lunedì 22 gennaio 2018

Eritrea : La durissima dittatura è all'opera per soffocare sempre di più la popolazione

“Combattere, non fuggire”. Si profila una primavera eritrea?
di Emilio Drudi



“Fight not flight”: combattere, non fuggire. E’ questa la scelta che fanno sempre più spesso i giovani eritrei. Sono tantissimi i ragazzi che, negli ultimi anni, hanno abbandonato la propria terra. E’ come una emorragia che sta svuotando il paese delle energie migliori. E ne uccide il futuro. Secondo fonti Onu, si è arrivati fino a una media di 5 mila fuoriusciti al mese. Costretti a scappare per non vedersi rubare la vita dal regime che, con la militarizzazione totale e uno stato di guerra permanente con l’Etiopia e altri Stati vicini, li condanna a un servizio in armi o al lavoro forzato per un periodo indefinito. Da qualche tempo, però, aumentano quelli che decidono di non fuggire più: di restare e battersi contro la dittatura.
E’ una sfida lanciata al regime direttamente in Eritrea. Una sfida molto dura. Specie per ragazzi giovanissimi, adolescenti o poco di più. In maggioranza studenti che hanno appena 16 o 17 anni, l’età dei sogni. Abraham T. Zere, un giornalista esule in America, direttore del Pen Eritrea, una organizzazione internazionale che difende la libertà di espressione, segue con interesse quanto sta accadendo, ma non nasconde le difficoltà. “Non è facile – scrive – Non sembrano esserci spazi per una sfida del genere, a causa della realtà stessa dell’Eritrea, dove non c’è una stampa libera, non c’è libertà di opinione o di associazione e persino di movimento. Dove internet è pressoché inesistete o inaccessibile. Dove ogni forma di dissenso o di critica si paga con anni di galera o, peggio, con la ‘sparizione’ e con la morte”. E ancora, aggiunge Abel, un ragazzo della diaspora in Italia: “Dove le forze di sicurezza fedeli al regime controllano tutto e tutti, fino alle pieghe più riposte della società e della vita stessa delle persone. Dove la diffidenza induce a sospettare di chiunque, tanto che si ha paura a parlare e a confidarsi, se non con amici sicuri”. “Eppure – continua Abel – abbiamo notizia che sempre più ragazzi restano in Eritrea e non si piegano. Alimentando proteste che a volte arrivano a coinvolgere migliaia di persone”.
Sono proteste che nascono spontanee, quasi di colpo, senza una organizzazione preventiva: fuochi improvvisi, alimentati magari da un ennesimo sopruso patito, ma che affondano le radici in un sentimento diffuso di ostilità al regime. E nella volontà di non subire supinamente. Uno dei casi recenti più clamorosi è la grande manifestazione esplosa il 31 ottobre 2017 ad Asmara, quando il regime ha deciso di statalizzare la Diaa Islamic School, l’ultima scuola islamica rimasta nella capitale, nel quartiere Akriya, dopo la chiusura, negli anni passati, di quelle di Mahad e Jakiya. Appena i funzionari governativi hanno preso possesso dell’istituto, quasi tutti gli studenti, circa tremila ragazzi, si sono mobilitati, marciando da Akriya verso il centro della città. Al corteo si sono uniti numerosi abitanti del quartiere e, per strada, altri giovani, fino alla grande moschea di Jama al Khulafa’a al Rashidin. Da qui, dopo un incontro con il muftì, la folla, guidata dagli studenti, si è incamminata lungo il viale della Libertà, per cercare di raggiunger il palazzo presidenziale. Per disperderla il regime ha fatto intervenire in forze l’esercito, ma riprendere il controllo non è stato facile, nonostante le cariche, le manganellate, gli spari, le retate, gli arresti. Non è noto se e quanti feriti ci siamo stati. Si è parlato inizialmente anche di numerosi morti, ma non c’è stata conferma. Di sicuro, sono finiti in carcere almeno cinque studenti e Haj Mussa, il presidente onorario della scuola, un personaggio molto conosciuto, punto di riferimento, per la sua autorità, sia degli islamici che di eritrei di altre religioni o laici. Ma la repressione non ha spento la protesta. Anzi, la tensione si è estesa ad altre città e, secondo fonti della diaspora, potrebbe riesplodere in manifestazioni e contestazioni in qualsiasi momento, tanto che il governo ha messo in stato d’allarme le forze di sicurezza.
