Sono stati scelti i
parà della Folgore, un reparto d’élite, per il primo contingente militare
italiano da inviare in Niger, dove sono già operative basi francesi, americane
e tedesche. Quasi 500 uomini con 130 veicoli e il rinforzo di squadriglie di
elicotteri da assalto. La stampa locale ne parla da almeno un mese. Il premier
Paolo Gentiloni lo ha annunciato ufficialmente la vigilia di Natale e il
Consiglio dei Ministri si è affrettato a dare il suo assenso il 29 dicembre,
nell’ultima riunione del 2017. L’obiettivo dichiarato è la lotta ai trafficanti
di uomini e ai gruppi di terroristi che traggono vantaggio e grosse fonti di
finanziamento dal “mercato” che alimenta l’immigrazione clandestina. In questo
contesto, i soldati italiani – a quanto si afferma – non sarebbero “truppe
combattenti” in un teatro di guerra e non dovrebbero far uso delle armi se non
per difendersi. Il loro compito, tuttavia, non sarà solo quello di istruttori e
“consiglieri”, per addestrare e rendere più efficienti le truppe nigerine:
saranno schierati nel nord del paese, per “stabilizzare” e presidiare la regione
attraversata dalle piste che portano in Libia e in Algeria. Il che, fuori dalla
cortina fumogena e dall’ipocrisia della politica, significa che il mandato vero
sia quello di blindare il confine tra la Libia e il Niger, bloccando i migranti
in pieno Sahara, lontanissimi dalla possibilità di imbarcarsi e di raggiungere
l’Europa, e chiudendo così la via di fuga percorsa, negli ultimi anni, da quasi
il 90 per cento dei rifugiati subsahariani che sono riusciti a raggiungere la
sponda del Mediterraneo tra il porto di Homs, Tripoli e la frontiera fra la
Tripolitania e la Tunisia.
Niente di nuovo,
in realtà, rispetto alla politica di
chiusura e respingimento adottata in questi anni dalla Ue e dall’Italia, se non
che, in questo caso, l’azione dei militari italiani sarà molto più diretta.
Quello di blindare il Sahara, insieme al Mediterraneo, è un programma che viene
da lontano. Ha mosso i primi passi con gli accordi tra il governo Berlusconi e
Gheddafi. Già allora l’Italia si impegnò a fornire mezzi e materiale tecnico
per chiudere non solo le rotte marittime ma anche la frontiera libica
meridionale. Incluso un avanzato sistema di rilevamento radar, costato 300
milioni, da installare lungo i 5 mila chilometri di confine nel deserto: lo ha
ricordato circa due anni fa, in una lunga intervista rilasciata al quotidiano Il Tempo, Pierfrancesco Guarguaglini, l’ex
presidente di Finmeccanica, la società che costruì l’impianto, dopo una serie
di rilievi sul posto per tararne l’operatività: “Basterebbe attivarlo –
sosteneva Guarguaglini – e gran parte dei problemi (di vigilanza ai confini: ndr) sarebbero risolti, ma attualmente
parte è imballato in un deposito a Bengasi e parte non è mai partito
dall’Italia, perché tutto si bloccò con la caduta di Gheddafi”. Ne consegue che
i blindati, i fuoristrada, i visori notturni promessi già da allora alla Libia dovevano
servire, evidentemente, oltre alle normali operazioni di pattuglia, per intervenire
rapidamente nei punti di allerta segnalati dalla rete radar lungo la frontiera.
