mercoledì 17 ottobre 2018

Transnational Corporations and Other Business Enterprises with Respect to Human Rights Item 4-General Statement


Statement by His Excellency Archbishop Ivan Jurkovič 
Permanent Observer of the Holy See to the UN and Other International Organizations in Geneva at the Open-ended Intergovernmental Working Group on Transnational Corporations and Other Business Enterprises with Respect to Human Rights Item 4-General Statement 
Geneva, 15 October 2018 

Mr. Chair,
At the outset, the Delegation of the Holy See would like to congratulate you on your appointment as Chair of this Intergovernmental Working group in such a significant moment, as we begin our discussion on the zero draft of the text. Over the last years, we have witnessed a growing interest of States and civil society for shaping an international legally binding instrument, which would be able to address the existing gaps in the global legal framework. As recalled by Pope Francis: “The twenty-first century, while maintaining systems of governance inherited from the past, is witnessing a weakening of the power of nation states, chiefly because the economic and financial sector, being transnational, tend to prevail over the political”1 . The starting point for any discussion surrounding a treaty in this area must be the concern for the protection of fundamental human rights, which “derive from the inherent dignity of the human person” 2 . A binding instrument would raise moral standards, change the way international corporations understand their role and activity and help clarify the extraterritorial obligations of States regarding the acts of their companies in other countries. In this regard, it has been proposed that the synergy between public and private sector corporations could constitute another emerging form of economic enterprise that cares for the common good without surrendering profit. 3 The Delegation of the Holy See is aware that the challenges of business and human rights demand a negotiation with a constructive and positive approach. Our ultimate goal is the achievement of a balanced and effective instrument, which could represent an effective tool for all the parties involved. The focus on the rights of local communities and individuals might be reinforced with clear references to the internationally agreed language of human rights and its primacy over trade and investment policies. Such a provision could represent an instrument for framing a more stable legal environment. Thus, it could address not only the relationship between human rights and trade and investment agreements, but even represent a criterion for an assessment of its impact on human rights. For this reason, the mention of the environmental element in articles 4.1 and 8.1 is essential. Trade agreements usually contain general exception clauses which allow deviations from the obligations of the agreement, particularly if a State party pursues other legitimate public policy objectives and the respective measure is not more trade-restrictive than necessary. Mr. Chair, In the progression of our negotiations, we should never lose sight of the fact that “business is a vocation, and a noble vocation, provided that those engaged in it see themselves challenged by a greater meaning in life”4 . The international business community can count on many men and women of great personal honesty and integrity, whose work is inspired and guided by high ideals of fairness, generosity and concern for the authentic development of the human family. Economy and finance are dimensions of human activity and can be occasions of encounter, of dialogue, of cooperation, of recognized rights and of dignity affirmed in work. Our efforts during this week of negotiation should be oriented in elaborating an instrument that could represent a useful tool. In order for this to happen, however, it is necessary to place the human person, with his or her dignity, at the center of our work and to establish the legal liability for the conduct of business enterprises that result in human rights abuses at home or abroad. Such responsibility should, as appropriate, be criminal, civil or administrative.
Thank you, Mr. Chair.

1. Pope Francis, Encyclical Letter, Laudato si, n. 175.
2. Preamble to the International Covenant on Civil and Political Rights (1966) 999 UNTS 171 and 1057 UNTS 407 available at http://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/ccpr.aspx; Preamble to the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights (1966) 993 UNTS 3 available at http://www.ohchr.org/en/professionalinterest/pages/cescr.aspx.
3. Pope Benedict XVI, Encyclical Letter, Caritas in veritate, n. 46.
4. Pope Francis, Apostolic Exhortation, Evangelii Gaudium, 203.