Meno nota, ma per certi versi più clamorosa e forse ancora non completamente sedata, la protesta a cui hanno dato vita, nel mese di luglio, ben seimila coscritti, quasi tutti studenti appena reclutati: una forma di resistenza collettiva contro il lavoro obbligatorio a cui erano costretti. E’ accaduto nella base di Adi-Halo, nei pressi di Asmara, dove il presidente Isaias Afewerki ha organizzato quello che dovrebbe essere un enorme campo-scuola di agricoltura e meccanica. Ma del campo-scuola Adi-Halo ha molto poco. Appare piuttosto un enorme campo di lavoro obbligatorio, dove oltre tutto la sistemazione logistica e abitativa per i coscritti è estremamente precaria e dove, hanno denunciato in molti, i soprusi, gli abusi, le prepotenze da parte degli ufficiali sarebbero una pratica abituale. Non sono una “novità” queste condizioni di semi-schiavitù per i coscritti. L’Onu lo ha documentato in ben due rapporti, nel 2015 e nel 2016. Questa volta, però, ad Adi-Halo ne è nata una rivolta, che i media della diaspora – come Radio Medrek – hanno cercato di seguire nei particolari. “Quando gli agenti della polizia militare sono intervenuti, gli studenti, benché disarmati, li hanno sfidati apertamente”, ha scritto Abraham T. Zere. E quanto sia stata decisa la sfida lo dimostra il fatto che lo stesso Afewerki ha accettato di incontrare una delegazione per ascoltarne le ragioni. Dopo il colloquio, però, non è cambiato nulla e la protesta è continuata fino al mese di ottobre. “L’esercito – ha comunicato Radio Medrek – è riuscito a riprendere il controllo solo grazie a una deportazione di massa: gli studenti sono stati trasferiti quasi tutti nella base di Naro, nel nord dell’Eritrea” e dispersi in vari presidi.
La polizia tende a sminuire queste contestazioni. Parla sempre di “scarsa adesione” e le liquida come iniziative di “pochi teen-ager”, magari sobillati da nemici esterni. In particolare dall’Etiopia. Ma il regime, in realtà, sembra fortemente preoccupato. Anche perché i motivi per protestare si moltiplicano a causa della chiusura di altre scuole o istituzioni sociali, con procedimenti analoghi a quello adottato contro la Diaa Islamic School. Questi provvedimenti non arrivano per caso: si basano su una legge che assegna allo Stato il compito esclusivo di occuparsi di tutte le istituzioni scolastiche, sanitarie e sociali. E’ proprio in base a questa legge, ad esempio, che Roma ha ceduto a suo tempo l’ospedale italiano, mantenendo aperta invece la scuola, tuttora la più importate scuola italiana all’estero. Solo che mentre fino a qualche mese fa questa legge è stata applicata con una certa elasticità e consentendo varie eccezioni, ora il governo ha deciso di agire con rigore estremo e in tempi piuttosto brevi. Prima della Diaa Islamic School, ad esempio, era toccato a un prestigioso istituto cattolico di Asmara, soffocando ogni forma di resistenza ed anzi arrestando alcuni responsabili della didattica e dell’amministrazione che cercavano di opporsi.
