“Combattere, non fuggire”. Si profila una primavera
eritrea?
“Fight not flight”:
combattere, non fuggire. E’ questa la scelta che fanno sempre più spesso i
giovani eritrei. Sono tantissimi i ragazzi che, negli ultimi anni, hanno
abbandonato la propria terra. E’ come una emorragia che sta svuotando il paese
delle energie migliori. E ne uccide il futuro. Secondo fonti Onu, si è arrivati
fino a una media di 5 mila fuoriusciti al mese. Costretti a scappare per non
vedersi rubare la vita dal regime che, con la militarizzazione totale e uno
stato di guerra permanente con l’Etiopia e altri Stati vicini, li condanna a un
servizio in armi o al lavoro forzato per un periodo indefinito. Da qualche
tempo, però, aumentano quelli che decidono di non fuggire più: di restare e
battersi contro la dittatura.
E’ una sfida
lanciata al regime direttamente in Eritrea. Una sfida molto dura. Specie per
ragazzi giovanissimi, adolescenti o poco di più. In maggioranza studenti che
hanno appena 16 o 17 anni, l’età dei sogni. Abraham T. Zere, un giornalista
esule in America, direttore del Pen Eritrea, una organizzazione internazionale
che difende la libertà di espressione, segue con interesse quanto sta accadendo,
ma non nasconde le difficoltà. “Non è facile – scrive – Non sembrano esserci
spazi per una sfida del genere, a causa della realtà stessa dell’Eritrea, dove
non c’è una stampa libera, non c’è libertà di opinione o di associazione e
persino di movimento. Dove internet è pressoché inesistete o inaccessibile.
Dove ogni forma di dissenso o di critica si paga con anni di galera o, peggio,
con la ‘sparizione’ e con la morte”. E ancora, aggiunge Abel, un ragazzo della
diaspora in Italia: “Dove le forze di sicurezza fedeli al regime controllano
tutto e tutti, fino alle pieghe più riposte della società e della vita stessa
delle persone. Dove la diffidenza induce a sospettare di chiunque, tanto che si
ha paura a parlare e a confidarsi, se non con amici sicuri”. “Eppure – continua
Abel – abbiamo notizia che sempre più ragazzi restano in Eritrea e non si
piegano. Alimentando proteste che a volte arrivano a coinvolgere migliaia di
persone”.
Sono proteste che
nascono spontanee, quasi di colpo, senza una organizzazione preventiva: fuochi
improvvisi, alimentati magari da un ennesimo sopruso patito, ma che affondano
le radici in un sentimento diffuso di ostilità al regime. E nella volontà di
non subire supinamente. Uno dei casi recenti più clamorosi è la grande manifestazione
esplosa il 31 ottobre 2017 ad Asmara, quando il regime ha deciso di
statalizzare la Diaa Islamic School, l’ultima scuola islamica rimasta nella
capitale, nel quartiere Akriya, dopo la chiusura, negli anni passati, di quelle
di Mahad e Jakiya. Appena i funzionari governativi hanno preso possesso
dell’istituto, quasi tutti gli studenti, circa tremila ragazzi, si sono
mobilitati, marciando da Akriya verso il centro della città. Al corteo si sono
uniti numerosi abitanti del quartiere e, per strada, altri giovani, fino alla
grande moschea di Jama al Khulafa’a al Rashidin. Da qui, dopo un incontro con
il muftì, la folla, guidata dagli studenti, si è incamminata lungo il viale
della Libertà, per cercare di raggiunger il palazzo presidenziale. Per
disperderla il regime ha fatto intervenire in forze l’esercito, ma riprendere
il controllo non è stato facile, nonostante le cariche, le manganellate, gli
spari, le retate, gli arresti. Non è noto se e quanti feriti ci siamo stati. Si
è parlato inizialmente anche di numerosi morti, ma non c’è stata conferma. Di
sicuro, sono finiti in carcere almeno cinque studenti e Haj Mussa, il
presidente onorario della scuola, un personaggio molto conosciuto, punto di
riferimento, per la sua autorità, sia degli islamici che di eritrei di altre
religioni o laici. Ma la repressione non ha spento la protesta. Anzi, la
tensione si è estesa ad altre città e, secondo fonti della diaspora, potrebbe
riesplodere in manifestazioni e contestazioni in qualsiasi momento, tanto che
il governo ha messo in stato d’allarme le forze di sicurezza.
