sabato 31 marzo 2018

Fuggire per Amore



Ripetutamente mi chiedo che cosa sia l’amore e in quali forme estetiche e intrinseche quest’ultimo si possa realmente tradurre. Normalmente non trovo alcuna risposta sensata nel visualizzare post contenenti immagini e aforismi che lasciano trasparire un’ampia percentuale di superficialità ed esibizionismo. Volendo trattare questa specifica e delicata area tematica non riuscivo a trovare alcun motivo che fosse d’ispirazione, alcun evento che realmente potesse aiutarmi nel modesto intento preposto di redigere e fissare definitivamente un pensiero, fino a quando la sorte, accompagnandomi amorevolmente per mano, mi ha fatto scoprire una straordinaria e stupenda storia d’amore che fonda le sue radici su una concezione di vita prettamente diversa da quella adottata dalla maggior parte dei soggetti che popolano la nostra ordinaria società contemporanea: un sistema di pensiero e d’azione assolutamente resiliente. Destinity e Israel, questi i nomi dei protagonisti della mia narrazione. Non due personaggi frutto dell’immaginazione e del processo di invenzione personale. Due volti, due cuori e due anime realmente esistite. Madre e Figlio. Con il termine “resilienza” in ambito psicologico s’intende la capacità di un individuo ad affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di estrema difficoltà opponendo un dosaggio di resistenza tale da permette a quest’ultimo di sopravvivere, continuando il proprio cammino, ossia l’intricato percorso che giunge alla scoperta del Senso della Vita. Questo fu lo spirito critico e l’atteggiamento assunto da Destinity, consapevole della caducità della propria condizione esistenziale e del pericolo nel quale il figlio, Israel, avrebbe potuto incorrere se la madre non avesse immediatamente preso adeguati e idonei provvedimenti che nel corso dell’incedere del tempo avrebbero permesso al figliuolo di cominciare a godere di maggiori diritti, rivelando le scelte della donna di notevole intuizione.                                         
Malata ormai da tempo, Destinity incominciò a pensare che lo Stato nel quale viveva con la sua famiglia non avrebbe potuto certamente essere il migliore per la crescita e lo sviluppo culturale di suo figlio, prossimo alla nascita. Il 9 febbraio 2018, al settimo mese di gravidanza, presa dalla disperazione, tentò la traversata del Colle della Scala, impiegando tutte le forze fisiche per compiere questa impresa titanica. Non era da sola, ad accompagnarla il marito nigeriano, anch'egli richiedente asilo politico. Senza alcun ritegno, dopo esser stati intercettati dalla gendarmeria francese vennero immediatamente riportati in Italia con un atto di inaudita e feroce violenza morale, come descrive anche Paolo Narcisi, presidente dell'associazione “Rainbow 4 Africa” che dall'inizio dell'inverno ha assistito almeno un migliaio di migranti a Bardonecchia: “Li hanno lasciati davanti alla saletta di Bardonecchia senza nemmeno bussare alla dottoressa che era di turno all'interno”.                       
Destinity, 31 anni, stava male. Non riusciva a respirare e nemmeno a stare seduta a causa di un linfoma che da diversi mesi stava mettendo a dura propria la giovane, che da qualche minuto giaceva stremata al suolo, avvolta dal gelo rafforzato dalle forti raffiche di vento che si abbattevano ferocemente contro il suo corpo e il suo ventre materno. La donna è stata successivamente trasportata in ospedale prima a Rivoli e poi al Sant'Anna di Torino, dove è rimasta ricoverata per oltre un mese. Nonostante le cure offerte dal personale medico della struttura sanitaria nella quale era ricoverata, Destinity morì poche istanti dopo aver dato alla luce il piccolo Israel, un grazioso pargolo che al momento del parto pesava meno di un chilo. 
"Le autorità francesi sembrano avere dimenticato l'umanità - dice Narcisi - I corrieri trattano meglio i loro pacchi". I gendarmi, anziché accompagnarla al vicino ospedale di Briancon, l'hanno scaricata davanti alla stazione di Bardonecchia come un pacco postale".
A rincuorarci, le notizie che vengono fornite dai dottori: “Il bambino ora pesa quasi novecento grammi. All'inizio ha avuto bisogno di assistenza durante il processo respiratorio ma attualmente sembra che il quadro clinico del paziente si stia stabilendo, presentando parametri accettabili. Sta diventando progressivamente sempre più autonomo e nel complesso possiamo definirci ottimisti, nonostante sembra prospettarsi un processo di cure particolarmente lungo.” - spiega Enrico Bertino del reparto ospedaliero di neonatologia.
Adesso, dopo aver delineato un quadro prospettico adatto a includere molteplici fattori che ci consentano di utilizzare una chiave interpretativa tramite la quale definire con assoluta e meticolosa precisione il contesto narrato, compiamo un passo indietro soffermandoci sulla frase precedentemente riportata: “I corrieri trattano meglio i loro pacchi”. Alla mente ritorna l’evento della scorsa settimana, portato all’interesse della stampa nazionale da Maria Bordoli attraverso la pubblicazione di un articolo intitolato: “Può il Sindaco spedire a Milano dodici immigrati?”, il quale narrava: “Leggo che il Sindaco di Gallarate ha messo sul treno dodici immigrati irregolari spedendoli, letteralmente, a Milano. Premesso che penso che il problema degli irregolari esista e che vada affrontato con spirito realistico e non con una dose eccessiva di buonismo, mi chiedo se questo comportamento sia consentito dalla Legge. Di questo passo, qualunque primo cittadino potrebbe comportarsi nello stesso modo”.
Ritornando alla riflessione principale, credo che ognuno di Noi, prima di addormentarsi abbia l’onore di pensare, anche solo per una frazione di secondo che, a pochi passi dal proprio letto, nel quale è possibile assaporare e gustare il caldo tepore scaturito dalle confortevoli coperte di cotone, in quel preciso istante vi sono tantissimi Destinity e Israel che cercano solo di raggiungere la salvezza: chi oltrepassando un confine segnato da barriere architettoniche naturali come in questo caso, chi attraversando il mare sopra un gommone (Cavalcando le onde seduti a cavalcioni sopra le cosiddette “carrette”, così come vengono definite le misere imbarcazioni utilizzate dai migranti per compiere il "Viaggio della Speranza") che sta maledettamente imbarcando acqua da tutte le parti mentre si levano all'immobile, attonito e impotente  firmamento grida di dolore, chi arrampicandosi su muri e staccionate ancorati al terreno che separano uno Stato dall'altro, una città dall'altra, un quartiere dall'altro, un fratello dall'altro. Sono ormai lontani i tempi del Muro di Berlino e della guerra fredda, di questo dovremmo incominciare ad accorgercene. Tra l’anno 1989 e il 2018 intercorre certamente un lasso temporale particolarmente tangibile e cospicuo eppure sembra che i comportamenti sociali uniti in perfetto connubio con l’odio razziale e divisorio siano rimasti pressoché immutati, nonostante il lento scorrere delle stagioni. Nell'era in cui viviamo, il nostro dispositivo mobile cellulare ci consente di rimanere sintonizzati con piattaforme sociali online attraverso le quali avviene una continua e perpetua condivisione di materiale digitale. Ma nella vita reale, siamo davvero sicuri di essere in grado di condividere passioni, sentimenti, emozioni, sensazioni e dolori? Nella vita reale siamo davvero propensi a supportare un nostro fratello? Disposti a porre un like, un’emoticon o una reaction in segno di apprezzamento, molto spesso ci rifiutiamo visibilmente di tendere una mano al prossimo che stramazza al suolo, chiedendo miseramente pietà. A volte, forse, basterebbe svincolarci dalla realtà virtuale, uscire dalla perenne schermata da videogame che contraddistingue il nostro vivere monotono per capire che in qualche parte del mondo vi sono tantissimi bambini come Israel e tantissime mamme come Destinity che stanno implorando il nostro aiuto che probabilmente non giungerà mai o cadrà nel distaccato, attonito e freddo rifiuto tipico di un mondo disumano. Mi chiedo, quindi, quale potrebbe essere il giudizio che le future generazioni attribuiranno al nostro operato inattivo, ma essendo un provocatore accanito e un amante delle domande retoriche chiudo la mia trattazione con un aforisma di Alessandro Manzoni che continua a trasmetterci un forte e simbolico messaggio da ben 197 anni: “Ai posteri, l’ardua sentenza”.

