venerdì 6 aprile 2018

L'esame di Coscienza


Pregiudizi e stereotipi. “Scusi, lei quindi sarebbe realmente in possesso del biglietto?”. Questo quesito non avrebbe suscitato alcun scalpore, se a pronunciarlo fosse stato uno scrupoloso controllore che, volendosi accertare dell’avvenuto pagamento del servizio relativo il pubblico trasporto, avesse posto lecitamente la precedente domanda al passeggero comodamente seduto dinnanzi a sé. L’alto tasso di preoccupazione, invece, insorge clamorosamente ponendo marcatamente in risalto la spietatezza morale di un individuo privo di ogni titolo per rivolgersi prepotentemente ai sospettati viaggiatori, i quali secondo un punto di vista e un'interpretazione della situazione del tutto personali, avrebbero continuato imperturbati a viaggiare senza rispettare il codice etico e legale largamente e pienamente condivisi. In seguito alla premessa iniziale, accingiamoci a comprender meglio l’evento realmente accaduto. Forlì. A bordo di un autobus sul quale vi era un gruppo particolarmente corposo di persone provenienti da altri contenti e Paesi, un signore italiano palesemente vittima dell’odio razziale ormai connaturato nella sua stessa condizione esistenziale, incominciò a inveire, accusando costoro in modo assolutamente feroce, in quanto sospettava che non avessero avuto il diritto di occupare degnamente un posto a sedere poiché, secondo una convinzione del tutto non dimostrata, non erano in possesso del biglietto. Pensando, quindi, di esser in procinto di compiere un’azione straordinariamente eroica, s’incamminò lungo lo stretto corridoio del veicolo, percorrendolo nella totalità della sua lunghezza. Trovatosi di fronte al conducente, implorò costui di fermarsi istantaneamente, chiedendo di far scendere il folto gruppo di fuorilegge, che a suo avviso stava abusivamente occupando per un intervallo di tempo prolungato uno spazio che non spettava loro. L’autista, uomo dotto e acculturato (sicuramente più del pensionato), non diede corda allo scellerato, pregandolo in un primo momento di ritornare a sedersi. Costui, vedendo a questo punto che i suoi intenti stavano incominciando a svanire nel nulla scemando a poco a poco, s’adirò ulteriormente a tal punto che, ripercorrendo i suoi precedenti passi, s’arrestò bruscamente di fronte a un uomo avente caratteristiche e tratti somatici diversi dai propri, esortandolo a mostrare il biglietto. La situazione avrebbe potuto assumere una drastica piega se non fossero successivamente intervenute le forze dell’ordine, chiamate in causa per ripristinare l’equilibro della situazione iniziale. Al sessantenne irato venne duramente imposta una sanzione pecuniaria per aver interrotto il servizio pubblico per trenta minuti circa. Gli agenti della Polizia, dopo aver svolto controlli e accertamenti necessari, appurarono che tutte le persone straniere presenti sul mezzo di trasporto avevano comprato regolarmente il biglietto, come previsto dalla Legge. Costoro, quindi, erano in regola e avevano tutto il diritto di viaggiare sull'autobus di linea che consente di raggiungere la ridente cittadina di Santa Sofia partendo da Forlì. Cosa avrebbe detto in questa situazione Gesù Cristo a colui che incitando all'odio si credeva straordinario paladino della giustizia terrena? Ah, sì: “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”  

(Dal Vangelo secondo Luca 6,41)