Meno nota, ma per
certi versi più clamorosa e forse ancora non completamente sedata, la protesta
a cui hanno dato vita, nel mese di luglio, ben seimila coscritti, quasi tutti
studenti appena reclutati: una forma di resistenza collettiva contro il lavoro
obbligatorio a cui erano costretti. E’ accaduto nella base di Adi-Halo, nei
pressi di Asmara, dove il presidente Isaias Afewerki ha organizzato quello che
dovrebbe essere un enorme campo-scuola di agricoltura e meccanica. Ma del
campo-scuola Adi-Halo ha molto poco. Appare piuttosto un enorme campo di lavoro
obbligatorio, dove oltre tutto la sistemazione logistica e abitativa per i
coscritti è estremamente precaria e dove, hanno denunciato in molti, i soprusi,
gli abusi, le prepotenze da parte degli ufficiali sarebbero una pratica
abituale. Non sono una “novità” queste condizioni di semi-schiavitù per i
coscritti. L’Onu lo ha documentato in ben due rapporti, nel 2015 e nel 2016.
Questa volta, però, ad Adi-Halo ne è nata una rivolta, che i media della
diaspora – come Radio Medrek – hanno cercato di seguire nei particolari.
“Quando gli agenti della polizia militare sono intervenuti, gli studenti,
benché disarmati, li hanno sfidati apertamente”, ha scritto Abraham T. Zere. E
quanto sia stata decisa la sfida lo dimostra il fatto che lo stesso Afewerki ha
accettato di incontrare una delegazione per ascoltarne le ragioni. Dopo il
colloquio, però, non è cambiato nulla e la protesta è continuata fino al mese
di ottobre. “L’esercito – ha comunicato Radio Medrek – è riuscito a riprendere il
controllo solo grazie a una deportazione di massa: gli studenti sono stati
trasferiti quasi tutti nella base di Naro, nel nord dell’Eritrea” e dispersi in
vari presidi.
La polizia tende a sminuire
queste contestazioni. Parla sempre di “scarsa adesione” e le liquida come
iniziative di “pochi teen-ager”, magari sobillati da nemici esterni. In
particolare dall’Etiopia. Ma il regime, in realtà, sembra fortemente
preoccupato. Anche perché i motivi per protestare si moltiplicano a causa della
chiusura di altre scuole o istituzioni sociali, con procedimenti analoghi a
quello adottato contro la Diaa Islamic School. Questi provvedimenti non
arrivano per caso: si basano su una legge che assegna allo Stato il compito
esclusivo di occuparsi di tutte le istituzioni scolastiche, sanitarie e
sociali. E’ proprio in base a questa legge, ad esempio, che Roma ha ceduto a
suo tempo l’ospedale italiano, mantenendo aperta invece la scuola, tuttora la
più importate scuola italiana all’estero. Solo che mentre fino a qualche mese
fa questa legge è stata applicata con una certa elasticità e consentendo varie
eccezioni, ora il governo ha deciso di agire con rigore estremo e in tempi
piuttosto brevi. Prima della Diaa Islamic School, ad esempio, era toccato a un
prestigioso istituto cattolico di Asmara, soffocando ogni forma di resistenza
ed anzi arrestando alcuni responsabili della didattica e dell’amministrazione
che cercavano di opporsi.
“Proprio in questo
contesto – ha dichiarato don Mussie Zerai all’Agenzia Fides – è stata decretata
in questi mesi la chiusura di cinque cliniche cattoliche attive da tempo in
varie città. Ad Asmara è stato chiuso il seminario minore (che serviva sia la
diocesi, sia le congregazioni religiose) Ed hanno dovuto serrare i battenti
anche scuole della Chiesa ortodossa. L’obiettivo sembra chiaro: impedire
l’influenza sulla società delle istituzioni religiose e in particolare della
Chiesa cattolica, non vietando il culto ma smantellando le attività sociali
‘private’. Al di là delle conseguenze subite dalle singole confessioni
religiose, a fare le spese di tutto questo è la popolazione, che non ha più
strutture serie ed efficienti alle quali rivolgersi. A Xorona, per esempio,
hanno chiuso l’unico dispensario in funzione, che era gestito da cattolici. A
Dekemhare e a Mendefera è stata proibita l’attività dei presidi medici
cattolici. Il pretesto è stato che erano un doppione di quelli statali, ma le
strutture pubbliche non funzionano: non hanno medicine, non possono operare
perché sono prive di attrezzature adatte e spesso perfino dell’energia
elettrica”.