Francesco Pivetta

martedì 27 marzo 2018

FUGGIRE DALLA POVERTÁ

- Intervista a Don Mussie Zerai, l'angelo dei profughi

Antonio Paolillo

Anche se i motivi delle migrazioni dai paesi africani verso le spiagge europee sono ben noti, il racconto di un’esperienza diretta è sempre più esplicativo. Come mai ha lasciato l’Eritrea?
Ho lasciato il mio paese all’età di 16 anni in cerca di libertà e per fuggire lontano dal rumore della guerra. Sono nato e cresciuto durante la guerra e non ho conosciuto altro che paura, militari, coprifuoco, sospetti e spie. Ero stufo di tutto questo, volevo avere un futuro diverso dal presente in cui stavo crescendo. Ecco le motivazioni che mi hanno spinto a lasciare l'Eritrea (molte informazioni potrete trovarle nel mio libro Padre Mosè).

Durante la conferenza sulla migrazione tenutasi presso la USI di Lugano nel giorno 1 marzo lei ha parlato dell’importanza di aiutare i popoli africani nel proprio paese o agevolarne l’accoglienza nei paesi limitrofi. Cosa può essere fatto concretamente?
Aiutarli a casa loro è uno slogan di moda negli ultimi 20 anni, ma di fatto si è tradotto in sfruttiamoli a casa loro. Bisogna cambiare tutto questo. 1. Serve un piano di prevenzione di conflitti e guerre. 2. Serve un’etica nei rapporti commerciali che premia quei paesi più virtuosi che portano avanti un processo di democratizzazione nel paese, si sforzano di garantire i diritti fondamentali per la loro popolazione, e che quindi evitano il sostenimento di dittatori al potere solo per tutelare gli interessi delle multinazionali occidentali. 3. Avere un piano di protezione in caso di emergenza nei paesi limitrofi. Non basta allestire campi in mezzo al nulla, ma bisogna creare tutte le infrastrutture necessarie per garantire ai profughi l’accesso alla sanità, alle scuole, alle università, a case dignitose, e al lavoro, invece di abbandonarli nei campi profughi per anni. 4. Serve un canale di ingresso legale con visti umanitari, ricongiungimento famigliare, visti per studio, cure mediche, per sottrarre queste persone dalle mani di trafficanti e faccendieri che approfittano della loro disperazione.

Qual è la percezione che hanno gli aspiranti migranti dei paesi europei, specialmente dell’Italia in quanto uno dei porti più vicini? Esiste una sorta di “sogno europeo” o è solo il meno peggio?
L’Italia è solo un paese di transito, il 90% non vorrebbe restare, se non fosse costretto dall’accordo di Dublino. Il sogno europeo c’è, ed è stato alimentato per decenni dalla cooperazione internazionale finalizzata a creare consumatori finali, da tutto il retaggio coloniale, mass media ed i social network. Il tarlo che è stato insinuato in Africa è l’importanza di possedere, non essere. Quindi per sentirsi realizzati bisogna avere una casa piena di beni come TV, frigorifero, tutte le varie tecnologie domestiche, la macchina, ed altre cose come queste. Ma non si può avere tutto questo guadagnando un dollaro al giorno. Ecco che scatta la voglia di andare a cercare altrove. Ma non tutti partono per queste ragioni anzi la maggioranza parte per dare un futuro alla propria famiglia, garantire ai figli un’educazione, salute e pasti regolari. Poi ci sono i migranti forzati che lasciano la propria casa a causa di guerre o persecuzioni o calamità naturali come la desertificazione che avanza. Loro non hanno altra scelta se non migrare.

Sono circa 2,7 milioni gli immigrati di diverse provenienze che hanno un contratto di lavoro regolare in Italia (circa l’11% della forza lavoro del paese). Crede che questo sia un dato che sottolinea una buona integrazione?
Queste persone producono il 9% del pil nazionale, pagano circa 11 miliardi di contributi all’Inps, grazie a loro 650 mila italiani prendono la pensione. Tutto questo è un contributo al bene comune dell’Italia. In cambio, però, loro non ricevono quasi nulla - solo l'1,75% di queste risorse gli vengono restituite in termini di (dis)servizi, perché le cose non funzionano come dovrebbero. Integrazione non significa avere lavoro e reddito, bisogna vedere che tipo di inclusione sociale, economico e culturale sia stata fatta: che spazio hanno queste persone nella vita sociale? sono consultati nelle decisioni che prede un’amministrazione? La risposta è no. I mass media non parlano del loro contributo, solo di cronaca. Quindi siamo ancora lontani da poter dire integrazione riuscita.

Concludendo, c’è un consiglio che vuole lasciare per gli accoglienti nel modo di porsi verso gli accolti?
L’accoglienza non è fare elemosina, ma riconoscere l’altro come portatore degli stessi diritti e dignità che hai tu. Gli devono essere garantite, quindi, le stesse cose che sono riconosciute ad un autoctono. L’altro che arriva è una persona con il suo passato, la sua cultura, fede, sogni per il futuro. Bisogna quindi trattarlo come soggetto avente il diritto di autodeterminare il proprio futuro, non come oggetto da sistemare da qualche parte senza mai tenere in conto le sue esigenze personali. Rispetto!

lunedì 26 marzo 2018

Helena Maleno y Mussie Zerai: «Estamos cediendo nuestra libertad a cambio de seguridad»

CABECERA MN RETINA


Helena Maleno y Mussie Zerai
Por: Javier Fariñas - 26/03/2018
[Fotografía superior: José Luis Silván]


El sacerdote eritreo P. Mussie Zerai, y la periodista e investigadora española Helena Maleno, han recibido el Premio MUNDO NEGRO a la Fraternidad 2017 en el transcurso del 30º Encuentro África, celebrado a primeros de febrero en Madrid. Después de la jornada de clausura han hablado para nuestra revista sobre migraciones y personas.

Un migrante es…
Helena Maleno (HM). Una persona en movimiento.
Mussie Zerai (MZ). Una persona cargada de esperanza, que sueña con la libertad y que quiere un futuro digno.

Si hablamos de personas, de esperanza, de libertad y dignidad, ¿por qué se presenta la realidad migratoria como algo negativo?
HM. Porque es una estrategia de la política de control de fronteras y del racismo institucionalizado que está en muchos países: entender a la persona como una cosa, entenderla en el mercado laboral y no como una ciudadana de pleno derecho. Eso permite mantener diferencias, desigualdades y crear la opinión de que la migración es algo negativo y no positivo.
MZ. Siempre ha habido chivos expia­torios, y en este momento se está usando a la migración como el chivo expiatorio de la quiebra política y económica que sufre nuestra sociedad. Ellos son la excusa, ellos son los que ‘nos roban el trabajo’, los que ‘cometen los crímenes’… En el fondo, se trata de esconder nuestras propias responsabilidades.

Helena, en la presentación del Encuentro África usted aludió a la cifra que va a destinar Europa a la defensa de las fronteras. Estamos, por tanto, ante algo que trasciende la política. Esto es un gran negocio.
HM. El control migratorio está moviendo muchísimo dinero y eso lo saben las industrias de la guerra. Las industrias europeas que venden armamento a África y a Oriente Medio son las que están ahora gestionando el control migratorio. Estamos hablando de una guerra de fronteras y de cifras exorbitantes. En 2022 la Unión Europea se va a gastar 292 billones de euros en el ­control ­migratorio. Están las industrias de la guerra, pero también las industrias criminales con las que trabajan, y que están también en la frontera. Se trata, en definitiva, del doble negocio de crear la guerra, crear el movimiento y, después, frenarlo. Estamos hablando de una militarización de las fronteras. Algunos hablan de guerra de fronteras de baja intensidad, pero nosotros hablamos de una guerra de fronteras real, donde los muertos los pone África.


Rescate Médicos Sin Fronteras
Rescate a cargo de Médicos Sin
Fronteras.
Fotografía: Julie Remy /MSF

Padre Mussie, junto a esa industria de la guerra de la que habla Helena, usted conoce otra gran industria, las mafias que trafican con personas en el Sinaí.
MZ. Todo es un negocio. La palabra seguridad esconde un gran negocio para mucha gente. Hay que crear una sensación de miedo para justificar esta inversión. De algún modo, se da una cooperación entre los Estados y los traficantes de personas, porque si los Estados cierran las fronteras y clausuran el paso de las personas, están favoreciendo, de hecho, a los traficantes de personas. Y luego está el tráfico de órganos. ¿Quién se beneficia de ello?: los países ricos, las personas que pueden permitirse comprar un órgano para salvar su vida, mientras el pobre morirá en el desierto, en el Mediterráneo, abandonado en su país de origen o en cualquier país de tránsito.