Francesco Pivetta 

Sei morti nel campo di Gharyan, ma l’Italia respinge i profughi in Libia



di Emilio Drudi

“Come sono morti? Uno si è suicidato, vinto da mesi di sofferenze inumane. Gli altri sono morti di stenti e di sfinimento”. Sono le parole di uno dei compagni delle vittime. I morti sono sei giovani profughi, ma potrebbero anche essere nove, perché altri tre sono scomparsi all’improvviso da diversi giorni e ormai si teme il peggio. Accade nel campo di Gharyan, 94 chilometri a sud di Tripoli.
E’ l’ennesima tragedia consumata nei centri di detenzione in Libia. Anche in quelli gestiti dallo Stato, a conferma che il quadro resta quello descritto in tutti i rapporti pubblicati negli ultimi anni dalle Nazioni Unite e da Ong come Amnesty o Human Rights Watch. A raccontarla, questa strage, sono stati altri profughi prigionieri a Gharyan i quali, con una serie di telefonate fatte di nascosto, “rubate”, hanno potuto prendere contatto con il Coordinamento Eritrea Democratica per chiedere aiuto. Le prime segnalazioni sono giunte fra il 30 e il 31 marzo. Sono seguite brevi comunicazioni di aggiornamento e contatti periodici sono in corso tuttora. Le telefonate sono state ricevute tutte da Abraham Tesfai, un giovane esule, studente universitario a Bologna, che da tempo si occupa di ricerche sui profughi intrappolati in Libia oppure che risultano prigionieri o scomparsi, durante la fuga, in altri paesi di transito. “Quei ragazzi – spiega – hanno detto di aver avuto il nostro recapito da un familiare residente in Europa, che conosce e segue la nostra attività. Già dalla prima comunicazione si è capito che si trovano in una condizione terribile. Poi, il quadro si è rivelato anche peggiore di quello che avevo intuito. Non a caso le chiamate che mi arrivano sono sempre più disperate… E’ assurdo che non si riesca o, peggio, che non si voglia fare niente, chiudendo gli occhi di fronte a quello che sta accadendo”.
Gharyan, quasi 200 mila abitanti, capoluogo di distretto, famosa per essere stata uno dei principali centri della resistenza contro l’occupazione coloniale italiana, snodo delle strade che dal sud portano verso Tripoli e la costa, è un punto nevralgico per i movimenti dei migranti provenienti da Sabha e dal Fezzan, dopo essere entrati in Libia dal Sudan e dal Niger. Il centro di detenzione aperto alla periferia dell’abitato è una delle strutture “ufficiali” di accoglienza, sotto il controllo del Governo, ma i ragazzi che hanno chiesto aiuto lo descrivono come una dura, orribile prigione: “Siamo rinchiusi in grossi container, dai quali non è consentito uscire, se non per brevissimi periodi, nell’arco della giornata. Il cibo è scarso e di pessima qualità, poca e scadente persino l’acqua da bere, nessuna assistenza medica, servizi igienici pressoché impraticabili perché manca l’acqua anche per le più elementari pulizie. Senza contare i maltrattamenti, le minacce, gli insulti, le umiliazioni da parte di molti degli agenti di guardia. Tanti si ammalano, ma nessuno se ne prende cura. E’ così che sono morti sei nostri compagni, tre eritrei (Aradom, Tekleab ed Aman) e tre somali (Farhamh, Saydn e una ragazza, Segal). Uno non ce l’ha fatta più a resistere e si è tolto la vita: lo abbiamo trovato esanime, senza poter fare più nulla. Gli altri, inclusa la ragazza, li hanno uccisi le privazioni e lo sfinimento. Il primo circa tre mesi fa e poi via via gli altri. Da alcuni giorni, inoltre, non abbiamo più notizie di altri tre nostri compagni, tutti eritrei. Si chiamano Tesfu, Rehase e Abiel. Sono spariti e temiamo che siano morti anche loro. C’è chi dice che siano fuggiti, ma da un campo come questo non si riesce a fuggire. E poi, se avessero voluto scappare, quasi certamente ce lo avrebbero detto. Allora pensiamo o che siano stati consegnati a qualcuno, magari a dei trafficanti, oppure che, appunto, siano morti. Di sicuro sono spariti… Siamo tutti allo stremo: se qualcuno non verrà a liberarci da questa prigione, presto ci saranno altri morti”.
I ragazzi morti o dispersi e quelli che hanno chiesto aiuto al Coordinamento Eritrea facevano parte di un gruppo di circa 100 migranti, quasi tutti eritrei e somali, arrivati a Gharyan nell’ottobre del 2017. In precedenza erano detenuti a Sabratha, insieme agli oltre 20 mila migranti trovati dalle milizie della brigata anti Isis che hanno conquistato la città: erano nelle prigioni di Amu Al Dabashi, il capo clan che a sua volta controlla due brigate di miliziani (la Brigata 48 e la Amu Brigade) e che si è riciclato da trafficante (il principale della zona di Sabratha) in “gendarme anti immigrazione”, a quanto pare in cambio di 5 milioni di euro, stando almeno alle notizie riportate all’epoca da vari organi di informazione.
