lunedì 26 novembre 2018

La dittatura eritrea: da che parte sta Jovanotti?



di Emilio Drudi

Jovanotti ha fatto uscire in questi giorni “Chiaro di luna”, un video che prende il titolo da una delle sue canzoni più ascoltate e più cantate nei 67 concerti Live tenuti quest’anno. Per ambientarlo ha scelto Asmara, in Eritrea. La città scorre veloce nelle immagini: le strade, le piazze, le “architetture italiane”, la sala del bar del cinema Roma, un salone di parrucchiere, piccole scene di vita quotidiana. Perché proprio Asmara? Un po’ per una specie di “ritorno alle radici”: il nonno di Jovanotti ha fatto per anni il camionista in Eritrea. Il resto lo ha spiegato lo stesso cantante: “Sapevo poco dell’Eritrea. Avevo solo sentito o letto qualche racconto sull’Africa OPrientale dei tempi che fu colonia. E poi le notizie che moltissimi dei ragazzi che arrivano in Italia attraverso il Mediterraneo sono eritrei. Da tanto volevo andarci… Lo avevo già programmato, in solitaria, zaino e via. Poi ho sentito che quello era il posto giusto per questa canzone e non c’era nessuna alternativa che mi convincesse. Volevo raccontare l’Africa senza stereotipi, perché non esiste luogo al mondo più complesso e più legato al nostro destino e gli stereotipi e le generalizzazioni fanno sempre e solo male. I ragazzi non scappano se trovano opportunità e maggiori spazi di lavoro. Sono orgoglioso di starci e di tornarci in Eritrea. Proprio come Yonas, un giovane eritreo esperto di video che ci ha fatto il backstage e che ha deciso di recente di tornare dall’Italia ad Asmara con sua moglie e sua figlia”.
Ma ci sono tanti, tantissimi, la maggioranza tra i giovani della diaspora, che non la pensano come Yonas. E che non vogliono né possono tornare in Eritrea, perché dall’Eritrea sono stati costretti a scappare per non finire schiavi della dittatura. Perché la loro, in una parola, è una “fuga per la vita”. Dei loro sentimenti si è reso interprete il Coordinamento Eritrea Democratica: “Il punto – dice - è uno solo: in occasione della promozione del video si può stare al gioco della dittatura, che sta cercando di fare della pace appena firmata con l’Etiopia l’ennesimo pretesto propagandistico per rafforzarsi; oppure si può fare della pace uno strumento per il ritorno della libertà e della democrazia. Tutto qui: basta scegliere. Anzi, mai come adesso bisogna scegliere: o con la dittatura o con chi si batte per una nuova Eritrea”.
Poche, chiare parole. Accompagnate però da una lunga lettera a Jovanotti. La riportiamo di seguito integralmente.

