venerdì 6 aprile 2018

Sei morti nel campo di Gharyan, ma l’Italia respinge i profughi in Libia



di Emilio Drudi

“Come sono morti? Uno si è suicidato, vinto da mesi di sofferenze inumane. Gli altri sono morti di stenti e di sfinimento”. Sono le parole di uno dei compagni delle vittime. I morti sono sei giovani profughi, ma potrebbero anche essere nove, perché altri tre sono scomparsi all’improvviso da diversi giorni e ormai si teme il peggio. Accade nel campo di Gharyan, 94 chilometri a sud di Tripoli.
E’ l’ennesima tragedia consumata nei centri di detenzione in Libia. Anche in quelli gestiti dallo Stato, a conferma che il quadro resta quello descritto in tutti i rapporti pubblicati negli ultimi anni dalle Nazioni Unite e da Ong come Amnesty o Human Rights Watch. A raccontarla, questa strage, sono stati altri profughi prigionieri a Gharyan i quali, con una serie di telefonate fatte di nascosto, “rubate”, hanno potuto prendere contatto con il Coordinamento Eritrea Democratica per chiedere aiuto. Le prime segnalazioni sono giunte fra il 30 e il 31 marzo. Sono seguite brevi comunicazioni di aggiornamento e contatti periodici sono in corso tuttora. Le telefonate sono state ricevute tutte da Abraham Tesfai, un giovane esule, studente universitario a Bologna, che da tempo si occupa di ricerche sui profughi intrappolati in Libia oppure che risultano prigionieri o scomparsi, durante la fuga, in altri paesi di transito. “Quei ragazzi – spiega – hanno detto di aver avuto il nostro recapito da un familiare residente in Europa, che conosce e segue la nostra attività. Già dalla prima comunicazione si è capito che si trovano in una condizione terribile. Poi, il quadro si è rivelato anche peggiore di quello che avevo intuito. Non a caso le chiamate che mi arrivano sono sempre più disperate… E’ assurdo che non si riesca o, peggio, che non si voglia fare niente, chiudendo gli occhi di fronte a quello che sta accadendo”.
Gharyan, quasi 200 mila abitanti, capoluogo di distretto, famosa per essere stata uno dei principali centri della resistenza contro l’occupazione coloniale italiana, snodo delle strade che dal sud portano verso Tripoli e la costa, è un punto nevralgico per i movimenti dei migranti provenienti da Sabha e dal Fezzan, dopo essere entrati in Libia dal Sudan e dal Niger. Il centro di detenzione aperto alla periferia dell’abitato è una delle strutture “ufficiali” di accoglienza, sotto il controllo del Governo, ma i ragazzi che hanno chiesto aiuto lo descrivono come una dura, orribile prigione: “Siamo rinchiusi in grossi container, dai quali non è consentito uscire, se non per brevissimi periodi, nell’arco della giornata. Il cibo è scarso e di pessima qualità, poca e scadente persino l’acqua da bere, nessuna assistenza medica, servizi igienici pressoché impraticabili perché manca l’acqua anche per le più elementari pulizie. Senza contare i maltrattamenti, le minacce, gli insulti, le umiliazioni da parte di molti degli agenti di guardia. Tanti si ammalano, ma nessuno se ne prende cura. E’ così che sono morti sei nostri compagni, tre eritrei (Aradom, Tekleab ed Aman) e tre somali (Farhamh, Saydn e una ragazza, Segal). Uno non ce l’ha fatta più a resistere e si è tolto la vita: lo abbiamo trovato esanime, senza poter fare più nulla. Gli altri, inclusa la ragazza, li hanno uccisi le privazioni e lo sfinimento. Il primo circa tre mesi fa e poi via via gli altri. Da alcuni giorni, inoltre, non abbiamo più notizie di altri tre nostri compagni, tutti eritrei. Si chiamano Tesfu, Rehase e Abiel. Sono spariti e temiamo che siano morti anche loro. C’è chi dice che siano fuggiti, ma da un campo come questo non si riesce a fuggire. E poi, se avessero voluto scappare, quasi certamente ce lo avrebbero detto. Allora pensiamo o che siano stati consegnati a qualcuno, magari a dei trafficanti, oppure che, appunto, siano morti. Di sicuro sono spariti… Siamo tutti allo stremo: se qualcuno non verrà a liberarci da questa prigione, presto ci saranno altri morti”.
I ragazzi morti o dispersi e quelli che hanno chiesto aiuto al Coordinamento Eritrea facevano parte di un gruppo di circa 100 migranti, quasi tutti eritrei e somali, arrivati a Gharyan nell’ottobre del 2017. In precedenza erano detenuti a Sabratha, insieme agli oltre 20 mila migranti trovati dalle milizie della brigata anti Isis che hanno conquistato la città: erano nelle prigioni di Amu Al Dabashi, il capo clan che a sua volta controlla due brigate di miliziani (la Brigata 48 e la Amu Brigade) e che si è riciclato da trafficante (il principale della zona di Sabratha) in “gendarme anti immigrazione”, a quanto pare in cambio di 5 milioni di euro, stando almeno alle notizie riportate all’epoca da vari organi di informazione.