Subito dopo essere stati liberati a Sabratha, quei cento migranti sono stati affidati alla Mezzaluna Rossa e portati a Tripoli, dove li hanno identificati e registrati, con la promessa che sarebbero stati inseriti in un programma di relocation verso il Niger e magari l’Europa. A Tripoli – nella fase della identificazione/registrazione sarebbero entrati in contatto anche con un funzionario dell’Unhcr, del quale hanno ancora il recapito. Esaurite queste procedure, da Tripoli sono stati trasferiti a Gharyan. Ma a Gharyan si sono ritrovati, a quanto pare, in un lager simile a quello dei trafficanti di Sabratha. Prima che con il Coordinamento Eritrea Democratica in Italia, si sono messi di nuovo in contatto con il funzionario di Tripoli, per illustrargli la situazione e soprattutto, alla luce di quanto stanno vivendo, per chiedergli a che punto sia il trasferimento che era stato prospettato dopo che erano stati liberati a Sabratha. Lui avrebbe risposto che tutto dipende dalle “autorità libiche”. E che stava facendo il possibile. Solo che – nonostante le dichiarazioni e gli impegni di varie cancellerie occidentali e di Bruxelles – anche il trasferimento in Niger è sempre più difficile: il Governo di Niamey, dopo una iniziale apertura, sta “frenando” perché, a fronte dei numerosi arrivi, solo poche decine di profughi sono stati poi accolti in Europa, in base al programma di relocation concordato. Così non c’è scampo: è quasi impossibile uscire dalla trappola libica.
Quello che accade in Libia, però, sembra che non importi granché: né a Roma, né a Bruxelles. Anzi, ora è provato: è la Guardia Costiera italiana a dare disposizioni tassative perché il coordinamento delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale venga svolto dalla Marina libica. Anche quando questo, in concreto, significa attuare sistematicamente dei respingimenti di massa forzati verso l’inferno dei campi della Libia. Senza dare la possibilità ai migranti di presentare richiesta di asilo e a prescindere dalla sorte che li attende, una volta riportati in Africa. Era già evidente, questa grave responsabilità, dopo il sequestro della nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms e l’incriminazione del capitano e del capo missione, per essersi rifiutati di consegnare alla Guardia Costiera di Tripoli i 218 naufraghi che avevano appena recuperato in mare, a 73 miglia dalla costa africana. La riprova si è avuta il 30 marzo, quando la nave Aquarius, di Sos Mediterranee, arrivata per prima sul posto e proprio su sollecitazione del comando centrale della Guardia Costiera italiana, è stata costretta ad abbandonare ad una motovedetta libica i migranti che stava portando in salvo. E’ illuminante, in proposito, il resoconto di Medici Senza Frontiere, che si occupa dell’assistenza medica sull’Aquarius.
“Il gommone (dei migranti: ndr) – si legge nel rapporto – è stato identificato per primo da un aereo militare europeo. Benché la Aquarius sia giunta sulla scena per prima, intorno alle 11, il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (Mrcc) ha informato la nave che sarebbe stata la Guardia Costiera libica a occuparsi del soccorso. Per questo alla Aquarius è stato indicato di rimanere in standby e di non avviare nessuna operazione. Mentre era in standby, la Aquarius ha visto la situazione peggiorare, perché il gommone sovraffollato iniziava a imbarcare acqua. Alle 12,45 Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee sono riusciti a negoziare con l’Mrcc, il comando della Guardia Costiera libica e la nave della Guardia Costiera libica che stava raggiungendo l’area, ed hanno ottenuto di poter almeno stabilizzare la situazione distribuendo giubbotti di salvataggio a tutte le persone a bordo e valutando le loro condizioni mediche. L’infermiera di Medici Senza Frontiere, avvicinatasi al gommone su un motoscafo veloce (Rhib), ha individuato 39 casi medici vulnerabili (tra cui un neonato, donne incinte, bambini e le loro famiglie), che sono stati evacuati sull’Aquarius… Non abbiamo (però) potuto completare il soccorso. Alle 13,52 la Guardia Costiera libica ha ordinato alla Aquarius di allontanarsi, con decine di persone ancora sul gommone. Alle 14,09 queste persone sono state prese dalla Guardia Costiera libica e riportate in Libia”.
Ecco, senza l’ostinazione degli operatori di Medici Senza Frontiere e di Sos Mediterranee, che fino all’ultimo hanno cercato di completare il salvataggio, prendendo a bordo quante più persone possibile, persino quei 39 “casi medici vulnerabili” – che a quel punto l’Italia non ha più potuto respingere – sarebbero stati costretti a tornare in Libia come tutti gli altri naufraghi. Magari in un centro di detenzione come quello di Gharyan.