Caro Jovanotti,
le scriviamo a nome del Coordinamento Eritrea Democratica, una organizzazione che riunisce le principali forze di opposizione e resistenza presenti in Italia contro il regime di Asmara. Abbiamo visto il video che accompagna le sue ultime musiche. Sarebbe stato difficile, del resto, non vederlo: l’Ansa lo ha messo in rete, lo hanno rilanciato numerose testate giornalistiche, il Tg-1 gli ha dato un grande rilievo….
Bello. Tutto bello. Non nascondiamo che ha suscitato in noi una certa emozione. E ci ha riempito il cuore di nostalgia per la nostra terra. I ragazzi che ha scelto come “protagonisti”: la giovane coppia, in particolare. E la gente. La partita a dama. Due chiacchiere davanti a un caffè, in un magnifico bar d’epoca come qui in Italia non se ne trovano più. La corsa ciclistica con i tifosi assiepati lungo le strade. E poi gli scorci e gli edifici di Asmara, questa città magnifica, che ci riempie d’orgoglio, non a caso dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Però…
Però, c’è un però. Anzi, più di uno. Da quelle immagini emerge un’Eritrea che non c’è. Forse lei non se ne è accorto, ma non c’è. Non c’è quella serenità o anche solo quella “normalità” che suggerisce il filmato. Se è vero, come è vero, che una città è il “luogo dello stare insieme”, allora Asmara non è più una città, perché ad Asmara non si vive più “insieme”: basta grattare un po’ ed emergono diffidenza, sospetto, paura. E i ragazzi eritrei, purtroppo, sono lontanissimi dal quadro suggerito da quella descrizione a tinte rosa della sua storia. La storia, la vita vera dei giovani eritrei, la racconta, ad esempio, la terribile vicenda di Ciham Ali Ahmed.
Ciham è una ragazza di 21 anni, con cittadinanza eritrea e statunitense, figlia dell’ex ministro dell’informazione, accusato di “cospirare” contro il Governo e fuggito in esilio. E’ stata arrestata nel 2012, quando di anni ne aveva appena 15, l’età di molti dei suoi fans, quella in cui ci si affaccia alla vita pieni di sogni e speranze. Ma i sogni e le speranze di Cihan sono stati bruscamente troncati quel giorno in cui la polizia di frontiera la ha bloccata e gettata nel buio di una galera, mentre stava cercando di entrare in Sudan insieme allo zio, fatto sparire a sua volta, così come è sparito anche il nonno, arrestato arbitrariamente, senza accuse da cui potersi difendere, e morto in carcere. C’è da pensare a una rappresaglia contro una famiglia di dissidenti, invisi al regime. Non solo: in questi sei lunghissimi anni di carcere i suoi genitori, i suoi fratelli, Ciham non hanno mai potuto vederla né sentirla. Perché Ciham è una detenuta incommunicando, cioè totalmente segregata dall’esterno. Proprio in queste settimane, mentre lei si accingeva a partire per l’Eritrea, Amnesty ha lanciato una mobilitazione internazionale per chiedere al Governo dove sia finita Cihan, per liberarla e riunirla ai suoi cari…
Ma lei non si è accorto di Cihan.
Si vedono, nel filmato, strade tranquille e gente spensierata. Ma nessuno è tranquillo davvero in Eritrea, perché per passarsela male basta un niente: basta appena appena che il regime sospetti che non sei allineato. Basta la soffiata di un delatore. E, infatti, il paese è stato trasformato in uno stato-prigione. Pensi, che ci sono oltre 300 carceri, nelle quali sono rinchiusi, perseguitati, torturati, talvolta uccisi, 10 mila prigionieri politici. Badi, 300 carceri con una popolazione di 5 milioni di abitanti: nel Lazio, con lo stesso numero di abitanti dell’Eritrea, di carceri ce ne sono 12. Ma in Eritrea gli arresti degli oppositori sembrano non finire mai. L’ultimo caso è quello di Berhane Abrehe, ex ministro delle finanze ed ex delegato alle Nazioni Unite. Anche lui è stato fatto sparire: arrestato per strada ad Asmara, non si sa nemmeno in quale galera sia finito. E’ “colpevole” di aver scritto un saggio in cui spiega il suo progressivo distacco dal regine e di aver poi invitato il presidente Isaias Afewerki a un confronto alla Tv di Stato sulla politica condotta in questi anni.
Ma lei non se ne è accorto.
Ed è strano che, sempre nel filmato, non compaia un solo giovane in divisa militare. Neanche di sfuggita. Strano perché in Eritrea tutti sono soggetti a una leva, in armi o come soldati-lavoratori, che dura un numero indefinito di anni, dall’adolescenza alle soglie della vecchiaia. Questa è la vita vera degli eritrei: la militarizzazione totale che ti ruba metà dell’esistenza. E che, finora, non si è attenuata nemmeno dopo la firma della pace a cui il regime è stato trascinato dall’Etiopia con la sua politica di riforme e distensione che sta trasformando il Corno d’Africa. Anzi, il conflitto ventennale contro Addis Abeba si è appena concluso, ma non è da escludere che venti di guerra tornino già a soffiare: dopo aver messo a disposizione le basi da cui partono gli aerei della coalizione saudita che ogni giorno vanno a bombardare indiscriminatamente lo Yemen (colpendo anche scuole, ospedali, mercati, moschee, ogni genere di obiettivi civili), ora Asmara sembrerebbe intenzionata ad offrire propri contingenti militari da inviare a combattere contro i ribelli Houti, al di là del Mar Rosso. Così avrà l’ennesimo alibi per non smobilitare. Fa così dal 1994, l’anno della guerra contro il Sudan, la prima di una lunghissima serie.
Ma lei non se ne è accorto.
Tutto questo orrore è stato ampiamente provato ed evidenziato da ben due inchieste dell’Onu, pubblicate nel 2015 e nel 2016. Nella prima si afferma che in Eritrea è stato eletto il terrore a sistema di potere, violando sistematicamente i diritti umani. Nella seconda, si rileva che ci sono  elementi più che sufficienti per deferire i principali responsabili del regime alla Corte internazionale dell’Aia.
Ma lei non se ne è accorto.
Allora, bello, bellissimo il suo filmato. Peccato che descriva o, quanto meno, suggerisca una immagine ingannevole dell’Eritrea. Un’Eritrea che dal 1993, quando ha conquistato l’indipendenza, in realtà non c’è mai stata. O meglio, quell’Eritrea c’è stata per sole 24 ore: è nata ed è morta lo stesso giorno dell’indipendenza. Ci fu, quel giorno, una festa enorme. La gente sembrava impazzita di gioia e di fiducia nel futuro. Tutti erano convinti, quel giorno, quel breve giorno, che fosse iniziato il cammino verso un’Eritrea libera, democratica, aperta. Ma quel sogno è stato subito soffocato. E quella incontenibile gioia dei ragazzi che si abbracciavano e ballavano per strada si è spenta totalmente via via che quegli stessi ragazzi sono diventati adulti e vecchi. Peggio ancora, si è spenta nei loro figli, che infatti sono scappati e continuano a scappare a migliaia anche dopo la firma della pace, perché il problema vero è la dittatura, molto prima e più della guerra. Secondo i dati dell’Unhcr, dalla metà di luglio alla fine di ottobre, sono oltre 15 mila i nuovi esuli, soltanto verso l’Etiopia. Un esodo che sta svuotando il paese delle sue energie migliori. E ne uccide il futuro…
Ma lei non si è accorto neanche di questo.
Se vuole, possiamo discutere insieme di queste cose. Che ci spezzano il cuore, ma di fronte alle quali non ci arrendiamo. Noi saremmo lieti di incontrarla per un confronto franco e senza pregiudizi, ma in pubblico.