Il sospetto che
questo “riappropriarsi della attività sociali” miri in realtà a ridimensionare
l’influenza sulla popolazione delle istituzioni religiose e soprattutto della
Chiesa Cattolica, è condiviso anche da Asmarino,
uno dei principali giornali dell’opposizione nella diaspora: “Le relazioni tra
la Chiesa cattolica e il Governo eritreo non sono mai state buone. Il Governo
non perseguita apertamente i cattolici (come fa ad esempio con i pentecostali o
con alcuni monaci e sacerdoti ortodossi ribelli), ma sta tentando di isolare la Chiesa cattolica non consentendo
ai seminaristi, ai sacerdoti e ai religiosi in genere di proseguire i loro
studi. La ragione principale è che la Chiesa contesta che i suoi seminaristi, i
suoi sacerdoti, le sue suore o novizie debbano essere soggetti al servizio
militare illimitato”.
Il Coordinamento
Eritrea Democratica, portavoce della diaspora in Italia, ritiene per parte sua
che con questo “giro di vite” il regime abbia essenzialmente due obiettivi. Il
primo, il più palese e diretto, è appunto quello di assumere il pieno controllo
delle “attività sociali” e soprattutto della scuola, per regimentare i ragazzi
e soffocare qualsiasi idea di ribellione o contestazione, asservendoli alla
mistica nazionalista e screditando ogni forma di dissenso. La stessa politica,
in sostanza, che ha portato alla chiusura dell’Università di Asmara dopo gli
arresti di massa e l’insediamento definitivo della dittatura nel 2001. E una
“risposta” anche ai sintomi di ribellione che si stanno moltiplicando tra i
giovani. Il secondo obiettivo è quello di verificare fino a che punto possa
“tirare la corda” di fronte alla politica internazionale nell’ambito del
processo di “rivalutazione” e recupero che, dopo anni di isolamento totale,
hanno promosso, nei confronti di Asmara, l’Unione Europea e buona parte delle
cancellerie occidentali. Di fronte, cioè, a quel progressivo “riavvicinamento” che
è stato pilotato dall’Italia a partire dalla fine del 2013 e “ufficializzato”
nel luglio 2014 con la serie di incontri condotti dall’allora vice ministro
degli esteri, Lapo Pistelli, con l’obiettivo dichiarato di riaprire il confronto
col regime per fare dell’Eritrea uno dei perni “della stabilità del Corno
d’Africa”. Un obiettivo dietro al quale, al di là delle dichiarazioni formali, non
è difficile individuare grossi interessi economici e geostrategici, in
concorrenza con potenze regionali o internazionali come l’Arabia, l’Iran,
Israele, la Cina, gli Stati Uniti. E si tratta di interessi tali,
evidentemente, da far passare in secondo piano, o addirittura da ignorare, la
violazione dei diritti umani di cui è imputato il regime che – ha scritto
l’ultimo rapporto Onu – ha “eretto il terrore a sistema di potere”.
Quello che nessuno
ha messo in conto, in questo contesto, è la resistenza dei ragazzi che, rimasti
in Eritrea, si stanno dimostrando pronti a lottare contro il regime. Per molti
versi ne è stata colta di sorpresa anche la diaspora. Che però ha compreso in
pieno l’importanza di questa battaglia e ne è almeno in parte influenzata,
tanto che non mancano i giovani rifugiati che si dicono pronti a tornare prima
possibile, se non direttamente in Eritrea, almeno in uno dei paesi confinanti
del Corno d’Africa, per poter seguire più da vicino l’evolversi della
situazione. Nella convinzione che le nuove proteste di massa, per quanto
isolate, ancora rare, essenzialmente spontanee e non guidate da un preciso
programma politico, potrebbero essere però la prova che forse sta crescendo una
volontà collettiva di lotta, in grado di minare la stabilità del regime. Specie
se, come afferma più di qualcuno tra gli esuli, la dittatura è davvero meno
salda di quanto possa apparire.
“Gli indizi non
mancano – sostiene Kibrom, da anni militante del Coordinamento – Non è stato un
caso che, per domare la rivolta seguita alla chiusura della scuola islamica di
Asmara, il regime abbia mobilitato l’esercito e le forze di sicurezza: la
polizia locale si era rifiutata di intervenire e soprattutto di sparare. Anzi,
molti agenti e ufficiali del commissariato di Akriya, il quartiere dove era
l’istituto, hanno solidarizzato con i ragazzi che protestavano”. E da tempo,
del resto, la diaspora sostiene di avere rapporti anche all’interno dei quadri
del partito unico, dell’esercito e della burocrazia. Persone che non
esiterebbero a schierarsi contro Isaias Afewerki se si presenterà l’occasione
per una transizione democratica verso un’Eritrea libera, garante dei diritti di
tutti, aperta al mondo. Si profila, allora, una “primavera eritrea”? E’
sicuramente presto per dirlo. Ma i segnali non mancano.
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