Subito dopo essere stati liberati a Sabratha, quei cento migranti sono stati affidati alla Mezzaluna Rossa e portati a Tripoli, dove li hanno identificati e registrati, con la promessa che sarebbero stati inseriti in un programma di relocation verso il Niger e magari l’Europa. A Tripoli – nella fase della identificazione/registrazione sarebbero entrati in contatto anche con un funzionario dell’Unhcr, del quale hanno ancora il recapito. Esaurite queste procedure, da Tripoli sono stati trasferiti a Gharyan. Ma a Gharyan si sono ritrovati, a quanto pare, in un lager simile a quello dei trafficanti di Sabratha. Prima che con il Coordinamento Eritrea Democratica in Italia, si sono messi di nuovo in contatto con il funzionario di Tripoli, per illustrargli la situazione e soprattutto, alla luce di quanto stanno vivendo, per chiedergli a che punto sia il trasferimento che era stato prospettato dopo che erano stati liberati a Sabratha. Lui avrebbe risposto che tutto dipende dalle “autorità libiche”. E che stava facendo il possibile. Solo che – nonostante le dichiarazioni e gli impegni di varie cancellerie occidentali e di Bruxelles – anche il trasferimento in Niger è sempre più difficile: il Governo di Niamey, dopo una iniziale apertura, sta “frenando” perché, a fronte dei numerosi arrivi, solo poche decine di profughi sono stati poi accolti in Europa, in base al programma di relocation concordato. Così non c’è scampo: è quasi impossibile uscire dalla trappola libica.
Quello che accade in Libia, però, sembra che non importi granché: né a Roma, né a Bruxelles. Anzi, ora è provato: è la Guardia Costiera italiana a dare disposizioni tassative perché il coordinamento delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale venga svolto dalla Marina libica. Anche quando questo, in concreto, significa attuare sistematicamente dei respingimenti di massa forzati verso l’inferno dei campi della Libia. Senza dare la possibilità ai migranti di presentare richiesta di asilo e a prescindere dalla sorte che li attende, una volta riportati in Africa. Era già evidente, questa grave responsabilità, dopo il sequestro della nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms e l’incriminazione del capitano e del capo missione, per essersi rifiutati di consegnare alla Guardia Costiera di Tripoli i 218 naufraghi che avevano appena recuperato in mare, a 73 miglia dalla costa africana. La riprova si è avuta il 30 marzo, quando la nave Aquarius, di Sos Mediterranee, arrivata per prima sul posto e proprio su sollecitazione del comando centrale della Guardia Costiera italiana, è stata costretta ad abbandonare ad una motovedetta libica i migranti che stava portando in salvo. E’ illuminante, in proposito, il resoconto di Medici Senza Frontiere, che si occupa dell’assistenza medica sull’Aquarius.
“Il gommone (dei migranti: ndr) – si legge nel rapporto – è stato identificato per primo da un aereo militare europeo. Benché la Aquarius sia giunta sulla scena per prima, intorno alle 11, il Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo (Mrcc) ha informato la nave che sarebbe stata la Guardia Costiera libica a occuparsi del soccorso. Per questo alla Aquarius è stato indicato di rimanere in standby e di non avviare nessuna operazione. Mentre era in standby, la Aquarius ha visto la situazione peggiorare, perché il gommone sovraffollato iniziava a imbarcare acqua. Alle 12,45 Medici Senza Frontiere e Sos Mediterranee sono riusciti a negoziare con l’Mrcc, il comando della Guardia Costiera libica e la nave della Guardia Costiera libica che stava raggiungendo l’area, ed hanno ottenuto di poter almeno stabilizzare la situazione distribuendo giubbotti di salvataggio a tutte le persone a bordo e valutando le loro condizioni mediche. L’infermiera di Medici Senza Frontiere, avvicinatasi al gommone su un motoscafo veloce (Rhib), ha individuato 39 casi medici vulnerabili (tra cui un neonato, donne incinte, bambini e le loro famiglie), che sono stati evacuati sull’Aquarius… Non abbiamo (però) potuto completare il soccorso. Alle 13,52 la Guardia Costiera libica ha ordinato alla Aquarius di allontanarsi, con decine di persone ancora sul gommone. Alle 14,09 queste persone sono state prese dalla Guardia Costiera libica e riportate in Libia”.
Ecco, senza l’ostinazione degli operatori di Medici Senza Frontiere e di Sos Mediterranee, che fino all’ultimo hanno cercato di completare il salvataggio, prendendo a bordo quante più persone possibile, persino quei 39 “casi medici vulnerabili” – che a quel punto l’Italia non ha più potuto respingere – sarebbero stati costretti a tornare in Libia come tutti gli altri naufraghi. Magari in un centro di detenzione come quello di Gharyan.


Da Tempi Moderni

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