"Cancellare” il
Tigrai come entità politica e addirittura come comunità: questo sembra stia
emergendo sul conflitto in corso dall’inizio di novembre 2020 nel nord
dell’Etiopia. Le notizie che filtrano sono scarse: tutte le comunicazioni sono
interrotte fin dai primissimi giorni e il governo di Addis Abeba ha imposto uno
stretto embargo, impedendo l’accesso non solo ai media indipendenti ma persino
alle organizzazioni umanitarie che si sono mobilitate per portare aiuto alla
popolazione civile. Quel poco che è emerso, tuttavia, è già tale da dipingere –
se confermato – un quadro terribile, fatto di morte, distruzione, violenze che
vanno molto al di là anche dell’orrore che ogni guerra comporta..

Addis Abeba nega che
sia in corso una guerra: sostiene che si tratterebbe “solo” di una operazione
interna di ordine pubblico, per riportare la legalità in una regione caduta in
mano a ribelli che si sarebbero messi fuori dalla costituzione. In realtà è una
guerra duplice: una guerra civile fratricida e una guerra regionale nella quale,
come alleata del governo e dell’esercito federale etiopico, svolge un ruolo di
grande rilievo l’Eritrea, uno stato estero, governato da una dittatura feroce,
che da anni vede il suo “primo nemico” nel Fronte Popolare di Liberazione del
Tigrai, la formazione politica già a lungo di fatto alla guida dell’intera
Etiopia e tuttora leader nello stato regionale di cui si considera l’unica
autorità legittima. Forse gli orrori che, secondo varie fonti, starebbero emergendo
dipendono proprio da questo combinarsi di fattori.
Le notizie arrivate
finora si devono alle testimonianze dei profughi, ai rapporti di istituzioni internazionali
come l’Unhcr e la Croce Rossa o di coraggiosi operatori di Ong che sono
riusciti a mantenere alcuni contatti,
alle relazioni/appello di alcuni religiosi, come in particolare il
vescovo di Adigrat. Tutte concordano che si starebbe combattendo una guerra di
distruzione totale, con episodi che possono configurare veri e propri crimini
contro l’umanità.
I dati comunicati
appaiono di per sé eloquenti
– Un numero enorme
di vittime. Non si sa esattamente quanti, ma sicuramente nell’ordine di migliaia
e migliaia, in buona parte tra la popolazione civile inerme
– Almeno 65 mila
profughi costretti a fuggire in Sudan per sottrarsi a violenze, uccisioni,
bombardamenti indiscriminati
– Oltre 2,2 milioni
di sfollati interni: in pratica, più di un terzo della popolazione dell’intero
Tigrai
– Circa 3 milioni di
persone (inclusi gli sfollati interni) che non hanno più di che vivere e sono
ridotte alla fame, tanto che tutti gli osservatori concordano nel parlare di
“diffusa malnutrizione” mentre già si starebbero verificando diverse morti per
fame. E’ eloquente, in particolare, la lettera/relazione che il vescovo di
Adigrat è riuscito a far pervenire a varie istituzioni all’estero per chiedere
aiuto
– Rappresaglie
indiscriminate con l’uccisione immotivata soprattutto di giovani, magari per il
solo sospetto che siano simpatizzanti del Tplf
– Stragi di massa
come quella denunciata con varie testimonianze dal recente rapporto di Amnesty
International ad Axum. Si calcola un bilancio di morte di almeno 750 vittime,
forse 800, con uccisioni che si sarebbero protratte per giorni, persino
all’interno dell’area sacra della cattedrale di Santa Maria di Sion o colpendo
chiunque strada per strada e persino casa per casa, come in un’orgia di sangue
dettata da una incomprensibile volontà di “punizione” e vendetta. In
definitiva, un episodio orrendo che, se confermato, configura di per sé un
crimine contro l’umanità
– Un numero
crescente di denunce di violenze sessuali, sia individuali che di gruppo, che
segnalano come le donne siano le prime vittime di queste situazioni e che, se
confermati nelle dimensioni indicate, fanno sospettare che lo stupro venga
usato come “arma di guerra”.