Da Tempi Moderni

martedì 3 aprile 2018

Riflessi di umanità



Tutti i soggetti sono dotati di due strumenti attraverso i quali possono codificare la realtà a loro circostante: il cuore e il cervello. Se siamo davvero sicuri che la repressione totale degli impulsi interni, delle emozioni che ci permettono di compiere dei voli pindarici e dei desideri connaturati nel nostro animo sia la direttiva vincente da perseguire, dovremmo di conseguenza spronare la nostra possibilità di ragione per definire una tattica che ci consenta di sopperire alla sensibilità essenziale. Nel caso contrario, permettere all’autenticità dell’essere primordiale insito nelle nostre coscienze di sopraffare il nostro “io” conscio e consapevole non sempre si potrebbe rivelare il giusto mezzo. I due elementi, infatti, devono andare di pari passo. L’uomo, percorrendo per la maggior parte delle volte una strada impervia e intricata ha l’obbligo morale di servirsi di entrambi al fine di adottare un comportamento sociale proficuo per se stesso e per gli altri individui. Affermare ferocemente: “Rimarchiamo avidamente i nostri confini territoriali innalzando barriere architettoniche per impedire traversate e passaggi” non sarebbe una possibilità di dialogo e confronto coerente con il nostro sistema di pensiero e d’azione perché la “ratio” umana finirebbe per inghiottire la parte sentimentale che, assecondando la coscienza e l’agire morale, giudicherebbe questa alternativa come disumana, offuscando la nostra percezione visiva con il sentimento dell’odio e della repulsione provati per persone con le quali abbiamo in comune la stessa conformazione fisica e tutte le facoltà psicologiche e cognitive adeguate per comprendere appieno il funzionamento del meccanismo sociale. Secondo quanto precedentemente affermato, infatti, potremmo immediatamente capire come Benoît Ducos, guida alpina francese al quale ho affibbiato l’appellativo “Il Mosè delle Alpi”, nei giorni scorsi sia stato accusato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Se veramente commettessimo l’errore di appoggiare o supportare anche solo indirettamente la drammatica situazione secondo la quale un soggetto possa esser realmente colpevolizzato per aver salvato un’innocente vita umana, credo non riusciremmo a delineare uno scorcio prospettico che possa concepire, al suo interno, la presenza di tutti gli ingredienti necessari che potrebbero tornarci utili per impastare un tessuto sociale migliore. La prospettiva delle forze dell’ordine in primis e successivamente della magistratura sembrano esser discordi con quanto riportato. Sembrano aver preso a cuore la questione, a mio avviso, in maniera prettamente negativa, in quanto stanno ormai disquisendo da alcuni giorni sulla possibilità di far sopperire costui sotto una pesante condanna che possa tramutarsi e riversarsi in una pena pecuniaria o detentiva. In un’epoca dove cinque anni di detenzione all’interno di un istituto carcerario non vengono emessi e attribuiti neanche nei confronti dei più temibili assassini e uccisori è forse possibile che debba sobbarcarsi questo brutale affronto un signore che ha salvato delle vite umane intrappolate e avvolte nel gelo delle intemperie presenti in alta quota? Essendo, forse, le parole del diretto interessato più significative, accattivanti e coinvolgenti delle mie, concedo a lui la parola: “Se mi ritrovassi in una situazione simile, mi comporterei nello stesso modo. Credo che non si possa restare indifferenti davanti a chi vive un disagio o è in difficoltà. Ho ricevuto attestati di solidarietà da tante persone e da diverse associazioni umanitarie. È stato un dovere, non una scelta. Lo stesso dovrebbe fare la Francia che è stata colonizzatrice dei molti Paesi da cui i migranti scappano, la quale non è affatto esente o immune dalle responsabilità sulle quali si dovrebbe interrogare in modo critico e razionale”. Proprio la Francia che propone e propina imperterrita il motto: “Liberté, Égalité, Fraternité” sembra non rivelarsi un eccelso esempio di umanità. Comunque decidano di agire gli organi “competenti” che hanno l’onore di far rispettare l’ordinamento giuridico, noi staremo sempre dalla parte di coloro che nel corso dell’incedere del tempo si sono schierati dalla parte dei più umili, tendendo loro una mano in segno di assoluta solidarietà. In chiusura un appello a tutti coloro che vorrebbero nascondersi dietro a robuste barricate edificate sulla violenza, sull’emarginazione e sulla discriminazione: ricordatevi che in questo preciso istante della storia voi occupate il posto privilegiato del comando politico, sociale ed economico, ma in futuro tutti gli assetti si potrebbero clamorosamente ribaltare e voi potreste trovarci tra coloro che su un barcone disastrato in mezzo al mare in tempesta invocano un aiuto divino o tendono la mano a un soccorritore che, rispettando la vostra stessa condizione esistenziale sarebbe disposto a sacrificare anche la propria vita sottoponendola alla crudeltà di pene detentive e carcerarie ingiustamente e immoralmente imposte senza alcun ritegno.