“Proprio in questo contesto – ha dichiarato don Mussie Zerai all’Agenzia Fides – è stata decretata in questi mesi la chiusura di cinque cliniche cattoliche attive da tempo in varie città. Ad Asmara è stato chiuso il seminario minore (che serviva sia la diocesi, sia le congregazioni religiose) Ed hanno dovuto serrare i battenti anche scuole della Chiesa ortodossa. L’obiettivo sembra chiaro: impedire l’influenza sulla società delle istituzioni religiose e in particolare della Chiesa cattolica, non vietando il culto ma smantellando le attività sociali ‘private’. Al di là delle conseguenze subite dalle singole confessioni religiose, a fare le spese di tutto questo è la popolazione, che non ha più strutture serie ed efficienti alle quali rivolgersi. A Xorona, per esempio, hanno chiuso l’unico dispensario in funzione, che era gestito da cattolici. A Dekemhare e a Mendefera è stata proibita l’attività dei presidi medici cattolici. Il pretesto è stato che erano un doppione di quelli statali, ma le strutture pubbliche non funzionano: non hanno medicine, non possono operare perché sono prive di attrezzature adatte e spesso perfino dell’energia elettrica”.
Il sospetto che questo “riappropriarsi della attività sociali” miri in realtà a ridimensionare l’influenza sulla popolazione delle istituzioni religiose e soprattutto della Chiesa Cattolica, è condiviso anche da Asmarino, uno dei principali giornali dell’opposizione nella diaspora: “Le relazioni tra la Chiesa cattolica e il Governo eritreo non sono mai state buone. Il Governo non perseguita apertamente i cattolici (come fa ad esempio con i pentecostali o con alcuni monaci e sacerdoti ortodossi ribelli), ma sta tentando di  isolare la Chiesa cattolica non consentendo ai seminaristi, ai sacerdoti e ai religiosi in genere di proseguire i loro studi. La ragione principale è che la Chiesa contesta che i suoi seminaristi, i suoi sacerdoti, le sue suore o novizie debbano essere soggetti al servizio militare illimitato”.
Il Coordinamento Eritrea Democratica, portavoce della diaspora in Italia, ritiene per parte sua che con questo “giro di vite” il regime abbia essenzialmente due obiettivi. Il primo, il più palese e diretto, è appunto quello di assumere il pieno controllo delle “attività sociali” e soprattutto della scuola, per regimentare i ragazzi e soffocare qualsiasi idea di ribellione o contestazione, asservendoli alla mistica nazionalista e screditando ogni forma di dissenso. La stessa politica, in sostanza, che ha portato alla chiusura dell’Università di Asmara dopo gli arresti di massa e l’insediamento definitivo della dittatura nel 2001. E una “risposta” anche ai sintomi di ribellione che si stanno moltiplicando tra i giovani. Il secondo obiettivo è quello di verificare fino a che punto possa “tirare la corda” di fronte alla politica internazionale nell’ambito del processo di “rivalutazione” e recupero che, dopo anni di isolamento totale, hanno promosso, nei confronti di Asmara, l’Unione Europea e buona parte delle cancellerie occidentali. Di fronte, cioè, a quel progressivo “riavvicinamento” che è stato pilotato dall’Italia a partire dalla fine del 2013 e “ufficializzato” nel luglio 2014 con la serie di incontri condotti dall’allora vice ministro degli esteri, Lapo Pistelli, con l’obiettivo dichiarato di riaprire il confronto col regime per fare dell’Eritrea uno dei perni “della stabilità del Corno d’Africa”. Un obiettivo dietro al quale, al di là delle dichiarazioni formali, non è difficile individuare grossi interessi economici e geostrategici, in concorrenza con potenze regionali o internazionali come l’Arabia, l’Iran, Israele, la Cina, gli Stati Uniti. E si tratta di interessi tali, evidentemente, da far passare in secondo piano, o addirittura da ignorare, la violazione dei diritti umani di cui è imputato il regime che – ha scritto l’ultimo rapporto Onu – ha “eretto il terrore a sistema di potere”.