En esta historia los migrantes son los perdedores. ¿Por qué en la sociedad occidental no nos percatamos de ello?
HM. La sociedad europea ha normalizado esa guerra de fronteras y esas víctimas. Normalizar la violencia, y nosotros lo hemos visto en nuestra frontera sur, significa que cuando mueren 14 personas en la playa del Tarajal, en Ceuta, por efecto de la utilización de medios antidisturbios, tenemos un auto judicial que dice que no había que activar los sistemas de rescate porque ellos mismos se pusieron en peligro. Hay muertes en las fronteras y no hay responsabilidades judiciales, por lo que nuestros resortes democráticos no valen en esos contextos de ‘no derecho’. Esto tiene su raíz en el racismo neocolonial que sigue existiendo en la sociedad. ‘Los negros se mueren pronto’, ‘los negros son pobres’, ‘los negros… es normal que se ahoguen’. Se ha normalizado esa violencia y se mira para otro lado. Tarajal es ejemplo de una violencia necesaria para mantener nuestro sistema neocolonial y un sistema de personas que ya no son tales, sino que son esclavos o esclavas que forman parte de ese modelo de esclavitud heredado de la época colonial.

¿La ciudadanía es, en algún modo, responsable?
MZ. La sociedad está dividida, fraccionada. Se vive individualmente. Incluso el ámbito familiar se limita a la mínima expresión. Basta con que yo esté bien. Este individualismo ha generado un efecto: no debo preocuparme del otro, no debo ocuparme de nadie más. Ese es un gran problema en toda Europa. Luego, el que viene de fuera, sobre todo el que viene de África, no es plenamente aceptado como persona. Pensar que el otro es igual que yo, igual en dignidad, igual en derechos, y que tiene el derecho de pensar en su propio futuro, no está plenamente aceptado ahora en Europa. En los últimos 20 años, 30.000 personas han muerto en el Mediterráneo, y otras tantas en el desierto, y esto ya no causa un impacto en la sociedad. Y desde los Estados nos trasladan que estos muertos son necesarios para defendernos de las invasiones, para que nosotros podamos mantener nuestro estatus, nuestro bienestar, nuestra seguridad. Esta política provoca una especie de lavado de cerebro de la opinión pública que se desentiende de la solidaridad, de la generosidad, de la corresponsabilidad colectiva. La democracia está en entredicho. La democracia es un contenedor que se ha vaciado de valores como la libertad, la justicia o los derechos fundamentales de la persona. Tenemos una democracia solo de fachada.


Rescate Médicos Sin Fronteras
Rescate a cargo de Médicos Sin
Fronteras. Fotografía: Julie Remy

¿Y los medios de comunicación?
HM. Para mí tienen una responsabilidad muy grande. Cuando hay una guerra, necesitamos medios de propaganda, y los medios se han convertido en un medio de propaganda eficaz para normalizar esa guerra de fronteras y esas muertes. Y se ha hecho usando lenguajes muy duros, lenguajes que no se adaptaban a la realidad. Se utilizan términos como ‘invasión’, ‘ilegales’, ‘mafias’… Todo eso lo ha hecho el lenguaje, pero no solo el lenguaje, sino también las fuentes. Cuando pasa algo en las fronteras, ¿quiénes son nuestras fuentes informativas? ¿A quién se recurre? En Tarajal hasta que no demostramos que se había usado material antidisturbios, los medios solamente creyeron la información oficial, institucional. Los verdaderos protagonistas no tienen voz ni espacio. En esta guerra de fronteras, los medios tienen una parte muy importante de responsabilidad.

¿Qué impacto tiene este discurso en la sociedad?
HM. El ministro del Interior español explicó hace unas semanas que Mohamed Bouderbala, el argelino que había muerto en la cárcel de Archidona, donde estaba retenido como si fuera un centro de internamiento, había fallecido en una celda de aislamiento. Una persona acaba de llegar en patera y está en una celda de aislamiento, un ministro del Interior puede decir tranquilamente a la sociedad que esa persona estaba allí, un juez dice que se ha suicidado, que no hay responsabilidades, que no hay que investigar, y no hay manifestaciones en la calle. Hemos normalizado que una persona que llega a España pueda morir en una celda de aislamiento. Estamos en unos niveles democráticos y de derechos humanos bastante bajos. Tenemos una policía de fronteras que ejecuta ese racismo institucional, no es una policía que protege, sino que genera esa indefensión.

¿Hemos mirado tanto a Trump que nos hemos olvidado de lo que pasa en nuestra frontera sur?
MZ. Con Trump se ha hecho evidente el racismo de Estado, ha cambiado el concepto de racismo de Estado en el modo de usar el lenguaje, en el modo de afrontar este tema. Insiste en la construcción de un muro que haga una selección de la gente antes incluso de que llegue al país. Aunque más que la construcción del muro físico, está primado la construcción de un muro ideológico, una división entre la población norteamericana y la del sur del mundo. Por eso, cuando la gente llega a Estados Unidos está ya criminalizada, y entre la población ya está inoculado el virus del miedo. Esta situación genera una cerrazón al otro, incrementa la sensación de inseguridad, que suscita un incremento de la presencia militar cuyo beneficiario inmediato es el lobby armamentístico que le ha votado. Por tanto, Trump está haciendo bien su trabajo, porque está generando un mercado donde vender más armas, más instrumental de seguridad, de control, drones, sensores eléctricos… a estos grupos de presión y fabricantes de armas que le han votado. Son, en definitiva, instrumentos que sirven para tener controlada a la población, no solo a los que están fuera, sino también a los que están dentro. Poco a poco, estamos cediendo nuestros derechos a cambio de seguridad; estamos cediendo nuestra libertad a cambio de seguridad y el daño no es tanto para el que llega de fuera, sino para uno mismo, porque al final la vallas se convierten en jaulas para los que están dentro.

Joven inmigrante
Una joven migrante desembarca
en Palermo, el pasado 18 de enero
del buque español Santa María.
Fotografía: Getty

La idea es demoledora.
MZ. El que está fuera del muro está libre, pero el que está dentro soy yo. Trump y todos los que siguen esta política no tienen interés alguno en escuchar a las miles y miles de personas que se plantan en las plazas a denunciar esta realidad, aunque denuncien que esto no es una democracia real. A la gente que está en el poder no le interesa cuánta gente hay gritando en las plazas. Solo verán a la gente si su grito favorece los intereses de la clase política. Pero si la gente grita contra el poder, contra sus intereses, nadie les escuchará. Ciertas decisiones que se toman en los parlamentos no dan respuesta al sueño que se percibe en la población. Distraen a la gente con otros ­temas, generando, creando situaciones de miedo, de terror… Pero la gente no es escuchada.
HM. La frontera con más nivel de desigualdad en el mundo no está en Estados Unidos, está en Ceuta y Melilla, y la separa una valla llena de concertinas que ha hecho una empresa española. Es una frontera en la que mueren, en avalanchas cada vez más frecuentes, mujeres trabajadoras, las llamadas porteadoras, mujeres que llevan 50 o 60 kilos en sus espaldas y que ganan 5 euros al día. Esa es la frontera más desigual del mundo. Cuando pienso en Trump pienso en las mujeres. Trump es el reflejo de esa sociedad de los muros, es el reflejo de esa sociedad que mata a las mujeres. Eso es algo muy importante de explicar, porque si hay algo muy presente en las fronteras es la infancia migrante y es la mujer como objeto de consumo. Además, sobre el asunto de la construcción de los muros, pensamos que por estar dentro del muro estamos seguros, y no es verdad. Ya lo decía Saskia ­Sassen en su libro Expulsiones, cuando hablamos en el norte global de los ­desahucios, esas personas desahuciadas ¿están dentro o fuera del muro? Estamos construyendo un sistema de expulsiones donde hay unas grandes ciudades administrativas y financieras que se protegen con muros, pero en el norte global también se dan expulsiones. Creo que Trump es el reflejo de una nueva forma de hacer política que favorece ese sistema, que explica que los Estados han perdido el poder a manos de esos grandes lobbys financieros. En Europa tenemos otros Trump. ¿Qué diferencia hay entre Macron y Trump? ¿Qué diferencia hay entre Rajoy y Trump? ¿Qué diferencia hay entre todos esos movimientos de extrema derecha que están surgiendo en Europa y las políticas de Trump? Las diferencias son pocas. Miremos los muros que estamos construyendo aquí: separan la mayor desigualdad que existe en el mundo.