mercoledì 10 ottobre 2018

Lettera Appello al Presidente del Consiglio Italiano Dott. Conte



Gentile presidente Dott. Conte,
le scriviamo, a nome dell’Agenzia Habeshia, in vista della visita che farà alla metà del mese di ottobre in Eritrea.
Quello di Asmara, come certamente sa, è uno dei regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma di libertà, annullato la costituzione del 1997, soppresso di fatto la magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una dittatura che, in una parola, ha creato uno Stato prigione. Lo denunciano ormai da vent’anni i numerosi, dettagliati rapporti pubblicati da varie istituzioni e organizzazioni internazionali e dalle più prestigiose Ong e associazioni umanitarie. Valgano per tutti le due relazioni finali delle inchieste condotte dalla Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite – rese ufficialmente note a Ginevra rispettivamente nel giugno 2015 e nel giugno 2016 – nelle quali si afferma senza mezzi termini che il regime ha eletto a sistema il terrore, rendendo schiavo il suo stesso popolo. Non a caso, nel rapporto 2016, si arriva alla conclusione che ci sono fondati elementi per deferire i principali responsabili del Governo di fronte alla Corte penale internazionale.
Confermano questo quadro terribile le migliaia di profughi che da anni giungono in Italia dall’Eritrea, a meno che non sia anche lei dell’opinione che gli eritrei sarebbero “profughi vacanzieri”, come hanno più volte dichiarato autorevoli esponenti della maggioranza che sostiene l’attuale Governo, con un cinismo che offende la verità e un disprezzo inaccettabile per le sofferenze che quei giovani patiscono ed hanno patito.
Comprendiamo bene che un Governo, uno Stato, deve avere rapporti anche con dittature come quella di Asmara. E’ nell’ordine logico della politica internazionale. Il punto non è questo. Il punto è “come” vengono impostati questi rapporti. Si può fare finta di nulla, chiudendo gli occhi di fronte alla realtà – e definire, appunto, “profughi vacanzieri” i giovani eritrei costretti ad abbandonare la propria terra – in nome di interessi geostrategici ed economici magari inconfessabili. Oppure si può dare voce e contenuto con forza ai valori di libertà, democrazia, giustizia, solidarietà sanciti dalla Costituzione Repubblicana. Si tratta, in altre parole, di non aprire, con la dittatura di Asmara, rapporti “al buio”, senza cioè alcuna condizione preliminare, ma di tenere ben ferma, come requisito irrinunciabile e invalicabile, la questione del rispetto dei diritti umani, anteponendola ad ogni altro genere di interessi.
Le chiediamo allora due cose, strettamente connesse ed anzi inscindibili, perché scinderle, o anche appannarne una soltanto, significherebbe svuotarle entrambe di valore. Due richieste che, oltre tutto, potranno misurare la concreta efficacia della pace appena firmata con l’Etiopia, dopo 20 anni di guerra, per un cambiamento della situazione in Eritrea: la reale volontà del regime di lasciare il passo alla democrazia.
La prima è la necessità di sollevare la questione del rispetto dei diritti umani (anche alla luce dei due rapporti dell’Onu), ponendo sul tavolo di discussione alcuni problemi fondamentali, tanto più che è ormai caduto il vecchio alibi della guerra e del “nemico alle porte”: la liberazione dei prigionieri politici, il libero accesso di commissioni internazionali nelle carceri, la garanzia del ritorno immediato di ogni forma di libertà, a cominciare da quella politica e quella religiosa, violate anche di recente con nuovi arresti di oppositori, con la chiusura di scuole cattoliche e islamiche, con la chiusura di otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora confinato dopo ben 14 anni.
La seconda è il consenso ed anzi la possibilità pratica di riportare in Eritrea le salme delle vittime della strage verificatasi il 3 ottobre 2013 a Lampedusa e di tutti gli altri giovani profughi annegati nel Mediterraneo e sepolti in Italia. Finora c’è stato un palleggiamento di responsabilità. Asmara dice che è l’Italia a sollevare difficoltà; Roma sostiene che l’Eritrea non ha mai mostrato una vera disponibilità. E’ tempo di superare queste controversie, in nome di un principio umano di grande significato: dare alle famiglie un luogo dove pregare e deporre un fiore in memoria dei loro cari perduti. L’Italia non ha mai fatto in modo che i resti di numerosissimi ascari e soldati eritrei, caduti combattendo sotto le sue bandiere, su diversi fronti africani, fossero riportati in patria: occorre impedire che la stessa, grave ingiustizia si ripeta con i loro figli e nipoti. Riteniamo però che questa iniziativa di umana pietà non possa prescindere e restare isolata dal contesto più generale del rispetto dei diritti, indicato nella nostra prima richiesta. Perché il modo migliore di onorare i morti è senza dubbio il rispetto della libertà e della vita stessa dei vivi. Dimenticare o trascurare questa stretta connessione rischierebbe di trasformare un doveroso, auspicabile, atteso gesto di carità nell’ennesimo strumento di propaganda in favore del regime.
Confidiamo che vorrà tener conto di queste nostre considerazioni. Grazie per il tempo che ha voluto dedicarci e per quanto potrà fare. 
Cordiali saluti,
 Presidente dell’Agenzia Habeshia