Quello che nessuno ha messo in conto, in questo contesto, è la resistenza dei ragazzi che, rimasti in Eritrea, si stanno dimostrando pronti a lottare contro il regime. Per molti versi ne è stata colta di sorpresa anche la diaspora. Che però ha compreso in pieno l’importanza di questa battaglia e ne è almeno in parte influenzata, tanto che non mancano i giovani rifugiati che si dicono pronti a tornare prima possibile, se non direttamente in Eritrea, almeno in uno dei paesi confinanti del Corno d’Africa, per poter seguire più da vicino l’evolversi della situazione. Nella convinzione che le nuove proteste di massa, per quanto isolate, ancora rare, essenzialmente spontanee e non guidate da un preciso programma politico, potrebbero essere però la prova che forse sta crescendo una volontà collettiva di lotta, in grado di minare la stabilità del regime. Specie se, come afferma più di qualcuno tra gli esuli, la dittatura è davvero meno salda di quanto possa apparire.
“Gli indizi non mancano – sostiene Kibrom, da anni militante del Coordinamento – Non è stato un caso che, per domare la rivolta seguita alla chiusura della scuola islamica di Asmara, il regime abbia mobilitato l’esercito e le forze di sicurezza: la polizia locale si era rifiutata di intervenire e soprattutto di sparare. Anzi, molti agenti e ufficiali del commissariato di Akriya, il quartiere dove era l’istituto, hanno solidarizzato con i ragazzi che protestavano”. E da tempo, del resto, la diaspora sostiene di avere rapporti anche all’interno dei quadri del partito unico, dell’esercito e della burocrazia. Persone che non esiterebbero a schierarsi contro Isaias Afewerki se si presenterà l’occasione per una transizione democratica verso un’Eritrea libera, garante dei diritti di tutti, aperta al mondo. Si profila, allora, una “primavera eritrea”? E’ sicuramente presto per dirlo. Ma i segnali non mancano.




Da Tempi Moderni  

martedì 2 gennaio 2018

Soldati italiani in Niger: una scelta neocoloniale per scaricare sull’Africa il dramma dell’immigrazione



di Emilio Drudi

Sono stati scelti i parà della Folgore, un reparto d’élite, per il primo contingente militare italiano da inviare in Niger, dove sono già operative basi francesi, americane e tedesche. Quasi 500 uomini con 130 veicoli e il rinforzo di squadriglie di elicotteri da assalto. La stampa locale ne parla da almeno un mese. Il premier Paolo Gentiloni lo ha annunciato ufficialmente la vigilia di Natale e il Consiglio dei Ministri si è affrettato a dare il suo assenso il 29 dicembre, nell’ultima riunione del 2017. L’obiettivo dichiarato è la lotta ai trafficanti di uomini e ai gruppi di terroristi che traggono vantaggio e grosse fonti di finanziamento dal “mercato” che alimenta l’immigrazione clandestina. In questo contesto, i soldati italiani – a quanto si afferma – non sarebbero “truppe combattenti” in un teatro di guerra e non dovrebbero far uso delle armi se non per difendersi. Il loro compito, tuttavia, non sarà solo quello di istruttori e “consiglieri”, per addestrare e rendere più efficienti le truppe nigerine: saranno schierati nel nord del paese, per “stabilizzare” e presidiare la regione attraversata dalle piste che portano in Libia e in Algeria. Il che, fuori dalla cortina fumogena e dall’ipocrisia della politica, significa che il mandato vero sia quello di blindare il confine tra la Libia e il Niger, bloccando i migranti in pieno Sahara, lontanissimi dalla possibilità di imbarcarsi e di raggiungere l’Europa, e chiudendo così la via di fuga percorsa, negli ultimi anni, da quasi il 90 per cento dei rifugiati subsahariani che sono riusciti a raggiungere la sponda del Mediterraneo tra il porto di Homs, Tripoli e la frontiera fra la Tripolitania e la Tunisia.