Hablando de extrema derecha, ¿qué pensó cuando el movimiento Defend Europe fletó un barco, el C-Star, para impedir el trabajo de las oenegés que ayudan a los migrantes en el Mediterráneo?
HM. Es la escenificación en la sociedad civil de eso que ya está haciendo Frontex. No nos engañemos, Frontex es una policía de fronteras que disimula su acción policial con un discurso de salvaguarda de la vida en el mar. Pero Frontex ha provocado muertes y es responsable directo de ese genocidio que se produce en el Mediterráneo. Como consecuencia de esas políticas pagadas con nuestros impuestos es normal que salgan grupos de personas que vayan a hacer lo mismo que Frontex desde una posición de sociedad civil organizada. Ese barco es, como Frontex, una vergüenza para Europa. Lo que se me vino a la mente al conocer la noticia fue cómo podemos haber sembrado tanto odio, cómo puede haber gente joven que se echa al mar para hacer esto. Hemos sembrado tal odio, que cuando siembras odio recoges odio.


Mussie Zerai y Helena Maleno
Mussie Zerai y Helena Maleno
durante el Encuentro África.
Fotografía: Javier Sánchez Salcedo

Mussie Zerai, el primer ministro eslovaco, Robert Fica, dijo en diciembre que no existe ningún derecho humano a emigrar a la Unión Europea. Por otra parte, desde Frontex se ha criminalizado el trabajo de las oenegés y ha denunciado que se han convertido en taxistas de los migrantes y hacen el trabajo sucio a las mafias. ¿Qué opinión le merece esto?
MZ. Negar el derecho a la emigración que aparece en la Declaración Universal de Derechos del Hombre… Todo ciudadano es libre de moverse, dejar la propia tierra, desplazarse a otro lugar y poder volver. Este derecho debe estar garantizado por todo el mundo. El ministro debe recordar cuántos de sus compatriotas son migrantes, y que mientras que su derecho está siendo respetado, no ocurre lo mismo con el de otros. Frontex criminaliza a las oenegés y la solidaridad, pero esconde su propia responsabilidad. Si nos preguntamos cuándo las oenegés han comenzado su labor de rescate y salvamento en el mar, nos encontramos un hecho clave: en 2013, en tan solo una semana 1.000 personas murieron en el Mediterráneo. El 3 de octubre de 2013 murieron 368 personas, y una semana después otras 700 personas. Después de estas tragedias las oenegés comenzaron a operar en el mar, no se podía asistir pasivamente a la transformación del Mediterráneo en un cementerio a cielo abierto. Los Estados tienen la obligación moral y legal de proteger y salvar la vida humana, y no lo han hecho. ¿Qué va a denunciar? ¿Que el propio Estado no ha cumplido con su trabajo y que las oenegés han venido a cubrir un hueco que estaba abandonado?

Esto ha sido muy evidente en Libia después de Gadafi.
MZ. Después de la caída de Gadafi las aguas territoriales libias se convirtieron en el lejano oeste. Se disparaba, se mataba… Sucedía de todo, y nadie hacía nada, nadie intervenía, nadie salvaba a las personas que estaban en peligro. Este fue el fallo de la Unión Europea, que ahora esconde criminalizando a las oenegés, criminalizando a quien se solidariza y coopera para salvar la vida humana. Es también responsabilidad de la OTAN, que intervino para derrocar el régimen de Gadafi, pero que no se ha ocupado de la seguridad del mar, de todas las personas que huían de Libia para llegar a un lugar seguro. Yo denuncié en 2011 el caso particular de una barcaza que partió de Libia con 72 personas apenas caído el régimen, cuando las aguas territoriales libias estaban controladas por la OTAN con un montón de barcos. Estas personas estuvieron a la deriva en el mar durante 15 días. 63 de ellas murieron de hambre y de sed. Cuando la barcaza fue avistada, avisaron a la guardia costera italiana, con la que yo también me puse en contacto cuando recibí una llamada de socorro. La base de la OTAN en Nápoles mandó un helicóptero y les tiraron agua y galletas. Les prometieron que enviarían a alguien a por ellos, pero nadie volvió. Un superviviente ha contado después que durante esos días se encontraron con diversas naves militares que se limitaban a fotografiarles y a grabarles en vídeo, pero no les ayudó nadie. Esto es responsabilidad de la OTAN y del Estado, que debía promover la defensa de la vida humana en el Mediterráneo y que no lo hace. Por eso las oenegés están ahí, cubriendo el vacío de los Estados porque no podemos dejar morir a las personas.

¿Qué importancia tiene que el papa Francisco esté haciendo de su pontificado una gran campaña de denuncia de la realidad de los migrantes?
MZ. Lo que el Papa está haciendo es una referencia para todo el mundo, primero de todo para que no perdamos nuestra humanidad, ni el sentido de solidaridad con el otro, ni la corresponsabilidad entre nosotros. Está llamando la atención para atender al más débil en una sociedad en la que ponemos la atención en los poderosos. El Papa dice lo contrario, el poderoso ya lo es, es el más débil el que sueña con la ayuda. De aquí a poco llegará el momento en el que miles de millones de personas serán descartadas por el sistema. El Papa está muy atento a la cultura del descarte, a esas personas que serán descartadas, que estarán completamente fuera de los escenarios político, social y económico, que estarán abandonadas, y que protagonizarán grandes conflictos entre empobrecidos. Este es el peligro contra el que insiste el Papa.

Maleno y Zerai
Maleno y Zerai durante la recogida del premio, el 3 de febrero. Fotografía: José Luis Silván

Una europea que vive en el sur, y un eritreo que vive en el norte han compartido este Premio Mundo Negro a la Fraternidad 2017. ¿Qué nos perdemos, como sociedad, si impedimos que los migrantes africanos vengan?
HM. Mis hijos se han criado en el Sur y no pueden tener mayor riqueza que comprender el Norte global, comprender el Sur y ser un puente. Muchos de los críos que están creciendo entre esos dos mundos que quieren separar con muros serán el puente para el futuro, y ese puente también está en Europa. Tenemos todas esas compañeras y compañeros que están viviendo aquí y que van a hacer de puente entre el Norte global y el Sur global y son esperanza para terminar con esas desigualdades. Y son, sobre todo, esperanza para que tengamos memoria, para que no perdamos la memoria histórica. Entre 1900 y 1915, 12 millones de italianos se fueron de Italia hacia otros destinos. Nos parece que eso está muy lejano, pero está muy cerca en el tiempo. Necesitamos acercar ese Norte global y romper los muros. Eso es lo que van a hacer esas personas que están viniendo, y los que que nacerán aquí y allí: tender puentes y derribar muros.
MZ. El futuro, conviene recordarlo, está en África y no en Europa. Mañana serán muchos los europeos que quieran ir a África. En el pasado, los europeos vinieron en masa a África, pero solo vinieron fuertemente armados, vinieron para ocupar, para hacerse los amos de la tierra africana. Mientras, los africanos que vienen hoy a Europa lo hacen pacíficamente, vienen en son paz, en busca de solidaridad, pero Europa olvida el pasado y su responsabilidad respecto a nuestro continente y les cierra las fronteras. De esta manera está también condicionando su futuro, porque su futuro está en Africa.


Il crimine di solidarietà: una escalation che fa riflettere


di Emilio Drudi

“Hanno istituito il reato di solidarietà… Ecco, poiché il decreto legge 286 del 1998 dice chiaramente che non commette reato chi soccorre persone in pericolo, devo dedurre che abbiano istituito il reato di solidarietà”: è polemico ma estremamente chiaro il commento fatto a caldo da Rosa Emanuela Lo Faro, avvocato del capitano Marc Reig, il comandate della Lago Azzurro, l’ammiraglia della Ong spagnola Proactiva Open Arms, incriminato insieme al capo missione Anabel Montes e al fondatore dell’organizzazione, Oscar Camps. L’accusa è pesante: associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione, un reato per il quale si rischiano da 4 a 7 anni di carcere e che, intanto, ha portato al sequestro dell’unità, ancorata nel porto di Pozzallo, impedendo così la prosecuzione delle missioni nel Mediterraneo, volte a salvare vite umane. Perché di questo si tratta: i volontari di Proactiva Open Arms sono “colpevoli” di salvare vite umane. Di essersi rifiutati di consegnare alla Guardia Costiera di Tripoli i 218 naufraghi che avevano appena soccorso su due gommoni alla deriva, a 73 miglia dall’Africa, in piene acque internazionali, per non rimandarli nell’orrore della Libia, dove uccisioni, morte, torture, sofferenze, riduzione in schiavitù sono pratica quotidiana.

Può sembrare assurdo, ma “colpire” la solidarietà verso rifugiati e migranti sembra diventata quasi la norma, accompagnata spesso da diffamazione e dileggio, come la definizione di “taxi del mare” pronunciata più volte persino in Parlamento, la primavera scorsa, quando si è scatenata la campagna di discredito contro le Ong impegnate con le loro navi nel canale di Sicilia per cercare di rendere meno tragica e mortale la via di fuga dalla Libia. Vale la pena ripercorrere alcuni dei principali episodi che hanno preceduto il caso della Open Arms.