Il diritto dei deboli non è un diritto debole!

Meno sgomberi, più accoglienza diffusa
Il diritto dei deboli non è un diritto debole!
Bisogna evitare a tutti livelli, l'affermazione di fatto di un principio molto grave, che "il diritto dei deboli possa essere un diritto debole" questo è inaccettabile in una democrazia sana e matura, perché una vera democrazia fa di tutto per tutelare il diritto dei più vulnerabili, dei più deboli, a maggior ragione di chi è arrivato rischiando la vita convinto di trovare protezione e asilo. I fatti di questi ultimi mesi e l'annunciato decreto sicurezza rischiano di far passare nel opinione pubblica l'idea che il diritto dei più deboli è calpestabile, che non vale nulla, perciò un diritto debole. Tutto ciò è gravissima lesione alla dignità delle persone che si trovano in stato di bisogno e di fragilità. Una dannosa erosione di valori che danno sostanza alla democrazia, la Solidarietà, la Giustizia, la Libertà.
Roma. Parte dei migranti evacuati dal campo “spontaneo” dietro la stazione Tiburtina vagano ancora da una strada all’altra. Dormono all’aperto. Mangiano, dove quando e come possono. Nessuno mette in dubbio la legittimità di questo e di altri, analoghi sgomberi di centri accoglienza improvvisati o di edifici invasi abusivamente. Oltre tutto, strutture di questo genere finiscono, più volte, per creare situazioni molto border line, nelle quali riesce a infiltrarsi di tutto. Solo che spesso queste evacuazioni forzate non prevedono e non offrono soluzioni di accoglienza e alloggio alternative: riportano magari “legalità e sicurezza” – come si dice sempre – negli spazi occupati ma creano gravi condizioni di disagio, emarginazione e, in definitiva altra illegalità e insicurezza.
Mineo. Centinaia di migranti hanno dato vita a una vasta, forte protesta. Denunciano le pesanti condizioni di vita all’interno del centro di accoglienza, il più grande e famoso d’Europa. Qui non si tratta di una struttura abusiva: si tratta di un enorme campo “governativo”, che dipende dal ministero dell’interno e dalla prefettura, ma il tipo di “ospitalità” non è molto dissimile da quello di tanti campi “spontanei”. E l’angoscia per il futuro esattamente la stessa. Anzi, ora, con le restrizioni annunciate dal Governo, ancora più pesante.
Roma e Mineo. Ma si possono citare decine, centinaia di casi analoghi in tutta Italia. Il punto è, infatti, che a non funzionare è il sistema stesso. Tutto il sistema, perché invece di accogliere diventa esso stesso uno strumento di clandestinazione forzata, parcheggiando i migranti come in un limbo, per anni, nell’attesa infinita delle risposte alle domande di asilo e facendo quasi sempre dei “fantasmi” senza diritti persino quelli che ottengono il permesso di soggiorno, perché quasi non esiste un percorso di inclusione sociale che se ne faccia carico. 
Gli ultimi provvedimenti previsti dal Governo, a partire dal capitolo immigrazione del decreto sicurezza, peggioreranno ulteriormente la situazione: per i rifugiati, ma anche per la vita delle città, grandi e piccole, che ospitano una qualche struttura che si occupa dei migranti. Quello che emerge, infatti, è la volontà non di migliorare ma di restringere al massimo l’accoglienza e, di contro, moltiplicare la politica di chiusura e respingimento. Sono diverse le cose che preoccupano nel programma messo in moto. In particolare, però,
– La soppressione di fatto del sistema Sprar, il capitolo gestito dai Comuni, la parte migliore di tutto il sistema, ispirato al principio dell’accoglienza diffusa e l’unico che preveda un itinerario di integrazione sociale, basandosi su piccoli nuclei sparsi nel territorio. In sostanza, il solo settore che funziona. In questo modo si tornerà alle grandi “concentrazioni” senza sbocco, quasi sempre ingestibili e che sono, queste sì, fonte di problemi, frustrazione, difficoltà, sospetto, ostilità, ecc.