Niente di nuovo, in  realtà, rispetto alla politica di chiusura e respingimento adottata in questi anni dalla Ue e dall’Italia, se non che, in questo caso, l’azione dei militari italiani sarà molto più diretta. Quello di blindare il Sahara, insieme al Mediterraneo, è un programma che viene da lontano. Ha mosso i primi passi con gli accordi tra il governo Berlusconi e Gheddafi. Già allora l’Italia si impegnò a fornire mezzi e materiale tecnico per chiudere non solo le rotte marittime ma anche la frontiera libica meridionale. Incluso un avanzato sistema di rilevamento radar, costato 300 milioni, da installare lungo i 5 mila chilometri di confine nel deserto: lo ha ricordato circa due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al quotidiano Il Tempo, Pierfrancesco Guarguaglini, l’ex presidente di Finmeccanica, la società che costruì l’impianto, dopo una serie di rilievi sul posto per tararne l’operatività: “Basterebbe attivarlo – sosteneva Guarguaglini – e gran parte dei problemi (di vigilanza ai confini: ndr) sarebbero risolti, ma attualmente parte è imballato in un deposito a Bengasi e parte non è mai partito dall’Italia, perché tutto si bloccò con la caduta di Gheddafi”. Ne consegue che i blindati, i fuoristrada, i visori notturni promessi già da allora alla Libia dovevano servire, evidentemente, oltre alle normali operazioni di pattuglia, per intervenire rapidamente nei punti di allerta segnalati dalla rete radar lungo la frontiera.
Con i governi Monti (2012) e Letta (2013), del radar di Finmeccanica non si è più parlato. Non in via ufficiale, comunque. Ma gli impegni di “forniture” anche terrestri presi in precedenza con Gheddafi sono stati ampiamente rinnovati e ribaditi a favore della “nuova Libia”. Sempre con l’obiettivo di delegare a Tripoli il compito di impedire ai migranti di arrivare in Europa. Poi, il Processo di Khartoum, l’accordo per il controllo dell’immigrazione mutuato dal Processo di Rabat e firmato a Roma il 24 novembre 2014, con il governo Renzi, ha messo tutto a sistema, coinvolgendo, insieme alla Libia, altri nove Stati del versante orientale dell’Africa. Il memorandum sottoscritto tra Roma e Tripoli il 2 febbraio 2017 non è altro che uno dei patti bilaterali, anzi, il più importante dei patti bilaterali siglati dall’Italia, per attuare in  concreto le “barriere” previste dal Processo di Khartoum. L’invio del contingente militare in Niger ne è una conseguenza diretta: l’ultima tappa di un percorso nato con l’impegno di garantire fondi, mezzi, addestramento, materiale logistico, supporto tecnico e “consiglieri militari”, sia alla Guardia Costiera che alla polizia di frontiera libica. Nel corso del 2017 questo impegno nei confronti della Libia è stato portato a un punto molto avanzato. Il controllo del Mediterraneo è ormai quasi totalmente delegato alla Marina di Tripoli, senza porsi minimamente il problema della sorte che attende i migranti intercettati in mare e riconsegnati a quegli autentici lager che sono i centri di detenzione libici, come testimoniano numerosi rapporti delle Nazioni Unite, dell’Oim, delle principali Ong e associazioni umanitarie. A terra sta accadendo lo stesso. Oltre alla fornitura di materiali, nel mese di giugno 2017 si è raggiunto l’accordo per istituire una commissione per il controllo del confine sud, in pieno Sahara, formata dalla polizia libica e da militari italiani. In Italia non se ne è parlato, ma la stampa libica ha dato molto rilievo a questa intesa, paragonandola, per importanza, operatività e sostegno logistico, a quella che ha consegnato il Mediterraneo alla Guardia Costiera di Tripoli. E a questa intesa è seguito, a maggiore garanzia della “blindatura” della linea di frontiera, l’accordo sottoscritto al Viminale con le tribù libiche del Fezzan, in particolare i Tebu, perché a loro volta contribuiscano, dietro compenso, a chiudere le piste che, attraverso il Sahara, arrivano dal Sudan, dal Ciad e dal Niger.
