di Emilio Drudi
Segen non è riuscito a
vedere il sole dell’Italia, dove aveva il miraggio di arrivare. Le ultime immagini che si è portato dentro sono
state l’inferno di mesi e mesi di detenzione in un lager libico e il nero profondo
del mare di notte, la paura a bordo del gommone che stava affondando nel
Mediterraneo. Il 13 marzo lo hanno sbarcato a Pozzallo privo di sensi, morente.
Scheletrico, senza più forze, quasi incapace persino di respirare, la sua vita
si è spenta poco dopo il ricovero in ospedale.
Segen veniva dall’Eritrea. Aveva
solo 22 anni. Era scappato nel 2016 per sottrarsi alle angherie di una
dittatura che ruba la vita al suo popolo: in particolare ai giovani, condannati
a un servizio militare senza fine e alla galera se appena osano ribellarsi o
anche soltanto protestare. In Libia era arrivato quasi 20 mesi fa. Diciannove –
hanno detto i compagni – li ha trascorsi in balia dei trafficanti. Uno dei
tanti profughi ridotti in schiavitù, costretto a lavorare per pagare migliaia
di dollari ai suoi aguzzini: il prezzo per il “rilascio” e per un posto,
insieme a decine di altri disperati come lui, a bordo di un gommone di plastica
su cui attraversare il Canale di Sicilia ma che – fragile, stracarico,
malandato – era in grado, in realtà, di navigare, al più, per poche decine di
miglia.
E’ lì, su quel gommone, che
lo hanno trovato, insieme a 91 compagni, i volontari della Proactiva Open Arms.
Un avvistamento quasi fortuito. Il Canale di Sicilia ora è pressoché sguarnito:
le unità militari europee hanno lasciato quasi totalmente il campo alle
motovedette libiche, mentre la guerra dichiarata contro di loro dall’Italia ha
costretto a ritirarsi le Ong, che hanno salvato la vita ad almeno il 40 per
cento dei migranti arrivati negli ultimi anni in Europa, ma che erano
“colpevoli” di raccontare, giorno per giorno, l’orrore provocato dai “muri”
anti migranti voluti dalla Fortezza Europa. Insieme a Sos Mediterranee con la
sua Aquarius, Open Arms è l’unica Ong
che, nonostante tutto, ha deciso di mantenere operative le sue navi di soccorso
nel Mediterraneo. Ed è stata proprio l’ammiraglia, la Golfo Azzurro, a intercettare quel natante semi affondato, nella
foschia dell’alba dell’undici marzo. I marinai di Open Arms sono esperti: hanno
tratto a bordo tutti i naufraghi, prima che si perdessero tra le onde. E subito,
per quanto non mancassero precedenti spesso drammatici, è apparso chiaro che
non si trattava di un salvataggio come gli altri: quei profughi erano tutti
allo stremo. Non solo e non tanto per la fatica delle ore passate su quel
battello stracarico – al freddo, bagnati, in balia del mare – ma a causa di
quello che hanno subito per mesi in Libia.
Molti non ce la facevano
neanche a muoversi. Soprattutto due: Segen e un altro. Il comandante ha deciso allora
di fare immediatamente rotta verso la Sicilia, a tutta forza. La nave è
arrivata a Pozzallo la mattina del 13. Su indicazione dei sanitari di bordo,
era pronto sulla banchina un servizio medico d’emergenza. Segen è stato
sbarcato per primo ma, come si temeva fin dall’inizio, non ce l’ha fatta. La
diagnosi è stata: cachessia, morte per malnutrizione. Per fame, insomma. “Il
ragazzo è stato assistito dopo il soccorso – ha riferito il dottor Carmelo
Scarso, medico dell’Asp di Ragusa a Repubblica
– ma chissà per quanto tempo non ha mangiato. Presentava un deperimento
organico molto avanzato, era scheletrico. Ne abbiamo visti tanti di migranti
assai provati, ma questo superava ogni limite”.
Allo sbarco ha assistito di persona il sindaco di
Pozzallo, Roberto Ammaturo. Lo fa sempre quando arriva in porto una nave carica
di migranti. Ma mai come questa volta è rimasto inorridito: “Uno sbarco tragico
– ha dichiarato in una intervista a Radio
24 – Abbiamo visto uno stato impressionante di denutrizione non solo nel
ragazzo che purtroppo poi è morto, ma anche nei suoi compagni. Erano tutti
pelle e ossa. Mi è sembrato di tornare a 70 anni fa: alle immagini degli ebrei
nei lager. Ecco, quei ragazzi sembravano usciti dai campi di concentramento
nazisti. Gente disperata, malnutrita: è stato terribile. Cinquantotto erano
affetti da scabbia, ma quello che davvero ha sconvolto erano le loro condizioni
fisiche: scheletri. Uomini, donne e bambini senza un filo di adipe, solo un
mucchio di ossa. Con le scapole che sembravano voler uscire dalla schiena…”.
