La notte del 3 ottobre 2013 morirono annegati 368 migranti: una strage che poteva essere evitata
La notte del 3 ottobre 2013 sono morte 368 persone. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). Quella di Lampedusa è stata una delle più gravi catastrofi marine del XXI secolo, certamente una delle più grandi tragedie della migrazione attraverso il Mar Mediterraneo
di ENRICO CASALE
L’OSSERVATORE ROMANO martedì 3 ottobre 2023
Così tanta acqua non l’avevano mai immaginata.
Sapevano che il mare esisteva. Ne avevano sentito
parlare. Qualcuno, forse, lo aveva
studiato sui libri a scuola. Ma,
quasi certamente, non lo avevano
mai visto. Loro erano abituati a
camminare sui sentieri sassosi e
polverosi dell’altipiano. A salire
sulle montagne, a percorrere chilometri sulle distese dell’Acro coro
abissino. Chissà che cosa hanno
provato quando hanno visto quella
distesa in perenne movimento e
quando sono saliti sul barcone che
doveva portarli in Europa. Chissà
che cosa hanno provato quando la
loro imbarcazione si è, improvvisamente, ribaltata e si sono trovato
nelle acque fredde di una notte autunnale davanti all’isola dei Conigli, poco distante dalla costa dell’isola di Lampedusa.
Qualcuno, preso dall’ansia e dalla paura, ha provato a nuotare ed è
riuscito a raggiungere la riva. La
maggioranza però non ce l’ha fatta.
La notte del 3 ottobre 2013 sono
morte 368 persone. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori (uno
solo accompagnato dalla famiglia).
Quella di Lampedusa è stata una
delle più gravi catastrofi marine del
XXI secolo, certamente una delle
più grandi tragedie della migrazione attraverso il mar Mediterraneo.
Altre ne sono seguite, non-ultima quella più recente di Cutro, ma
quel naufragio rimane uno dei punti più dolenti della storia perché fu
il primo di quelle dimensioni e
quello che più è rimasto impresso
nella memoria collettiva.
Eppure la strage poteva essere
evitata. L’imbarcazione era un peschereccio lungo una ventina di metri ed era salpato dal porto libico di Misurata il primo ottobre
2013.
La barca era giunta a mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si sono bloccati poco
lontano dall’Isola dei Conigli. Due
imbarcazioni di pescatori erano
passate poco lontano e l’assistente
del capitano, per attrarre la loro attenzione aveva dato fuoco a uno
straccio imbevuto di carburante.
Quando lo straccio era quasi completamente bruciato, il marinaio,
per non ustionarsi la mano, l’ha lasciato cadere sul ponte. Il legno
imbevuto di carburante ha preso
fuoco. I passeggeri, spaventati, si
sono spostati da una parte dell’imbarcazione, che si è rovesciata . La
barca ha girato su se stessa tre volte
prima di colare a picco. Chi si trovava sul ponte è riuscito a gettarsi
in mare. Chi era sottocoperta, soprattutto, donne e bambini, non ce
l’ha fatta.
«Fin dalle prime battute — ricorda oggi Mussie Zerai, sacerdote eritreo da anni impegnato nell’assistenza e nel soccorso dei migranti
nel mar Mediterraneo — si è capito
che si preannunciava una tragedia.
Da subito, i superstiti hanno iniziato a parlare di decine di vittime.
Allora io ero cappellano degli eritrei in Svizzera. Mi ci sono voluto
alcuni giorni per organizzare il mio
viaggio a Lampedusa. Quando sono arrivato ho subito incontrato la
disperazione dei famigliari che arrivavano in Sicilia da altre regioni
d’Italia, dall’Europa e dal Nord
America. Ricordo la fila delle bare
in un hangar dell’aeroporto di
Lampedusa. Un’immagine straziante che non mi abbandonerà per tutta la vita. Fu anche la prima prova
evidente delle tragedie in mare dei
migranti».
Nei giorni successivi al naufragio, le famiglie dei migranti si sono
trovate in difficoltà. Non riuscivano
a capire se tra i morti ci fossero i
loro cari.
«I sopravvissuti — continua
Mussie — raccontavano che i passeggeri a bordo dell’i m b a rc a z i o n e
erano quasi tutti eritrei e tra essi
c’erano solo pochi etiopi. Il governo italiano, guidato allora da Enrico Letta, si è subito offerto di organizzare uno o più voli per far
rimpatriare le salme in Eritrea. Ma
qui sono sorte le prime complicazioni» Il governo di Asmara allora cercava di sminuire il flusso dei migranti in uscita dal Paese probabilmente — dicono gli analisti — p er
motivi di orgoglio nazionale o di
prestigio internazionale.
«Per l’identificazione delle salme
sono giunti da tutta Europa i parenti – osserva Mussie —, ma è stato difficile, ad eccezione di un centinaio di corpi, identificarne l’origine. Le bare sono così state seppellite in vari cimiteri della Sicilia».
In seguito al naufragio è nato il
«Comitato 3 Ottobre» che ha lavorato duramente per redigere il protocollo d’intesa per favorire il riconoscimento dei corpi senza identità
dei naufragi di Lampedusa, documento firmato dallo stesso Comitato e dal ministero degli Interni italiano.
«A dieci anni dalla tragedia —
commenta amaro Tareke Brhane,
presidente del Comitato 3 ottobre
— non possiamo dire che quel protocollo sia stato applicato. In Italia sono in vigore procedure particolari, ma diverse da quelle di altri
Paesi. Non c’è uniformità nel riconoscimento delle vittime. Ciò è
triste, soprattutto per le famiglie».
Per i morti del naufragio si è tenuta alla fine di ottobre 2013 una
cerimonia funebre ad Agrigento,
ma senza bare. «Quella cerimonia è
stata una beffa per le stesse vittime
— dice abba Mussie —. Oltre ai religiosi cattolici, ortodossi e musulmani sono stati invitati gli esponenti del governo di Asmara. Quello
stesso governo dal quale i migranti
fuggivano e che non riconoscevano
i morti come eritrei. Non abbiamo
potuto opporci, ma è stato un momento doloroso».
In quell’occasione, Papa Francesco ha dimostrato grande sensibilità. Oltre a invitare a pregare per le
vittime, ha accolto in Vaticano i sopravvissuti e le loro famiglie.
Il governo italiano, scosso dall’evento, ha poi dato vita a Mare Nostrum, una missione della marina
militare che, negli anni, ha salvato
centinaia di vittime.
Da allora qualcosa è cambiato?
«Sì, ma in peggio — conclude
Brhane —. Allora in Italia si era diffuso un sentimento di empatia nei
confronti dei migranti e delle loro
famiglie. Oggi, dopo anni e anni di
politiche di demonizzazione delle
migrazioni, quel sentimento è svanito. Ora si parla delle migrazioni solo come di un’emergenza alla
quale rispondere con strumenti di
emergenza. In realtà, i migranti sono una risorsa. Lo dimostrano gli
stessi sopravvissuti al 3 ottobre che
ora vivono nel Nord Europa. Si sono rifatti una vita, hanno una casa,
una famiglia e lavorano, producendo ricchezza per le nazioni che li
ospitano».
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