Tutto lascia pensare, allora, che l’invio del contingente militare italiano in Niger rientri nell’ultima fase di questo programma: blindare il deserto anche a sud della Libia. In Sudan questo compito è affidato alla Forza di Intervento Rapido, i miliziani noti come “diavoli a cavallo” per gli eccidi commessi in Darfur. Il presidente Al Bashir li ha trasferiti in buona parte nel nord del paese, proprio per garantire l’attuazione degli impegni presi firmando il Processo di Khartoum e, da circa due anni, arresti, retate, deportazioni, espulsioni hanno reso estremamente più difficile questa via di fuga, fin quasi a chiuderla. Con il Ciad e il Niger, dove la frontiera è molto più “porosa”, le trattative si sono concretizzate in particolare nel mese di maggio 2017, dopo un incontro al Viminale (al quale ha partecipato anche Tripoli) conclusosi con l’intesa di “potenziare la sicurezza” e i controlli sul confine libico, in entrambi i paesi, con una rete interforze, oltre che di prevedere grossi hub di accoglienza per i migranti.
In Niger, insomma, anziché su una delega totale come quella accordata al Sudan, si è puntato, a quanto pare, su un intervento più diretto. Più diretto anche della commissione mista concordata con Tripoli per l’altro versante del confine, come dimostra, appunto, la decisione di inviare nel paese un consistente contingente di truppe d’élite. A dettare questa scelta potrebbe essere stato, verosimilmente, il fatto che non si tratta solo di vigilare su una linea di frontiera, ma di controllare e bloccare le strade e le piste che, partendo dal nodo di Agadez, si diramano per centinaia di chilometri, nel deserto, verso la Libia e magari l’Algeria. In sostanza, lo stesso “lavoro” svolto in Sudan dalla Forza di Intervento Rapido. Un “lavoro” che, oltre tutto, potrebbe svolgersi in un clima di ostilità e diffidenza da parte della popolazione, dalla quale arrivano da tempo continui, crescenti segnali di insofferenza contro la presenza di presidi di truppe occidentali.
Nel paese già sono operative numerose basi militari. La Francia ne conta quattro: a Niamey, la capitale; ad Aguelal e a Madama, in pieno Sahara, la prima non troppo distante dalla frontiera algerina e la seconda da quella libica; e a Diffa, nel sud. In totale, secondo il giornale francese La Depeche, oltre 4 mila uomini. Cinque le basi americane, una delle quali ospita il comando e la più importante sede operativa per l’impiego dei droni di tutta l’Africa: a Niamey, ad Agadez, ad Aguelal, a Zinder e a Dirkou, con una guarnigione complessiva di oltre 900 soldati, tutte truppe scelte, come i “berretti verdi”. Si sono aggiunti, più di recente, reparti inviati dalla Germania: la principale base tedesca è a Niamey, ma c’è un distaccamento anche a Diffa, insieme ai francesi. Il governo nigerino insiste che questa presenza è essenziale per la sicurezza del paese e dell’intera regione. “La nostra sovranità non è in discussione: si tratta solo di una cooperazione per una difesa comune. Basti ricordare il ruolo di primo piano che hanno avuto i nostri partner stranieri per la liberazione del Mali”, ha dichiarato anche di recente il ministro della difesa, Kalla Moutari, in un dibattito promosso da un sito di informazione. Secondo un’inchiesta condotta dal Gruppo di ricerca e d’informazione sulla pace e la sicurezza (Grip), però, la maggioranza del paese è su tutt’altre posizioni. “Numerose organizzazioni della società civile e anche molti esponenti politici – scrive Nigerdiaspora commentando  l’inchiesta – sono contrari alla presenza delle basi militari straniere”. Particolarmente critico, ma ampiamente condiviso, il giudizio di Dambadjii Son Allah, presidente della Coalizione per la difesa della democrazia e dello Stato di diritto: “Non abbiamo bisogno di forze straniere per la nostra sicurezza. Se ci vogliono aiutare, chiediamo solo forniture adeguate per le nostre forze armate”.