Con i governi Monti
(2012) e Letta (2013), del radar di Finmeccanica non si è più parlato. Non in
via ufficiale, comunque. Ma gli impegni di “forniture” anche terrestri presi in
precedenza con Gheddafi sono stati ampiamente rinnovati e ribaditi a favore
della “nuova Libia”. Sempre con l’obiettivo di delegare a Tripoli il compito di
impedire ai migranti di arrivare in Europa. Poi, il Processo di Khartoum,
l’accordo per il controllo dell’immigrazione mutuato dal Processo di Rabat e firmato
a Roma il 24 novembre 2014, con il governo Renzi, ha messo tutto a sistema,
coinvolgendo, insieme alla Libia, altri nove Stati del versante orientale
dell’Africa. Il memorandum sottoscritto tra Roma e Tripoli il 2 febbraio 2017
non è altro che uno dei patti bilaterali, anzi, il più importante dei patti
bilaterali siglati dall’Italia, per attuare in
concreto le “barriere” previste dal Processo di Khartoum. L’invio del
contingente militare in Niger ne è una conseguenza diretta: l’ultima tappa di
un percorso nato con l’impegno di garantire fondi, mezzi, addestramento,
materiale logistico, supporto tecnico e “consiglieri militari”, sia alla
Guardia Costiera che alla polizia di frontiera libica. Nel corso del 2017 questo
impegno nei confronti della Libia è stato portato a un punto molto avanzato. Il
controllo del Mediterraneo è ormai quasi totalmente delegato alla Marina di
Tripoli, senza porsi minimamente il problema della sorte che attende i migranti
intercettati in mare e riconsegnati a quegli autentici lager che sono i centri
di detenzione libici, come testimoniano numerosi rapporti delle Nazioni Unite,
dell’Oim, delle principali Ong e associazioni umanitarie. A terra sta accadendo
lo stesso. Oltre alla fornitura di materiali, nel mese di giugno 2017 si è
raggiunto l’accordo per istituire una commissione per il controllo del confine
sud, in pieno Sahara, formata dalla polizia libica e da militari italiani. In
Italia non se ne è parlato, ma la stampa libica ha dato molto rilievo a questa
intesa, paragonandola, per importanza, operatività e sostegno logistico, a
quella che ha consegnato il Mediterraneo alla Guardia Costiera di Tripoli. E a
questa intesa è seguito, a maggiore garanzia della “blindatura” della linea di
frontiera, l’accordo sottoscritto al Viminale con le tribù libiche del Fezzan,
in particolare i Tebu, perché a loro volta contribuiscano, dietro compenso, a
chiudere le piste che, attraverso il Sahara, arrivano dal Sudan, dal Ciad e dal
Niger.
Tutto lascia
pensare, allora, che l’invio del contingente militare italiano in Niger rientri
nell’ultima fase di questo programma: blindare il deserto anche a sud della
Libia. In Sudan questo compito è affidato alla Forza di Intervento Rapido, i
miliziani noti come “diavoli a cavallo” per gli eccidi commessi in Darfur. Il
presidente Al Bashir li ha trasferiti in buona parte nel nord del paese,
proprio per garantire l’attuazione degli impegni presi firmando il Processo di
Khartoum e, da circa due anni, arresti, retate, deportazioni, espulsioni hanno
reso estremamente più difficile questa via di fuga, fin quasi a chiuderla. Con
il Ciad e il Niger, dove la frontiera è molto più “porosa”, le trattative si
sono concretizzate in particolare nel mese di maggio 2017, dopo un incontro al
Viminale (al quale ha partecipato anche Tripoli) conclusosi con l’intesa di
“potenziare la sicurezza” e i controlli sul confine libico, in entrambi i
paesi, con una rete interforze, oltre che di prevedere grossi hub di accoglienza
per i migranti.
In Niger, insomma,
anziché su una delega totale come quella accordata al Sudan, si è puntato, a
quanto pare, su un intervento più diretto. Più diretto anche della commissione
mista concordata con Tripoli per l’altro versante del confine, come dimostra,
appunto, la decisione di inviare nel paese un consistente contingente di truppe
d’élite. A dettare questa scelta potrebbe essere stato, verosimilmente, il
fatto che non si tratta solo di vigilare su una linea di frontiera, ma di
controllare e bloccare le strade e le piste che, partendo dal nodo di Agadez,
si diramano per centinaia di chilometri, nel deserto, verso la Libia e magari
l’Algeria. In sostanza, lo stesso “lavoro” svolto in Sudan dalla Forza di
Intervento Rapido. Un “lavoro” che, oltre tutto, potrebbe svolgersi in un clima
di ostilità e diffidenza da parte della popolazione, dalla quale arrivano da
tempo continui, crescenti segnali di insofferenza contro la presenza di presidi
di truppe occidentali.
Nel paese già sono
operative numerose basi militari. La Francia ne conta quattro: a Niamey, la
capitale; ad Aguelal e a Madama, in pieno Sahara, la prima non troppo distante
dalla frontiera algerina e la seconda da quella libica; e a Diffa, nel sud. In
totale, secondo il giornale francese La
Depeche, oltre 4 mila uomini. Cinque le basi americane, una delle quali
ospita il comando e la più importante sede operativa per l’impiego dei droni di
tutta l’Africa: a Niamey, ad Agadez, ad Aguelal, a Zinder e a Dirkou, con una
guarnigione complessiva di oltre 900 soldati, tutte truppe scelte, come i
“berretti verdi”. Si sono aggiunti, più di recente, reparti inviati dalla
Germania: la principale base tedesca è a Niamey, ma c’è un distaccamento anche
a Diffa, insieme ai francesi. Il governo nigerino insiste che questa presenza è
essenziale per la sicurezza del paese e dell’intera regione. “La nostra
sovranità non è in discussione: si tratta solo di una cooperazione per una
difesa comune. Basti ricordare il ruolo di primo piano che hanno avuto i nostri
partner stranieri per la liberazione del Mali”, ha dichiarato anche di recente
il ministro della difesa, Kalla Moutari, in un dibattito promosso da un sito di
informazione. Secondo un’inchiesta condotta dal Gruppo di ricerca e
d’informazione sulla pace e la sicurezza (Grip), però, la maggioranza del paese
è su tutt’altre posizioni. “Numerose organizzazioni della società civile e
anche molti esponenti politici – scrive Nigerdiaspora
commentando l’inchiesta – sono contrari
alla presenza delle basi militari straniere”. Particolarmente critico, ma
ampiamente condiviso, il giudizio di Dambadjii Son Allah, presidente della
Coalizione per la difesa della democrazia e dello Stato di diritto: “Non
abbiamo bisogno di forze straniere per la nostra sicurezza. Se ci vogliono
aiutare, chiediamo solo forniture adeguate per le nostre forze armate”.