Lesbo (Isole Egee), 14-17 gennaio 2016. Arrestati 5 volontari per aver soccorso una barca in avaria, proveniente dalle coste turche, carica di migranti. Tre (Julio, Kike e Manuel) sono vigili del fuoco spagnoli, in forza al comando di Siviglia e specializzati in interventi d’emergenza, che hanno deciso di impegnare tutte le loro ferie e un lungo periodo di aspettativa dal lavoro per assistere i profughi nell’Egeo. Gli altri due appartengono all’organizzazione umanitaria danese Team Humanity, mobilitata a Lesbo, la principale meta dei fuggiaschi dalla Turchia. Il processo si svolge per direttissima il 17 gennaio, tre giorni dopo l’arresto. I tre spagnoli e uno dei due attivisti danesi vengono rilasciati, ma la loro odissea non finisce: le autorità greche decidono di continuare le indagini, chiedendo nel frattempo 5 mila euro a testa di cauzione. A Salam, il proprietario del battello di salvataggio, viene imposto invece un deposito cauzionale di 10 mila euro, con l’ordine di non lasciare la Grecia e l’obbligo di recarsi una volta alla settimana alla stazione di polizia. La vicenda è ancora aperta. Interventi analoghi da parte della polizia vengono segnalati dai volontari anche nella vicina isola di Chios.



Udine, 16 giugno 2016. Sette volontari della onlus Ospiti in Arrivo vengono indagati con l’accusa di aver commesso, in concorso  tra loro, “invasione di terreni o edifici” e “deturpamento o  imbrattamento di cose altrui”. Ma, soprattutto, tre di loro – i due responsabili dell’associazione e un interprete – ricevono un avviso di garanzia per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” in Italia “per trarne ingiusto profitto”. I fatti contestati si sono svolti tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015, quando a Udine non c’erano strutture di accoglienza adeguate e i profughi restavano abbandonati a se stessi. I volontari sono posti sotto accusa, in sostanza, per aver fornito un’assistenza quotidiana, portando pasti caldi e coperte ai migranti nei luoghi dove trovavano un riparo: edifici dismessi, parchi, il sottopasso della stazione ferroviaria, ecc. Il tutto in maniera assolutamente gratuita, grazie a risorse messe a disposizione da privati ed anzi, quando possibile, accompagnando gli assistiti nei locali della Caritas anziché nei rifugi di fortuna, oltre che fornendo informazioni e un interprete per le richieste di asilo. L’aggravante dell’ingiusto profitto è stata individuata dall’accusa nel tentativo dei volontari di essere riconosciuti come associazione per poter eventualmente accedere alla richiesta del 5 per mille.



Nizza, 17 ottobre 2016 – 7 gennaio 2017. Quasi tre mesi sotto accusa, imputato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver dato un passaggio in auto e aver cercato di aiutare tre ragazze eritree incontrate casualmente, spaesate e mezzo morte di freddo, lungo una strada che dalle Alpi Marittime scende verso la Costa Azzurra. E’ quanto è capitato a Pierre Alain Mannoni, 42 anni, due figli, ricercatore del dipartimento dell’istruzione, di origine corsa ma residente a Nizza. Fermato dalla polizia il 17 ottobre, privato della macchina e del cellulare e rinviato a giudizio, la prima udienza del processo si è svolta il 24 ottobre per la notifica dell’accusa. Il procedimento è andato avanti fino al 7 gennaio 2017: il Tribunale di Nizza si è pronunciato per la piena assoluzione, ma la Procura ha contestato la sentenza, presentando appello.



Bruxelles, 15 dicembre 2016. Frontex, l’agenzia europea per le frontiere esterne, accusa di collusione con i trafficanti di esseri umani le Ong impegnate con le loro navi nel Mediterraneo per operazioni di soccorso ai battelli dei rifugiati. L’accusa è parte essenziale di due documenti riservati, risalenti al mese di novembre ma ottenuti e pubblicati dal Financial Times il 15 dicembre, proprio nel giorno del vertice Ue convocato per discutere sulla crisi dei migranti. Secondo Frontex, la flottiglia delle Ong, incrociando a breve distanza dalle acque territoriali libiche, costituirebbe un incentivo per gli imbarchi effettuati dalle organizzazioni che gestiscono il mercato degli esseri umani. In entrambi i documenti, inoltre, si afferma che le persone salvate dai volontari non sarebbero disposte a collaborare con la polizia italiana e con i funzionari di Frontex proprio su indicazione delle stesse Ong. E’ il primo atto della vasta campagna politica e mediatica che porterà a mettere sotto accusa le organizzazioni umanitarie, fino a costringerle quasi tutte a interrompere l’attività per non piegarsi alle norme fortemente restrittive e lesive dell’autonomia operativa, imposte dal Governo italiano.



Val Roya (Francia), 18 gennaio – 10 febbraio 2017. Viene arrestato per l’ennesima volta Cedric Herrou, un agricoltore di 37 anni, più volte finito sotto accusa per aver accolto e aiutato nel tempo oltre 300 migranti provenienti dall’Italia ed entrati in Francia dalla Val Roya, sulle Alpi Marittime. La stessa scelta di Herrou hanno fatto altri valligiani, almeno un centinaio, riuniti nell’associazione Roya Citoyenne, e almeno una decina di loro sono finiti come lui sotto processo. L’intero gruppo si è sempre mosso in silenzio, ma dopo il caso del professor Mannoni decide di uscire allo scoperto per denunciare la politica di chiusura del Governo francese. Il processo contro Herrou si svolge il 10 febbraio di fronte al Tribunale di Nizza. La Corte pronuncia una condanna poco più che simbolica: 3 mila euro di ammenda per uno solo degli episodi contestati dall’accusa, aver portato diversi ragazzi eritrei dall’Italia in Francia. Il procuratore, che aveva chiesto 8 mesi di carcere, il sequestro dell’auto e il ritiro della patente di guida per impedire che Herrou potesse continuare la sua attività, ha proposto appello.



Ventimiglia, 5-20 marzo 2017. Il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano (Pd) vieta di fornire cibo e bevande “su area pubblica” ai migranti. L’obiettivo è bloccare il programma di assistenza organizzato dai volontari francesi dell’associazione Roya Citoyenne, che ogni sera varcano il confine e scendono dalla Val Roya fino a Ventimiglia per aiutare le centinaia di giovani bloccati al varco di frontiera tra Italia e Francia. In base all’ordinanza, ogni volontario rischia da 300 a 3.000 euro di ammenda, il sequestro dell’auto e un foglio di via che impedirebbe di entrare di nuovo in Italia. Sulla base di questa disposizione, almeno uno dei volontari viene denunciato dalla polizia. Quanto è scritto nel verbale, datato 20 marzo, non lascia adito a dubbi: “Indagato per aver somministrato senza autorizzazione cibo ai migranti”. Secondo notizie di stampa, a questa avrebbero fatto seguito almeno altre due denunce.



Svizzera, 13 aprile 2017. Luisa Bosia Mirra – deputata del Gran Consiglio del Canton Ticino, premiata per quanto ha fatto in favore dei profughi diretti verso il Nord Europa – viene condannata a 80 franchi di ammenda al giorno (esecuzione sospesa per un periodo di prova di due anni) per “ripetuta incitazione all’entrata, alla partenza e al soggiorno illegale” di migranti nel territorio svizzero, in violazione della legge federale sugli stranieri. Il processo è stato originato dal fermo di polizia subito da Lisa Bosia Mirra ad opera delle guardie di confine “per aver collaborato all’entrata illegale in Svizzera di cittadini stranieri sprovvisti di documenti di legittimazione tra l’agosto e il settembre 2016”. Si tratta dei mesi di massima emergenza a Como, con centinaia di migranti bloccati alla frontiera in condizioni disperate. E’ sintomatico quanto scrive su Facebook la deputata dopo la condanna: “Sono stata zitta a lungo, ma adesso sono pronta a raccontare quello che ho visto a Como: le ferite ancora aperte, le donne stuprate, i minori respinti. Di come quel parco antistante la stazione si sia trasformato nella dimostrazione più evidente della fine di qualunque umanità”.