Come nei lager nazisti in
cui sono stati sterminati gli ebrei, ha denunciato il sindaco Ammaturo. E’ esattamente
quello che hanno ritenuto anche i giudici della Corte d’Assise di Milano,
condannando all’ergastolo un trafficante somalo, ritenuto responsabile di morti
e sofferenze inumane in Libia, nel campo di Bani Walid, e finito alla sbarra
dopo che era stato sorpreso e riconosciuto, nei pressi della stazione centrale,
da alcune delle sue vittime. “L’unica immagine appropriata che viene in mente
per descrivere quanto è accaduto in quel centro di detenzione – ha riferito il
procuratore nella requisitoria – è quella dei lager nazisti”. Come dire: il
totale annientamento attraverso una sofferenza infinita: esseri umani ridotti a
res nullius. Lo confermano tutti i rapporti sulla Libia: quelli delle Ong e
quelli dell’Onu, l’ultimo, quello sul 2017, pubblicato proprio in queste
settimane. E lo possono testimoniare tutti i 91 compagni di Segen. Ma anche i tanti racconti che
continuano ad arrivare.
Di questi racconti, uno dei
più drammatici riguarda la sorte di 18 ragazzi, alcuni addirittura adolescenti,
rapiti nella zona di Homs dopo essere passati in un centro di detenzione
statale, una di quelle strutture che, con l’aiuto dell’Unhcr, dovrebbero
esaminare le richieste dei migranti e proteggerli dai trafficanti e dove invece
– come ha denunciato l’Onu a più riprese e come pare sia accaduto anche in
questo caso – le autorità e gli stessi agenti di custodia sarebbero spesso in
combutta con i mercanti di esseri umani. Era l’inizio di gennaio quando quei 18
sono stati catturati, in tre fasi: prima sette, poi cinque, poi gli ultimi sei.
Da Homs li hanno portati in una località sconosciuta, forse verso Bani Walid,
chiudendoli in un container-prigione interrato, dove c’erano già altri prigionieri
e dove altri se ne sono aggiunti nei giorni successivi, sino a diventare almeno
una cinquantina. Negli ultimi due mesi alcuni, a quanto pare, sono morti per le
torture e gli stenti. Il primo è stato Robel, un sedicenne eritreo: il padre,
esule in Germania, ha saputo della sua fine orribile l’8 febbraio scorso,
mentre si stava dannando per mettere insieme i 20 mila dollari pretesi dai
predoni per il riscatto. Poi altri. Non si sa bene quanti, ma sembra più di
qualcuno, stando almeno ai racconti fatti da vari prigionieri ai familiari, nel
corso delle brevi telefonate con il cellulare messo a disposizione dai
trafficanti per le trattative. Uno, inoltre, sarebbe rimasto semi paralizzato
dopo l’ennesimo, feroce pestaggio. Non solo. Per “accelerare i pagamenti”, i
trafficanti avrebbero tagliato la già scarsa razione d’acqua da bere e ridotto
praticamente a zero il cibo. Una sorta di tortura della fame, che uccide
lentamente, per consunzione.
Forse è proprio in questo,
nella tortura della fame, il perché dei corpi scheletrici, martoriati, di quei
91 ragazzi sbarcati a Pozzallo, che hanno indotto a evocare l’inferno dei lager
nazisti. Ed è in questo inferno che la Fortezza Europa, con i suoi muri e i
suoi accordi in Libia, intrappola migliaia di esseri umani. “Nonostante la
morte di Segen ed altri casi simili – ha contestato Human Rights Watch in una
dichiarazione al Libyan Express – i
governi europei continuano a dare pieni poteri alle autorità libiche per
intercettare e bloccare le barche dei migranti anche in acque internazionali. E
tutti quelli che sono a bordo, riportati indietro, sono condannati a rimanere
prigionieri in Libia per un tempo indefinito. Sta fallendo, infatti, il
programma di evacuazione e reinsediamento. Finora l’Unhcr ha trasferito dalla
Libia in Niger più di mille migranti ma soltanto 55 sono stati poi accolti in
Europa”.
Ecco, Segen, che avrebbe
avuto diritto di essere accolto come rifugiato, è l’ennesima vittima di questa
politica di chiusura, che si ostina a ignorare la sorte orribile a cui sono
consegnati i migranti innanzi tutto in Libia ma anche in altri paesi di
transito: il Sudan, il Ciad, lo stesso Niger, scelto dalla Ue per farne il
principale hub di smistamento dell’immigrazione africana. Una vittima che questa
volta, però, il destino ha scaricato al di qua del muro della Fortezza Europa,
quasi a gettarle in faccia le sue responsabilità. E quasi a ricongiungere la
sorte delle migliaia di sommersi durante la fuga per raggiungere il Nord del
mondo con quella dei tanti, troppi morti nel tentativo di passare un confine
all’interno della stessa Unione Europea o, lì dove l’accoglienza non funziona,
come in Italia, trasformati in “non persone”: fantasmi senza diritti e braccia
a buon mercato per il caporalato e il lavoro nero.
Da Tempi Moderni
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