mercoledì 3 ottobre 2018

Lampedusa, 5 anni dopo della tragedia del 03 ottobre 2013

Lampedusa, 5 anni dopo la strage del 03 Ottobre 2013

Cinque anni fa, la tragedia di Lampedusa: 368 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un passo.
Il quinto anniversario di questa tragedia arriva proprio all’indomani del nulla osta del Consiglio dei Ministri a un decreto che erige l’ennesima barriera di morte in faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo governo e questa maggioranza o, più in generale, se altri protagonisti della politica degli ultimi anni, intendano promuovere o anche solo partecipare a cerimonie ed eventi in memoria di quanto è accaduto. Ma se è vero, come è vero, che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di raccoglimento e di riflessione, che la data del 3 ottobre richiama, con chi da anni costruisce muri e distrugge i ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo. Se anche loro voglio “ricordare Lampedusa”, che lo facciano da soli. Che restino soli. Perché in questi cinque anni hanno rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e umana pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il mondo.
Che cosa resta, infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini in corso da parte della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile che 368 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in grado di arrivare sul posto in pochi minuti.
La vastità della tragedia ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 368 vite perdute, su due punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell’Eritrea, schiavizzata dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti quei morti erano eritrei.
Al primo “punto” si rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di pattugliare il Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche, per prestare aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi come quella di Lampedusa. Quell’operazione è stata un vanto per la nostra Marina, con migliaia di vite salvate. A cinque anni di distanza non solo non ne resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica la consideri uno spreco o addirittura un aiuto dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente dopo dodici mesi, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”, moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le vittime, inclusa l’immane tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. E, al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente, le frontiere della Fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud del Mediterraneo. Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta, il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80 mila profughi), il memorandum firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo Governo. Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve circa il 40 per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state costrette a sospendere la loro attività, giungendo persino a fare pressione su Panama perché revocasse la bandiera di navigazione alla Aquarius, l’ultima nave umanitaria rimasta in tutto il Mediterraneo.
Con i rifugiati eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla derisione o addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri” o “migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di Asmara. E’ un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il Governo ha invitato l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese. Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi, inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di fatto, gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.
Sia per quanto riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a cinque anni di distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di un tradimento.
– Traditi la memoria e il rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici.
– Traditi le migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la feroce, terribile realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche dopo la recente firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine iniziata nel 1998.
– Tradito il grido di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa da parte di un intero popolo di migranti costretti ad abbandonare la propria terra: una fuga per la vita che nasce spesso da situazioni create dalla politica e dagli interessi economici e geostrategici proprio di quegli Stati del Nord del mondo che ora alzano barriere. Tradito, questo grido di dolore, nel momento stesso in cui si finge di non vedere una realtà evidente: che cioè
“…lasci la casa solo / quando la casa non ti lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci / fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…” (da Home, monologo di Giuseppe Cederna.)
Ecco: ovunque si voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa, sull’isola stessa o da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la politica condotta in questi cinque anni nei confronti di migranti e rifugiati. Gli “ultimi della terra”.

Agenzia Habeshia