Italia, luglio-settembre 2017. Padre Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, candidato al premio Nobel per la pace nel 2015 per le sua attività in favore dei migranti, è incriminato dalla Procura di Trapani con l’ipotesi di reato di complicità con i trafficanti e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’imputazione scaturisce dalle indagini condotte sulla Jugend Rettet, la Ong tedesca che opera con proprie navi di salvataggio nel Mediterraneo. A padre Zerai viene contestato, in particolare, che il suo nome figurerebbe in una rete telefonica ricollegabile alla Ong, finita a sua volta sotto inchiesta, con il sequestro della nave e l’accusa di essere in contatto con clan di “mercanti di uomini” o addirittura di aver organizzato una vera e propria “rete di consegna” da parte degli scafisti alle unità di salvataggio in mare. Interrogato a Roma il 19 settembre, il sacerdote rileva che tutte le sue richieste di aiuto per i natanti di profughi in difficoltà (incluse quelle arrivate alla Jugend Rettet) sono sempre passate attraverso il canale ufficiale della Guardia Costiera. Il procedimento è ancora aperto.



Marocco, 5-27 dicembre 2017. Helena Maleno, attivista per i diritti umani, esponente della Ong Frontera Sur, che opera sia in Spagna che in Marocco, viene incriminata perché la sua attività favorirebbe “la rete dei trafficanti”. Alla base delle imputazioni sono, in particolare, le segnalazioni inviate al Salvamento Maritimo spagnolo, per sollecitare interventi di soccorso alle barche cariche di migranti in difficoltà nello Stretto di Gibilterra, dopo essere partite dalla costa marocchina per raggiungere quella andalusa. Le prime udienze si sono svolte a Tangeri il 5 e il 27 dicembre. Il processo è ancora in corso.



Francia (Briancon), 12-13 marzo 2018. Benoit Ducos, una guida alpina del Brianconais, in Francia, denunciato dalla gendarmeria, viene incriminato per aver soccorso e cercato di portare in ospedale, con la sua auto, una donna nigeriana, Marcela, all’ottavo mese di gravidanza ma già in travaglio, incontrata il pomeriggio del 12 marzo poco oltre il confine italo-francese del Monginevro, a 1.900 metri di altitudine, in mezzo alla neve. In base all’accusa, formalizzata il 13 marzo, Benoit rischia 5 anni di carcere.



E’ stata celebrata da poco la Giornata dei Giusti. Cerimonie, discorsi, incontri, appelli, inviti a non dimenticarne e, anzi, a seguirne l’esempio. Ma anche i giusti hanno “ignorato le regole”. Di più: sono considerati “giusti” proprio perché hanno violato le leggi che imponevano di consegnare gli ebrei agli aguzzini nazisti e fascisti, obbedendo, invece, alla propria coscienza. Obbedendo, cioè, alla “legge di Antigone”, al senso di giustizia che ogni uomo reca con sé, nella convinzione che anche solo restare indifferenti, voltarsi dall’altra parte, li avrebbe resi complici della morte delle persone che invece hanno salvato. I tanti “imputati di solidarietà” hanno fatto lo stesso. In particolare, i volontari di Open Arms: hanno disobbedito alle leggi, ai trattati internazionali, per sottrarre centinaia di persone all’inferno in cui è ridotta oggi la Libia. Perché che la Libia sia un inferno è ampiamente provato: lo confermano i numerosi, drammatici rapporti che si sono susseguiti in questi anni ad opera di organizzazioni come Amnesty o Human Rights Watch ma soprattutto dell’Onu. E lo testimonia direttamente il salvataggio, effettuato pochi giorni prima dalla stessa Open Arms, di altri 92 profughi, arrivati stremati a Pozzallo, trasformati in larve, quasi morenti. Tanto che uno, Segen, un ragazzo eritreo di 22 anni, non ce l’ha fatta: ridotto a pesare appena 35 chili, lui che era alto quasi un metro e 80, è morto di fame, per consunzione, pochi minuti dopo essere sbarcato. Tutti hanno detto che quei giovani sembravano ebrei usciti da un lager nazista. E di campi in Libia che evocano i lager nazisti ha parlato anche la Corte d’Assise di Milano, condannando all’ergastolo uno degli aguzzini del centro di detenzione di Bani Walid.

Ecco, a parte il diritto del mare che impone comunque di salvare le persone in pericolo, come erano i migranti dei due gommoni soccorsi a 73 miglia dalla costa africana, i volontari della Open Arms non hanno obbedito alle intimazioni della Guardia Costiera libica e, implicitamente, agli ordini della Guardia Costiera italiana, proprio per sottrarre centinaia di vite umane all’inferno di quei lager. E’ questa la loro colpa? Al di là delle sottigliezze e dei particolari dell’inchiesta, la loro colpa sembra essere proprio questa. Ma se è questa, allora non ha più senso ed è ipocrita celebrare la Giornata dei Giusti, come non ha più senso celebrare la Giornata della Memoria. Perché se ne sono dimenticati o, peggio, annullati il messaggio e la lezione. Il significato stesso.







Da Tempi Moderni

venerdì 23 marzo 2018

Il treno del razzismo




“Può il sindaco spedire a Milano dodici immigrati?”, questo il titolo di un articolo scritto da Maria Bordoli e pubblicato dalla celebre testata giornalistica “Il Corriere”. Coincidenza o puro caso? Il nome della testata giornalistica e il verbo "spedire" sono particolarmente affini al mondo postale. Mittente e destinatario, questi i due termini estremi protagonisti della nostra riflessione critica.  Raccomandate, lettere e pacchi postali contenenti doni che devono essere recapitati in occasione di importanti avvenimenti che costellano la nostra stessa condizione esistenziale possono, infatti, esser ritenuti oggetti di scambio e di transizione. Dal tempo delle maschere apotropaiche, a mio avviso, nessuno ha mai spedito un essere umano. Vi sono certamente stati fenomeni sociali alquanto ripugnanti, potremmo infatti rievocare la Tratta degli Schiavi, nella quale effettivamente soggetti appartenenti storicamente ad una determinata cultura venivano letteralmente prelevati, trasportati in condizioni deplorevoli e sfruttati per scopi che non avevano nulla in comune con gli ideali di democrazia e libertà sui quali dovrebbe fondarsi la società, affondando di conseguenza le proprie radici in un terreno fertile. Nonostante ciò, secondo fonti certe e appurate, il Sindaco di Gallarate ha collocato su un vagone ferroviario dodici immigrati irregolari, dopo essersi scrupolosamente accertato che la Tratta Disumana portasse costoro nella città del lusso, della moda e del design, Milano. Scrive Maria Bordoli: “Premesso che penso che il problema degli irregolari esista e che vada affrontato con spirito realistico e non con una dose eccessiva di buonismo, mi chiedo se questo comportamento sia consentito dalla legge. Di questo passo qualunque primo cittadino potrebbe comportarsi nello stesso modo”. Esaminando più attentamente l’evento realmente accaduto, potremmo definire una chiave interpretativa che ci consenta immediatamente di assaporare l’assoluta percentuale di assurdità riscontrabile, per citare un esempio, anche all’interno dei racconti fantastici portati sulla scena del panorama editoriale italiano da Dino Buzzati, maestro dell’immaginifico e autore di straordinari componimenti letterari come “Una Goccia”. La sottile differenza che separa i racconti dello Scrittore italiano, che fu d’ispirazione per coloro che nel corso dell’incedere del tempo vollero seguire le ombre del Maestro e il tragico evento si denota immediatamente: qualsiasi opera frutto dell’invenzione personale si esaurisce in un lasso temporale delimitato e non entra direttamente in contatto con l’esistenza di un individuo il quale, seppur possa ricevere da quest’ultima una precisa emozione, non subirà uno sconvolgimento totale della propria vita, a differenza della “deportazione” effettuata in maniera rozza, barbara e meschina da un sindaco che sembra non voler conformare il proprio sistema di pensiero e d’azione con il contesto giuridico e sociale. Questa “deportazione”, per altro avvenuta con lo stesso metodo e mezzo utilizzato negli anni del secondo conflitto mondiale dai nazisti, non potrebbe esser certamente considerata il miglior mezzo di confronto tra culture che presentano peculiarità in grado di contraddistinguerle e di renderle uniche. Al di là delle personali ideologie politiche, mi preme particolarmente sottolineare in modo palesemente marcato un atto assolutamente scandaloso. Inoltre, com'è possibile che un soggetto possa decidere dove debba stare un altro soggetto senza aver alcuna competenza tecnica in un determinato settore, come quello dell’immigrazione? Credo sia esplicitamente evidente che i fatti puramente riportati con distacco, freddezza e oggettività possano conferire un’immagina alquanto nitida della situazione. In chiusura, un appello al Sindaco. Si ricordi che davanti a sé vi erano delle persone, non dei pacchi postali, perché solo individuando l’amore e l’essenza della vita nelle iridi di un nostro fratello è possibile pienamente capire chi siamo noi stessi e come dobbiamo utilizzare il tempo a nostra disposizione durante la limitata permanenza su questo pianeta che venne addirittura descritto da un noto poeta come “Un Atomo Opaco del Male”, la Terra. 
La nostra Terra. 
La nostra Casa.