– L’abolizione della “tutela umanitari” Ovvero, l’abolizione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari. Aggiunto agli effetti del decreto Minniti-Orlando che ha abolito il diritto di ricorrere in appello contro le sentenze di respingimento delle commissioni incaricate di esaminare le richieste di asilo, questo provvedimento ridurrà drasticamente la concessione dei permessi di soggiorno, trasformando in “clandestini” migliaia di migranti che avrebbero invece tutto il diritto di essere tutelati, in base ai motivi che li hanno costretti a scappare. Una delle giustificazioni è che la “tutela umanitaria” esisterebbe solo in Italia. Non è vero: forme di tutela di questo tipo, magari denominate in modo diverso, esistono nella maggioranza degli Stati Ue e qualcuno che l’aveva abolita la ha poi reintrodotta.
– Il taglio drastico della cosiddetta “retta” assegnata ai Cas e in genere alle strutture di accoglienza per ciascuno degli ospiti. Dagli ormai “famosi” 35 euro giornalieri (di cui solo 2,5 destinati in contanti al migrante) si scende ad appena 19 e probabilmente anche di meno, attraverso aste al ribasso. Una cifra insufficiente anche per la sola sopravvivenza. E i tagli riguardano essenzialmente due voci: l’insegnamento della lingua italiana e la formazione lavoro. Ovvero, paradossalmente, proprio le due voci essenziali per avviare un percorso di inserimento ed evitare quella insicurezza e quella illegalità, in una parola, quello sbando che si dice di voler combattere.
Non a caso numerosi sindaci hanno votato una serie di mozioni in cui chiedono con forza di sospendere il capitolo immigrazione del decreto sicurezza. Lo hanno fatto sindaci di città grandi e importanti come Torino e Bologna, di città medie come Latina, di realtà piccole come Cerveteri. Ogni tipo di Comune, in tutta Italia. Perché i sindaci sanno bene quali sono i problemi dell’accoglienza e come risolverli, visto che li affrontano in concreto tutti i giorni. E i sindaci sono lo Stato in prima linea: lo Stato che vive tra la gente e si trova a fare i conti con le decisioni prese dal Governo.
Quasi in contemporanea con la mobilitazione dei sindaci, esponenti del Governo hanno ostentato il proprio apprezzamento per i corridoi umanitari andando di persona ad accogliere alcune decine di migranti. “Questa – hanno detto – è l’emigrazione che ci piace”. In realtà, in questi “corridoi” il Governo non c’entra granché e non spende un solo euro: li organizza l’Unhcr con la Chiesa cattolica e la Chiesa Valdese. Ma è vero, così dovrebbe essere l’immigrazione: regolare e gestita. “Regolare e gestita” sia nel viaggio di arrivo sia dopo, nell’accoglienza. Serve un programma di reinsediamento europeo per 300mila persone all'anno, per rispondere meglio con efficacia ai bisogni di protezione e di sicurezza di chi viene accolto e di chi accoglie. Per combattere realmente il traffico di esseri umani e traffico di organi, e risparmiare le orribili violenze e vessazioni per i mal capitati in fuga cercando protezione.
Alla luce di tutto questo e, in particolare, proprio di quelle dichiarazioni sui corridoi umanitari, l’Agenzia Habeshia chiede con forza di:
– Cessare immediatamente gli sgomberi forzati senza aver previsto una sistemazione alternativa per tutti gli ospiti evacuati, sul modello di quanto avviene nei sistemi di accoglienza più avanzati dei paesi europei. Un vero processo di inclusione sociale, culturale ed economico.
– Sospendere il capitolo immigrazione del decreto sicurezza e impostare di contro una riforma radicale del sistema, basata sull’accoglienza diffusa propria dello Sprar, che va reso obbligatorio in tutti i comuni italiani, con quote predefinite in base alle singole situazioni e superando il più rapidamente possibile la rete dei Cas, a cui è legata gran parte dei problemi dell’immigrazione
– Garantire la massima autonomia di giudizio delle commissioni esaminatrici delle richieste di asilo, senza ingerenze o pressioni dall’alto, ed accelerare i tempi per le risposte
– Ripristinare il secondo grado di giudizio in caso di respingimento della domanda
– Aprire canali legali di immigrazione gestiti direttamente dallo Stato in Italia e negli altri paesi europei, sotto l’egida della Ue, che consentano di evacuare le migliaia di profughi intrappolati in Libia e in altri paesi di transito e prima sosta. Canali che non si limitino alle poche decine o centinaia di quelli organizzati finora solo da istituzioni come le Chiese, la Comunità di Sant’Egidio, ecc.
Questo appello è rivolto in particolare al Governo italiano, all’Unione Europea, ai parlamentari di tutti i gruppi politici presenti a Roma e a Bruxelles.

