domenica 26 luglio 2009

La chiamate integrazione ma è assimilazione

M. Flaminia Attanasio INTERVISTA Patrocinata dalla Provincia di Roma parte a settembre Biblioteche nel mondo. Una goccia nel mare del farraginoso rapporto delle istituzioni con le esigenze degli immigrati. L’analisi della scrittrice eritrea Ribka Sibhatu. «Vogliamo essere noi attori del nostro destino, vogliamo sentirci nuovi cittadini, non immigrati. Io mi sento a casa». Queste le parole della scrittrice eritrea, consulente regionale e comunale per l’immigrazione, Ribka Sibhatu, alla presentazione dell’iniziativa Biblioteche nel mondo a Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma. Il progetto, promosso dall’assessorato provinciale alle Politiche culturali, partirà a pieno regime da settembre con lo scopo di favorire l’integrazione utilizzando le biblioteche come luogo d’incontro e scambio interculturale, e si rivolge particolarmente a coloro i quali sono nati in Italia da genitori immigrati e alle immigrate che rivestono il ruolo di tate, badanti o colf. Proprio in materia di colf e badanti, mai come ora così attuale, l’autrice ha aggiunto che «è uno strano terrore quello che gira intorno agli immigrati: ci si affida ciò che c’è di più caro, come i bambini e gli anziani, e poi ci si distrugge». Terra ha incontrato Ribka Sibhatu in occasione dell’evento romano. Dal suo libro Il cittadino che non c’è - L’immigrazione nei media italiani edito da EdUP (2004) emerge che i media italiani hanno un grosso ruolo nell’orientare l’opinione pubblica. In particolare, riferendosi al complesso fenomeno migratorio, lei afferma che (tranne sporadiche eccezioni) i media si occupano ben poco della realtà quotidiana dei migranti, del loro inserimento e della loro integrazione. Quanta responsabilità hanno ancora i media in questo senso? Cos’è cambiato dal 2004 in qua? Non è cambiato nulla e anzi le cose sono peggiorate sebbene ci siano alcuni giornali che cominciano a voler far conoscere il fenomeno agli italiani oltre ad averne preso coscienza. Ma la maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa, in particolare le televisioni, continua ad accanirsi a seconda delle campagne elettorali. Alle ultime europee per esempio si è parlato tanto di Lampedusa, di espulsioni, quando si sa che in realtà solo il 15 per cento circa degli immigrati arriva via mare e il restante 85 per cento arriva in altro modo, quindi era tutta una propaganda a fini elettorali e questo è grave anche perché la maggior parte degli italiani segue la televisione, che ha un potere di orientamento, nel bene e nel male, molto forte. Perché secondo lei spesso nei media si tende a parlare dell’immigrazione come problema e non come risorsa, come investimento per il futuro? Paura del “diverso”? Sicuramente sì, ma anche perché è una scorciatoia: l’immigrazione è un fenomeno complesso che richiede investimenti, lungimiranza e conoscenza, soprattutto dell’altro, e non tutti ce l’hanno. Far capire veramente ciò che accade riguardo al fenomeno migratorio vuol dire lungimiranza, e chi usa l’immigrazione come obiettivo negativo pensa solo al suo potere di adesso senza pensare al futuro del Paese. Nello stesso testo lei traccia una differenza tra integrazione e assimilazione. Ce la spieghi. L’integrazione è quando ci si integra a vicenda, reciprocamente, con scambio, interazione e trasformazione reciproche. L’assimilazione invece è unilaterale, è etnocentrismo, è rendere l’altro uguale a sé senza crescere a vicenda perché è dalle differenze che nasce la crescita. Data questa differenza, secondo lei gli immigrati in Italia sono integrati o assimilati? C’è più assimilazione e mala assimilazione per una questione di cittadinanza: l’Italia è in ritardo con il regolamento sulla cittadinanza e, di conseguenza, con la valorizzazione delle culture d’origine. Più si conosce la propria storia più si è in grado di capire il presente e progettare il futuro, ma se si è tagliati fuori dal presente e dal passato come si può vedere un futuro? In Francia per esempio c’è sì assimilazione ma l’immigrato è inglobato come cittadino, non come straniero, qui invece non c’è neanche questo riconoscimento d’appartenenza. Nel nostro Paese le donne migranti si trovano spesso a essere segregate nei lavori di cura e assistenza. Si tratta di integrazione o assimilazione e sfruttamento? C’è tutto. Moltissime di queste donne hanno una laurea in tasca e potrebbero contribuire alla crescita del Paese con relativi vantaggi, ma per mancanza di politiche sociali adeguate sono sfruttate e sono sprecati i cervelli. Perché secondo lei la maggior parte delle donne che migrano in Italia vengono impiegate prevalentemente nei lavori di cura? Doppia discriminazione? Da un lato per il fatto di essere immigrata e dall’altro per il fatto di essere donna? Ma certo. Se dovessimo fare una piramide, in quasi tutte le società chi sta sotto sono le donne, con tutte le rispettive differenze, soprattutto tra una donna e l’altra. Poi è più facile trovare questi lavori “dequalificati” che non quelli qualificati perché per svolgerli non serve avere una grossa conoscenza della lingua. Inoltre, spesso queste donne non hanno asili nido a loro portata quindi si trovano costrette a ricorrere a qualcuno sebbene la maggior parte di loro preferisca il lavoro a ore. Cosa ne pensa dell’emendamento circa la regolarizzazione di colf e badanti? Un modo per tutelare tutte quelle lavoratrici sottopagate e far emergere il loro lavoro finora sommerso, o anche un modo per continuare a sfruttarle e per tappare malamente la carenza di servizi presente in Italia? Questa regolarizzazione è da una parte positiva perché consente a molte donne di uscire dall’incubo, non solo del lavoro sommerso ma anche e soprattutto del ritorno al loro Paese d’origine per via della legge sulla clandestinità. Bisogna pensare, infatti, anche alle rifugiate politiche per le quali tornare al proprio Paese è inconcepibile. Dall’altra parte questa regolarizzazione non rientra di una politica lungimirante e ad ampio raggio perché, oltre a essere contraddittoria, è solo per tappare i bisogni, per sfruttare una manodopera, volta a sopperire una mancanza. Il governo non potrebbe almeno cercare di risolvere la carenza di servizi in un altro modo e dare la possibilità a queste donne di fare anche altro? Questo sarebbe un paradiso. Purtroppo c’è una mentalità in base alla quale ciò che costa meno si può sfruttare tranquillamente senza investire. Nel suo libro asserisce che durante il periodo del colonialismo italiano in Eritrea mancavano la diretta comunicazione e la libertà di parola. Di fatto oggi in Italia gli immigrati, e in particolare le donne, hanno la libertà di parola? Direi di no. Si stanno aprendo nuove finestre ma la stragrande maggioranza non ha né comunicazione né diritto di parola e, se parla, non è ascoltata; non può neanche parlare perché non ha i documenti in regola, perché, appunto, per rinnovare il permesso di soggiorno ci vogliono mesi. Non c’è parola, solo giri e fatica.

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