“Devo lasciare un biglietto a mio nipote: la richiesta di perdono per non avergli lasciato un mondo migliore di quello nel quale dovrà vivere”.             

- Cit. Andrea Zanzotto

Francesco Pivetta


giovedì 22 marzo 2018

Prefazione del progetto editoriale “Il Tuo Riflesso"




Fare memoria, lasciare parlare la Storia, imparare dal passato

“Post Fata Resurgo”, questo il motto della Fenice, il quale tradotto in italiano assumerebbe il seguente significato: dopo la morte torno ad alzarmi.
La Fenice, dunque, risorge dalle sue stesse ceneri, trasmettendo simbolicamente un messaggio di forte speranza e di crescita. Riemergere dalle proprie ceneri significa elaborare interiormente le avversità che sopraggiungono quotidianamente, trasformandole e applicando l’esito di queste mutazioni ai principi sui quali si ergono modelli di vita personali, con l’intento di migliorare la propria condizione esistenziale. Attraverso gli ostacoli presenti sul cammino della nostra vita infatti, si possono fabbricare dei piccoli mattoncini, proprio come facevano i nostri antenati, edificando un castello imponente, una vita degna di essere vissuta come quella di Giuseppe Pivetta. La cenere, la sofferenza, i cocci del nostro cuore, i residui delle nostre delusioni, anche se non ci crediamo subito, diverranno la base della nostra forza. Il volo della Fenice, che dalle sue ceneri si ricrea con quel fuoco vitale che la avvolge, diviene un’immagine straordinaria di positività e di vita.
“Nel cuore di questa civile Europa – scriveva Primo Levi nella Testimonianza per Eichmann – è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero su milioni di cadaveri e di schiavi. Il verbo è stato bandito sulle piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati, tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno, l'impero, un effimero impero, è stato edificato; i cadaveri e gli schiavi ci sono stati”.
Uno degli obiettivi fissati da chi scrive questo genere letterario è riscontrabile nell'impegno attivo per tramandare alle giovani generazioni la memoria storica e umana attraverso la scrittura e la cultura.
Si tratta di un obiettivo fondamentale che diviene sempre più importante di fronte alla distanza temporale crescente che ci separa da quei fatti, alla scomparsa dei testimoni e della loro memoria vivente, di fronte al tentativo di cancellazione della memoria e della storia operata attraverso le tesi revisioniste o negazioniste.
L'obiettivo è quello di rinnovare la memoria e, partendo da una pagina tragica della storia del Novecento, richiamare la riflessione dei giovani sulla lotta al razzismo anche nella società contemporanea per contribuire alla costruzione dei valori comuni nell'Europa di domani.
Non bisogna confondere la memoria con il ricordo.
Il ricordo è un pezzo del passato isolato dal suo contesto, messo in una cornice. La memoria è invece il senso, il significato profondo di una vicenda passata e lo sforzo di raccordarla al presente. La memoria comporta sempre una fatica, spesso dolorosa, il ricordo no, il ricordo è passività. La memoria è uno sforzo ed un passaggio essenziale per capire, per mettere a confronto la forza della propria coscienza e dei propri valori di fronte ai fatti della Storia, di fronte alla terribile banalità del male e all'indifferenza che allora fu di milioni di uomini in Italia ed in Europa e che ha rischiato di riproporsi di fronte ad eccidi o a genocidi che si sono perpetrati ancora nel mondo, dopo la fine di quella tragedia che si è inverata per un lungo arco temporale.
Conoscere e capire sino in fondo ciò che accadde negli anni della discriminazione e dell'indifferenza, approfondire le riflessioni sulle responsabilità, capire le ragioni della rimozione di questi eventi dalla memoria costituiscono gli elementi indispensabili per la costruzione di un nucleo di valori comuni attorno ai quali far crescere e rafforzare l'identità di un popolo, che sia da tutti condivisa, perché il nostro Paese possa avere più forza umana e civile.
Questo libro sulla storia personale di Giuseppe Pivetta è un'iniziativa che si affianca all'importante contributo delle comunità di sopravvissuti alle guerre italiane ed europee con lo scopo di diffondere le singole storie personali, in particolare attraverso la letteratura e la proposta di visite nei luoghi della grande guerra.
Conoscere i fatti e i luoghi di questa pagina della nostra Storia significa anche offrire alla riflessione delle giovani generazioni un elemento fondamentale per comprendere la storia di questo secolo.
Il confronto diretto con i “monumenti” silenziosi ed agghiaccianti dello sterminio – dalle carte dei censimenti agli edifici dell'annientamento fisico degli ebrei, dei prigionieri politici, degli zingari, dei portatori di handicap fisici e psichici, degli omosessuali – insegnano ai giovani la necessità di “entrare nel nuovo secolo” forti di una “ragione” moderna, che non può essere più la razionalità assolutistica, cui affidarsi ciecamente, ma una ragione guidata dal principio di responsabilità dell'uomo di fronte a se stesso e di fronte agli altri umani.
Io credo che questo libro sia il modo concreto con cui la nostra generazione fa propria la considerazione di Gershom Scholem che, alcuni anni fa, dichiarò: “Per quanto sublime possa essere l'arte del dimenticare noi non possiamo praticarla” (Ebrei e tedeschi, 1966).
Sui lager si è scritto più che altro sul principio di discriminazione. Eppure Auschwitz non sarebbe esistito senza quel principio. Auschwitz nel suo universo di dolore pianificato e indicibile ci sembra non possa mai più tornare. Ma la discriminazione che è alla sua radice, invece sì; a volte la vediamo sulle strade, negli stadi di calcio, qualche volta persino nelle scuole e allora anche la fiducia nella non ripetibilità di Auschwitz si incrina.
Il razzismo, infatti, è forse proprio l'aspetto del fascismo e del nazismo che può ritornare e che può diventare lo scoglio più duro perché il futuro sarà sempre più improntato alla multietnicità.
Uno dei caratteri fondamentali dell'umanità nei prossimi decenni infatti sarà il fenomeno migratorio.
All'emigrazione “povera”, fatta di persone che sfuggono alla fame, alla miseria, alla persecuzione, si sommerà un'emigrazione “ricca”, costituita da masse di professionisti capaci che sceglieranno nel mondo i lavori più soddisfacenti e più retribuiti. Per queste ragioni la multietnicità è il futuro del mondo ed i Paesi più forti nell'economia, nella scienza e nella cultura saranno e sono già oggi i Paesi con un più alto coefficiente di multietnicità. Ma non tutti comprendono che questo è il futuro e che questo futuro, che dev'essere affrontato con serenità e fermezza, deve essere governato e non respinto.
È una consapevolezza che dobbiamo contribuire insieme a far crescere nel Paese.
Sicurezza delle città e l’integrazione dei cittadini non comunitari nel nostro Paese, non sono obiettivi contrapposti, sono entrambi parte fondamentale di una politica dell'immigrazione moderna, che affronta i problemi con senso della realtà ed è capace di risolverli.
Chi ha paura o non capisce può diventare razzista.
Nel mondo di oggi ciascuno di noi può diventare improvvisamente minoranza, per il suo aspetto fisico, per le sue scelte sessuali, per la sua fede religiosa o per l'assenza di fede religiosa, per il suo stile di vita. Apparteniamo tutti in realtà ad una somma di minoranze o, meglio, apparteniamo a maggioranze o minoranze fluide che possono improvvisamente cambiare di segno, a seconda del momento, delle condizioni sociali e culturali.
Più che mai oggi è attuale, per dare concretezza alla democrazia, il richiamo alla lotta contro il razzismo e contro ogni forma di discriminazione.
Non si tratta di riaffermare il vecchio concetto di tolleranza, che presuppone la divisione in tollerati e tolleranti. Occorre costruire il concetto ed il costume della convivenza tra diversi che si rispettano reciprocamente.
Dobbiamo conquistare il valore della convivenza e del rispetto reciproco anche di chi, invece, è convinto di difendersi con il rifiuto e la diffidenza verso coloro che ritiene essere diversi da sé. Non dobbiamo essere razzisti contro i razzisti.
In questo modo possiamo concretamente sperare che non si costruiscano, ancora, dei nemici. Insieme dobbiamo condividere l'impegno affinché nel presente e nel futuro essere diversi non significhi mai più essere discriminati.
La capacità di lottare contro la discriminazione che costituisce la più grave forma di iniquità sociale è uno dei capisaldi della dignità di un popolo che ha memoria del suo passato.
Sta al nostro impegno comune far divenire la memoria uno dei cardini nella formazione culturale ed umana delle generazioni che non hanno conosciuto direttamente le due guerre mondiali, il totalitarismo nelle sue varie sfumature e colori attraverso quella trasmissione di valori, sentimenti, ideali che danno un senso alla vita e permettono che la vita abbia un senso.