Don Mosè Zerai,
presidente dell’Agenzia Habeshia

Roma, 26 novembre 2018  

mercoledì 7 novembre 2018

Grave preoccupazione per approvazione c.d. Decreto Sicurezza – crea irregolarità, insicurezza e lede diritti

Comunicato stampa
CIR: Grave preoccupazione per approvazione c.d. Decreto Sicurezza – crea irregolarità, insicurezza e lede diritti
Roma, 7 novembre 2018 - Il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR) è gravemente preoccupato per l’approvazione al Senato del c.d. Decreto Sicurezza. “È un decreto che non raggiungerà in nessun modo l’obiettivo che il legislatore si è posto: cioè più sicurezza nel nostro Paese. L’abolizione della protezione umanitaria creerà migliaia di irregolari che non potranno essere rimpatriati, se non in modo molto limitato. Lo smantellamento dello SPRAR determinerà nuove forme di marginalità, derive di esclusione sociale che inevitabilmente renderanno più fragili le persone che arriveranno in Italia enfatizzando il rischio di conflitti e rendendoli permeabili a percorsi di radicalizzazione.” dichiara Mario Morcone Direttore del CIR.
Il c.d. Decreto Sicurezza va a modificare molti degli aspetti portanti del sistema d’asilo e accoglienza costruito nel corso degli anni in Italia, peggiorando sia il livello dei diritti per i richiedenti asilo e i rifugiati che l’efficacia del sistema stesso.  Introduce forme estese di detenzione per richiedenti asilo, che potranno essere trattenuti solo per verificare la loro identità e senza aver commesso alcun crimine, sino a 210 giorni. Limita i servizi di accoglienza per i richiedenti asilo che non potranno più avere accesso allo SPRAR, ma che saranno accolti nei centri governativi che, per loro natura e per il preannunciato taglio dei costi, forniranno solo un posto letto e un pasto. Introduce le procedure di frontiera ed estende la cessazione dello status di rifugiato e il diniego per richiedenti asilo anche a quanti hanno commesso reati la cui gravità, come la minaccia a pubblico ufficiale o il furto, non è in alcun modo paragonabile alla lesione che potrebbe derivare loro dal venire meno della protezione.
“Vediamo un altro rischio che ci allarma molto. L’introduzione del trattenimento ai soli fini identificativi e delle procedure di frontiera determinerà sulle coste della Sicilia e delle altre Regioni del Sud la realizzazione, per necessità, di grandi centri chiusi che deterranno migliaia di richiedenti asilo. È sostanzialmente quello che alcuni Paesi Europei ci chiedono da tempo e noi non abbiamo mai voluto fare” continua Morcone.
Colpiscono infine le misure relative alla cittadinanza. I quattro anni richiesti dall’amministrazione per dare una risposta alla richiesta di cittadinanza presentata da una persona che nei precedenti 10 anni aveva già dimostrato di essere nelle condizioni richieste dalla legge, non sembrano compatibile col livello di sviluppo del nostro Paese. Le disfunzioni della pubblica amministrazione non possono essere scaricate su persone che peraltro lavorano e pagano le tasse come tutti gli altri cittadini. “Comprendo e condivido anche le ragioni che spingono verso la revoca della cittadinanza in alcuni casi specifici, che a mio avviso rimarrà una norma bandiera, ma con essa rischiamo di disarticolare un pilastro del nostro ordinamento che è l’Articolo 3 creando le categorie degli italiani e degli italiani fino a un certo punto” conclude Morcone.

Per ulteriori informazioni

Valeria Carlini
Ufficio stampa CIR
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