“Tutti gli esser umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”

Art. 1 – Dichiarazione universale dei diritti umani

Francesco Pivetta 


domenica 1 aprile 2018

Pasqua tra le Vette dell'umanità


Liberatore e Legislatore del Popolo Ebraico, Mosè definì attraverso il suo sistema di pensiero e d’azione uno scorcio prospettico all’interno del quale è possibile includere e inserire molteplici fattori riguardanti l’immigrazione. Il termine “Pasqua”, (letteralmente traducibile con il verbo “pāsaḥ”, ossia “passare oltre”) è etimologicamente riconducibile alla solennità attraverso la quale si rievoca, santificando, l’atto di liberazione del popolo ebraico. Mosè, secondo quanto affermato all’interno delle trattazioni religiose che costituiscono le Sacre Scritture, sciolse dal vincolo di schiavitù il suo popolo, quotidianamente sfruttato e sottoposto a lavori forzati descrivibili mediante una disumana forma di schiavitù, guidandolo attraverso il deserto in un viaggio durato quarant’anni. La Pasqua, quindi, non è una festa per risiedenti o sedentari. La festività si rivolge ai popoli nomadi, ai migranti che si accingono a compiere un Viaggio spesso tortuoso che porterà loro al raggiungimento di una Terra Promessa. La Pasqua parla a coloro che nel corso dell’incedere del tempo si sono impegnati attivamente per fabbricare passaggi laddove sono stati innalzati al cielo sbarramenti artificiali che impediscono la traversata, a coloro che sono sempre disposti a tendere una mano soccorrendo umanamente i più deboli, a coloro che non si arrendono quando riscontrano la presenza di ostacoli che intralciano il cammino, il percorso che conduce il singolo e ignoto viaggiatore alla scoperta della propria essenza. Sarà il giorno in cui verranno esaltati gli “atleti della parola pace”, come definì Erri De Luca. In un mondo dove la misericordia e solidarietà sono concetti ancor troppo astratti e lontani dalla concezione comune, il 10 marzo alle ore 21:00, Benoît Ducos, una guida alpina francese, soccorse immediatamente una migrante incinta, accompagnandola successivamente oltre il confine tra l'Italia e la Francia. Accusato di aver violato le leggi sull'immigrazione in vigore, il Mosè delle Alpi rischia una multa che potrebbe esser estesa fino a una somma economica pari a trentamila Euro. Non si esclude, tuttavia, la possibilità dell’attuazione della pena detentiva. I fatti, riportati dalla testata giornalistica “Dauphiné Libéré”, offrono una chiave interpretativa adatta a comprendere l’accaduto secondo una meticolosa attenzione per i particolari portati all’attenzione della stampa internazionale.
Passo del Monginevro, 1900 metri di altitudine. La guida alpina si imbatté con alcuni colleghi in un gruppetto di sei persone, stremate dal gelo causato dalle forti intemperie unite in perfetto connubio con raffiche di vento che, sferzando, si abbattevano duramente sui loro esili corpi, ormai stremati e privi di forza. Per sfuggire ai serrati controlli della frontiera, avevano camminato per ore immersi totalmente nella neve. “Abbiamo capito che tra questo ristretto gruppo di profughi vi era una donna incinta - ha spiegato Ducos - Così ho preso la decisione di portarla direttamente in ospedale senza alcuna esitazione.”