Questa ostilità –
rileva il Grip – è particolarmente forte e sentita nei confronti della Francia,
accusata di perseguire una politica neocoloniale, ma lo è quasi altrettanto nei
riguardi degli Stati Uniti. La contestazione si manifesta generalmente
attraverso l’azione politica e iniziative pacifiche. Ma offre il destro ai
gruppi fondamentalisti anche per una lotta armata, con attentati, attacchi
improvvisi, agguati. Non più tardi di tre mesi fa, il 4 ottobre 2017, quattro
“berretti verdi” americani e cinque soldati nigerini sono stati uccisi in
un’imboscata a Tongo Tongo, nella regione di Diffa, nel sud. L’attacco –
rivendicato da Boko Haram, il gruppo nigeriano aderente all’Isis – è stato
condotto da una grossa formazione armata infiltrata dal Mali, ma che ha potuto
contare, a quanto pare, su diffuse complicità locali e successivamente, quando
è scattata la caccia ai terroristi, su una ostinata omertà tra la popolazione e
anche tra vari capi tribali ed esponenti delle autorità del posto.
E’ questo il
contesto in cui andrà a operare il contingente militare italiano. Non c’è da
aspettarsi, insomma, che la Folgore sia accolta con amicizia. Al contrario: sottoposta,
oltre tutto, al comando generale francese, rischia di essere avvertita, dalla
gente, come una nuova, indesiderata e sgradita forza straniera: una ingerenza
di tipo neocoloniale, al pari dei reparti inviati in Niger dalla Francia, dagli
Stati Uniti e dalla Germania. Non solo. Come dimostra l’agguato di Tongo Tongo,
seguito da numerosi altri sanguinosi attacchi che hanno costretto a dichiarare
lo stato d’emergenza nella zona di Diffa, il Niger è al centro di una regione
dove è fortissima l’attività dei gruppi terroristi. Secondo diversi
osservatori, anzi, tutta la vasta area del Sahel compresa tra il Sudan, il
Ciad, il sud della Libia, il Niger e il Mali, rischia di diventare il fulcro
per la diffusione del fondamentalismo islamico in Africa. Sembra confermare
questa analisi la crescente attività di Boko Haram in Nigeria e, in Mali, di
frange legate all’Isis oppure di Aqim (Al Qaeda per l’Islam nel Maghreb), con
un’espansione sempre più evidente negli Stati vicini, a cominciare proprio dal
Niger e dalla tormentata area del Lago Ciad. Non a caso, per fronteggiare
questa offensiva fondamentalista, nel febbraio 2014 si è costituito il G-5 del
Sahel, un organismo di cooperazione politica e militare per la sicurezza, che
coinvolge cinque Stati subsahariani: la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso,
il Ciad e lo stesso Niger.
Creare barriere nel
Sahara e intrappolare in questa realtà migliaia di disperati – mettendoli nella
condizione di non potere né proseguire la fuga a cui sono stati costretti dal
loro paese, né tornare indietro – può offrire linfa e impulso proprio alla
minaccia del terrorismo che tutti dicono di voler combattere. Questa è la situazione
che troveranno i soldati italiani in Niger. Allora bisognerebbe avere almeno la
dignità e il coraggio di dirlo. Altroché missione per contrastare i flussi
clandestini di migranti e combattere i trafficanti di uomini, ponendo fine a quel
turpe, disumano mercato che alimenta anche le finanze del terrorismo. La
politica di fondo resta quella di esternalizzare in Africa, il più a sud
possibile, le frontiere della Fortezza Europa. A prescindere dalla sorte e dai
diritti dei rifugiati e del “popolo migrante” e senza tener conto dei pesanti
contraccolpi ai quali rischia di essere esposta tutta la fascia subsahariana. E
allora è difficile non dare credito ai tanti, sempre di più, che accusano
l’Europa di ipocrisia e cinismo: di voler scaricare soltanto sulle spalle dell’Africa
il peso enorme, crescente della tragedia dell’immigrazione.
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