentata presso la sede della Federazione della Stampa a Roma e rimasta però pressoché inascoltata: dalla “politica” e dalle istituzioni ma anche dai principali media.
Non risulta che, da allora, ci sia stato un cambiamento di rotta. Semmai, come dimostrano Cona e numerose altre situazioni analoghe, la piaga si è allargata. Il punto è che il Governo ha sempre affrontato e continua ad affrontare il problema dei migranti come una “emergenza” e non come un problema strutturale, da risolvere con un programma organico, basato su punti di riferimento certi e provvedimenti stabili. Dopo l’arrivo dei 170 mila migranti del 2014, non si può dire in alcun modo che flussi analoghi non fossero prevedibili per il 2015 e poi per il 2016. Specialmente per il 2016, dopo l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia che ha enormemente ridotto il flusso verso la Grecia, crollato dagli 850 mila arrivi del 2015 ai poco più di 173 mila di quest’anno, trasferendo dall’Egeo al Mediterraneo Centrale la principale via di fuga dall’Africa e dal Medio Oriente. Eppure si è continuato a improvvisare. E non sembra destinato a cambiare molto le cose nemmeno il recente accordo tra il Viminale e l’Anci per incrementare la rete dello Sprar, con l’impegno di assegnare ai Comuni una quota di 2,5/3 profughi ogni mille abitanti. Non, almeno, fino a quando l’auspicabile “accoglienza diffusa” non si baserà su quote obbligatorie, regione per regione e comune per comune, organizzate con indicazioni “dal basso”, tenendo conto delle diverse situazioni locali.
C’è da chiedersi quale sia il motivo di questa inerzia. Viene da pensare che nei piani del Governo, più che l’intenzione di razionalizzare e migliorare il sistema di asilo e accoglienza, portandolo al livello dei paesi più avanzati (Germania, Svezia, Olanda, Norvegia), ci sia quella di rilanciare la scelta del respingimento adottata ormai da anni e da attuare ora attraverso accordi internazionali come il Processo di Khartoum, i trattati di Malta e tutti i patti bilaterali che ne sono seguiti tra l’Italia e vari paesi africani. Patti spesso di polizia e dunque mantenuti segreti, come è accaduto per quello firmato il 3 agosto 2016 con il Sudan, del quale si è avuta notizia solo quando è stato effettuato il primo rimpatrio di massa forzato dall’Italia, nei confronti di 40 profughi fermati a Ventimiglia. Va esattamente in questa direzione la prima, importante decisione presa dal ministro dell’interno Marco Minniti, appena insediato al Viminale, di riaprire i Cie e di moltiplicare i rimpatri dei migranti “irregolari”, senza specificare quali siano i criteri per definire “irregolare” un migrante. E non si discosta granché da questa linea Deborah Serracchiani, vicesegretaria del Pd e presidente del Friuli, la quale, pur dichiarandosi contraria alla riapertura dei Cie, ha chiesto a sua volta di incrementare le espulsioni.


Tratto da: Diritti e Frontiere