– Il bombardamento,
l’attacco e il saccheggio di luoghi simbolo della fede e della cultura del
Tigrai come a voler eliminare anche le
radici e lo spirito stesso del popolo tigrino a completamento di quella “pulizia
etnica” che sembrano connotare le stragi e lo sfollamento forzato di intere
comunità. Basti ricordare, ad esempio, il complesso della cattedrale di Santa
Maria di Sion ad Axum, il luogo più sacro della religione cristiano copta,
dove, secondo la tradizione, viene conservata l’arca santa delle tavole della
legge ricevute da Mosè; la moschea di Al Najashi, presso Wukro, la prima edificata
in Africa, simbolo della convivenza tra Islam e Cristianesimo; il monastero di
Debra Damo, forse il più prestigioso centro di studi religiosi in Etiopia, dove
risulta che sia stata colpita in particolare la biblioteca, custode dei libri
sacri più antichi e preziosi, buona parte dei quali sarebbero stati distrutti,
saccheggiati o in parte razziati dalla soldataglia, forse con l’intento di
venderli sul mercato clandestino
– La distruzione
quasi totale degli ospedali e dei centri medici: si calcola che ne sia rimasto
in funzione meno del 15 per cento e, per di più, senza scorte di medicinali e
di cibo, senza riserve di carburante per far funzionare i gruppi elettrogeni
sicuramente essenziali a causa delle frequenti, lunghissime interruzioni della
fornitura elettrica
– La distruzione
sistematica di infrastrutture e apparati produttivi (come le fabbriche di
Adigrat, ad esempio) soprattutto ad opera delle truppe eritree che
completerebbero il saccheggio depredando gli impianti o qualsiasi materiale
utile per trasferirlo oltreconfine con autocolonne di camion militari. Al
saccheggio, secondo numerose denunce dei profughi, non si sottrarrebbero
neanche le proprietà private delle famiglie, a cominciare dalle auto e persino
dalle scorte di cibo. Una distruzione totale, appunto, che – sovrapponendosi
tra l’altro a una situazione economica prebellica già di per sé difficile e
desertificando le campagne – rischia di provocare nell’immediato una lunga,
terribile carestia e, in generale, di paralizzare e “retrocedere” di anni
l’economia e le possibilità di ripresa dell’intero Tigrai
– La consegna di
fatto alle truppe eritree di migliaia profughi che, fuggendo dalla dittatura di
Asmara, avevano trovato rifugio in Tigrai nei campi di Shimelba e di Hitsats.
Alcuni sono rimasti uccisi nei combattimenti che hanno investito direttamente
le due strutture, tantissimi sono caduti nelle mani del regime da cui si erano
sottratti e che hanno messo sotto accusa con la loro stessa fuga: migliaia di
questi (non meno di 15 mila) sarebbero praticamente spariti e risulterebbe da
varie testimonianze che una buona percentuale di loro, persone accuratamente
“selezionate”, siano state costrette a rientrare in Eritrea. L’Etiopia, a cui i
rifugiati avevano affidato la propria vita chiedendo asilo, non sembra essersi
minimamente opposta, in contrasto evidente con il diritto internazionale.
Anche se soltanto
una parte di tutto questo troverà conferma, appare evidente che la guerra in
corso è caratterizzata dalla costante, quotidiana violazione dei più elementari
diritti umani. Da qui, allora, la necessità che l’Onu, proprio attraverso la
Commissione per i diritti umani, promuova ed anzi pretenda una approfondita
inchiesta indipendente internazionale. I governi di Addis Abeba ed Asmara
negano che si sia creata una situazione di emergenza come quella descritta. Il
premier Abiy Ahamed, dichiarando conclusa “l’operazione di ordine pubblico” a
fine novembre, con la conquista di Macalle, ha riferito che non si erano quasi
registrate vittime tra la popolazione civile. Su questa scia, ha negato la
fondatezza del rapporto di Amnesty su Axum e, più in generale, ha sempre
respinto l’ipotesi di una inchiesta indipendente. La situazione che sta
emergendo è tale, tuttavia, che non si può tollerare ancora che non si vada a
verificare “sul terreno” quello che è accaduto e che sta ancora accadendo con
osservatori e commissari autonomi, liberi di muoversi dove vogliono e di
parlare con chiunque ritengano opportuno.
Di fronte al
sospetto di una violazione palese dei diritti umani e di episodi che si
configurerebbero
come crimini contro l’umanità, la
comunità internazionale ha non solo il diritto ma il dovere di intervenire. E,
proprio perché si tratterebbe di crimini
contro l’umanità, ha tutti gli strumenti giuridici e legali per farlo. A
prescindere dalla volontà di Addis Abeba.
Roma, 5 marzo 2021