Don Mussie Zerai



Sinossi del progetto editoriale:

Un’avvincente testimonianza offertaci dall’inaspettato e sorprendente ritrovamento, e dall’inedita pubblicazione, di un diario di guerra redatto da un militare italiano deportato nel campo di prigionia nazista di Neuengamme e un dialogo tra un Internato Militare Italiano (I.M.I.), miracolosamente sopravvissuto allo sterminio nazista, e suo nipote, in cui le atrocità e le barbarie commesse nei lager nazisti nei confronti dell’intera umanità vengono rappresentate attraverso l’utilizzo di un linguaggio metaforico: questi sono gli elementi caratterizzanti de “Il Tuo Riflesso”. Dopo settant’anni, nei quali il diario di guerra fu segretamente conservato, la scoperta di una narrazione storiografica così fluida e scorrevole ci permette di immedesimarci all’interno del quadro storico, sociale, culturale e politico del tempo, prendendo indirettamente parte al racconto, permeato di sentimenti individuali fusi con gli eventi storici narrati. Questo libro si prefigge l’intento di divulgare alcune Pagine e Parole di Vita sperando che possano giungere all’interesse delle nuove generazioni, alle quali è affidata la difesa della libertà collettiva e della democrazia, affinché si possa definitivamente scongiurare la possibilità che, nel nome di un’ideologia errata si verifichino, ripresentandosi, catastrofici eventi e comportamenti inumani come quelli perpetrati dal Terzo Reich per sterminare, annientare e sopprimere innocenti.

Francesco Pivetta

martedì 20 marzo 2018

Aylan





È la voce profonda dal mare che torna, roca e sommessa s’accende nel vuoto e si spegne nel nulla. S’inerpica lenta, procede a strattoni. Infervora il vento sui nostri ricordi, nei vecchi pensieri riflessi dagl’occhi. Silenzio. È la voce che parla e dall’arida baia s’ode un lamento. Giunge e poi torna percorrendo a ritroso il suo lento cammino. Graffia irrompendo nel mio sentimento.
L’acqua cullandoti ti porge alla costa. T’accoglie la sabbia in un tenero abbraccio, fondendo le tue membra al suo manto color oro.
Le lentiggini sul tuo volto incorniciano il bianco candore della tua tenera pelle. Le leggere palpebre velano i piccoli occhi, quasi a proteggerli.  L’aria scherzava con i tuoi soffici capelli, accarezzandoli dolcemente, quasi a non volerli scompigliare.
In quella notte cupa una stella cadente solcava il cielo mentre una lacrima rigava il volto dilaniato dal dolore di tuo padre. Gemeva stringendoti al petto nell’ultimo abbraccio. La sua voce sussurrava parole d’amore che, come stanche onde, s’infrangevano sulla ripida scogliera, frantumandosi per poi riprendere il loro lento incedere. Un tremore pervase il tuo petto. Le spesse nuvole soffocavano a poco a poco i raggi del Sole, quand’ecco che una saetta, feroce ed improvvisa, s’abbatté su un’altura della costa generando un forte boato che, fulmineo, si disperse rapido nell’aria. E l’acqua a poco a poco divenne più mossa, come un sentimento che strugge l’animo che non trova conforto in un porto di pace.  Meste e vane preghiere s’innalzarono. Dov’era il Dio a cui eravate devoti? Forse era anch’egli con voi a sopportar la pena del lancinante dolore, nascosto nella stiva, tremante ed angosciato. Ed il piroscafo venne sommerso d’acqua: era la morte che bussando alla porta della vostra anima vi chiedeva di seguirla indicandovi il cammino. Protrasse una gelida mano ma le sfuggisti. Non ti accogergesti però che ti aveva già avvolto con un lembo del suo cupo e nero pastrano. Al tuo ventre s’avvinghiava con ferocia, trascinandoti nell’oscuro degli abissi, là dove nulla ha un nome ed un posto, laddove tutto si disperde e nulla si trova. Ricordavi la madre, la sua carnagione così rosea e lieve, le sue iridi color verde smeraldo ed il tocco delle sue così vellutate mani che sembravano potessero sfiorare ancora il tuo capo in un gesto d’amore. Il dolce profumo di lavanda inebriava le sue vesti che candide cadevano leggiadre sulle sue esili spalle.
Dal mare ritorna la voce profonda. Il vento si placa, posandosi su foglie di felce che paiono nel buio come soffici coltri che il corpo confortano dal crudele destino.
Sgorgavano i ricordi a flebili fiotti e subito si dissipavano divenendo opachi come la cera.
Il gusto di salsedine permeava le tue minute labbra. Morivi d’inverno, alla fine d’un viaggio, nell’assurda ricerca del lontano miraggio che qualcuno chiamava Vita.
I pensieri, come amazzoni, cavalcheranno eternando il ricordo. Sulla pietra s’inciderà il tuo nome, nel cuore si scolpirà il tuo volto, piccolo Aylan.

Francesco Pivetta

Holy See:- Second Formal Consultations towards a Global Compact on Refugees - Part I


Statement by H.E. Archbishop Ivan Jurkovič, Permanent Observer of the Holy See to the United Nations and Other International Organizations in Geneva at the Second Formal Consultations towards a Global Compact on Refugees - Part I


Geneva, 20 March 2018


Mr. Moderator, 
The Delegation of the Holy See extends its gratitude to the UNHCR and, in particular, to the Assistant High Commissioner for his able leadership and thorough presentation of this latest Draft. 
Pope Francis reminds us that, also in the context of forced migrants: “defending their inalienable rights, ensuring their fundamental freedoms and respecting their dignity are duties from which no one can be exempted.”1 In this regard, we welcome the well-articulated objectives and vision outlined in Part I of the Draft; these are rooted in well recognized values and principles that constitute a common patrimony of humanity enshrined in international law.
While it is our common hope that the root causes of refugee movements could be eliminated, we must acknowledge, with regret, that refugees always have been part of our human history, and that the plight of refugees continues to be “a shameful wound of our time”2. Regrettably, as recent emergencies have demonstrated, while the causes of forced movements are manifold, there is one tragic common denominator: millions of people forced to leave their homes, their livelihoods, their families and their countries. 
In this regard, the role of faith-based groups, which have an enduring presence and are often the first providers of protection during emergencies, is crucial. Their response is driven by solidarity, compassion and a deep understanding of the local context. In my Delegation’s view, it is vital that the Draft delineates better the links between such groups and the UNHCR so that the protection mandate may be better achieved. 

Mr. Moderator,
The Delegation of the Holy See expects that the Global Compact on Refugees will make a difference in alleviating the stories of pain and in supporting the stories of hope among those caught in a desperate search for a more secure and dignified existence. At the same time, given the undue burden placed on certain countries, we are pleased that the Draft also acknowledges the efforts of those States that, in spite of their own hardships, have kept their borders and hearts open to welcome refugees through generous and admirable responses, and thus ought to receive tangible and prompt support from the international community. 
In fact, the treatment granted to refugees by the international community, and the support provided to those States carrying the burden of caring for the refugees in their respective territories, constitute a true litmus test of our shared humanity and solidarity. 
Mr. Moderator, 

Lastly, the Delegation of the Holy See wishes to emphasize the importance of preventing and addressing the root causes of refugee movements. Open questions must be resolved by means of diplomacy, dialogue and prevention, which are also basic requirements in the promotion of integral human development that is built on peace and security. 

The most comprehensive and effective way of achieving durable solutions is to ensure the right of all to live and thrive in dignity, peace and security in their countries of origin. In this regard, my Delegation wishes to note the importance of promoting dialogue and reconciliation, which are essential elements to achieve the conditions for safe, voluntary, and dignified return. Let us not forget that the human person is inherently capable of forgiveness. Alas, this virtue is too often ignored, even though it is absolutely essential during and after periods of crisis. 

Thank you, Mr. Moderator.

1 Pope Francis, Address to the International Forum on “Migration and Peace”, 21 February 2017.
2 Cf. Pope John Paul II, Letter to the High Commissioner of the United Nations for Refugees, 25 June 1982.