La giovane venne caricata immediatamente a bordo di un’autovettura con gli altri migranti, ma arrivati alle porte di Briançon al veicolo venne dato l’ordine di arrestarsi istantaneamente per ispezione e controlli doganali. Gli agenti, dopo essersi resi conto della gravità della situazione, prestarono le prime cure mediche alla madre, la quale nel giro di breve tempo fu accompagnata in un’idonea e adatta struttura sanitaria che fosse in grado di assisterla, nella quale diede alla luce il piccolo Daniel. Gli altri cinque compagni del Viaggio della Disperazione furono condotti alla stazione di Polizia di Briancon per accertarsi della loro provenienza e identità. Non fu immune all’ordinario trattamento burocratico e giuridico la guida alpina, che venne trattenuta dalle forze dell’ordine con l'accusa di aver favorito il processo di immigrazione clandestina, permettendo a diversi soggetti di accedere illegalmente all’interno del Paese.
Ducos potrebbe, quindi, esser ritenuto colpevole per aver svolto un’azione di salvataggio nei confronti di sei soggetti dispersi sulle montagne? Colpevolizzare quest’uomo significherebbe incominciare a delineare marcatamente la linea che denota il lento degrado nel quale volge un pianeta impregnato di corruzione morale come la Terra. Secondo quale principio etico un eroe che salva vite umane dovrebbe esser sottoposto a una pena pecuniaria o detentiva?
Dovremmo imparare a riconoscere i nostri confini e a proteggerli in maniera sempre più feroce o bisognerebbe che ognuno imparasse ad aprire in questi ultimi innumerevoli varchi per offrire il proprio aiuto rendendosi disponibile? Se veramente vogliamo lasciare di Noi un’impronta che ci permetta di esser ricordati dai posteri dovremmo incominciare a tralasciare l’atteggiamento prevalentemente ostile, bigotto, rigido e severo che definisce il nostro essere. Se si abbandonasse, però, in via del tutto definitiva la superficialità che caratterizza la nostra condizione esistenziale, ci potremmo accorgere di quante somiglianze e analogie intercorrono tra la nostra personalità e quella di un altro soggetto presentante caratteristiche e tratti somatici diversi dai nostri. Siamo fratelli della stessa Madre Terra e nel giorno della Pasqua dovremmo incominciare a rendercene conto, perché solo tramite il confronto e il dialogo è possibile scoprire veramente chi siamo e perché siamo qui, lasciando perdere i confini territoriali che sono nati con l’intento di separare e dividere, perché non esiste alcuna barriera architettonica naturale o artificiale che non sia espressamente e dichiaratamente voluta, approvata e accettata dalla mente umana ormai priva di valori.

Buona Pasqua a tutti Voi,

Francesco Pivetta