Questa ostilità – rileva il Grip – è particolarmente forte e sentita nei confronti della Francia, accusata di perseguire una politica neocoloniale, ma lo è quasi altrettanto nei riguardi degli Stati Uniti. La contestazione si manifesta generalmente attraverso l’azione politica e iniziative pacifiche. Ma offre il destro ai gruppi fondamentalisti anche per una lotta armata, con attentati, attacchi improvvisi, agguati. Non più tardi di tre mesi fa, il 4 ottobre 2017, quattro “berretti verdi” americani e cinque soldati nigerini sono stati uccisi in un’imboscata a Tongo Tongo, nella regione di Diffa, nel sud. L’attacco – rivendicato da Boko Haram, il gruppo nigeriano aderente all’Isis – è stato condotto da una grossa formazione armata infiltrata dal Mali, ma che ha potuto contare, a quanto pare, su diffuse complicità locali e successivamente, quando è scattata la caccia ai terroristi, su una ostinata omertà tra la popolazione e anche tra vari capi tribali ed esponenti delle autorità del posto.   
E’ questo il contesto in cui andrà a operare il contingente militare italiano. Non c’è da aspettarsi, insomma, che la Folgore sia accolta con amicizia. Al contrario: sottoposta, oltre tutto, al comando generale francese, rischia di essere avvertita, dalla gente, come una nuova, indesiderata e sgradita forza straniera: una ingerenza di tipo neocoloniale, al pari dei reparti inviati in Niger dalla Francia, dagli Stati Uniti e dalla Germania. Non solo. Come dimostra l’agguato di Tongo Tongo, seguito da numerosi altri sanguinosi attacchi che hanno costretto a dichiarare lo stato d’emergenza nella zona di Diffa, il Niger è al centro di una regione dove è fortissima l’attività dei gruppi terroristi. Secondo diversi osservatori, anzi, tutta la vasta area del Sahel compresa tra il Sudan, il Ciad, il sud della Libia, il Niger e il Mali, rischia di diventare il fulcro per la diffusione del fondamentalismo islamico in Africa. Sembra confermare questa analisi la crescente attività di Boko Haram in Nigeria e, in Mali, di frange legate all’Isis oppure di Aqim (Al Qaeda per l’Islam nel Maghreb), con un’espansione sempre più evidente negli Stati vicini, a cominciare proprio dal Niger e dalla tormentata area del Lago Ciad. Non a caso, per fronteggiare questa offensiva fondamentalista, nel febbraio 2014 si è costituito il G-5 del Sahel, un organismo di cooperazione politica e militare per la sicurezza, che coinvolge cinque Stati subsahariani: la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso, il Ciad e lo stesso Niger.
Creare barriere nel Sahara e intrappolare in questa realtà migliaia di disperati – mettendoli nella condizione di non potere né proseguire la fuga a cui sono stati costretti dal loro paese, né tornare indietro – può offrire linfa e impulso proprio alla minaccia del terrorismo che tutti dicono di voler combattere. Questa è la situazione che troveranno i soldati italiani in Niger. Allora bisognerebbe avere almeno la dignità e il coraggio di dirlo. Altroché missione per contrastare i flussi clandestini di migranti e combattere i trafficanti di uomini, ponendo fine a quel turpe, disumano mercato che alimenta anche le finanze del terrorismo. La politica di fondo resta quella di esternalizzare in Africa, il più a sud possibile, le frontiere della Fortezza Europa. A prescindere dalla sorte e dai diritti dei rifugiati e del “popolo migrante” e senza tener conto dei pesanti contraccolpi ai quali rischia di essere esposta tutta la fascia subsahariana. E allora è difficile non dare credito ai tanti, sempre di più, che accusano l’Europa di ipocrisia e cinismo: di voler scaricare soltanto sulle spalle dell’Africa il peso enorme, crescente della tragedia dell’immigrazione.

Da Tempi Moderni