martedì 10 ottobre 2023

«Sui migranti Italia ed Europa hanno tradito loro stesse»

 INTERVISTA. Don Mussie Zerai, il prete eritreo che aiuta chi fugge: «Non capisco come paesi che si dicono civili, democratici, di antica tradizione umanistica e cristiana possano permettere che questa strage continui»



«Il numero di don Mussie Zerai è scritto sui muri delle prigioni libiche, nei capannoni dei trafficanti, sulle pareti dei camion che attraversano il deserto», scriveva Alessandro Leogrande – giornalista e scrittore scomparso nel 2017 – in La Frontiera. Forse il libro più bello tra quelli nati dal dolore per i grandi naufragi del 2013: davanti le coste di Lampedusa il 3 ottobre, poco più lontano otto giorni dopo. Oltre 600 morti in una settimana. Mussie Zerai Yosief, prete cattolico dal 2010, era già allora un punto di riferimento per chi cercava riparo in Europa. In particolare per i suoi concittadini eritrei. Nel 2015 è stato candidato al Nobel per la pace. Due anni dopo indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dalla procura di Trapani, nell’ambito della maxi-inchiesta contro le Ong. Accuse poi archiviate. Da diversi mesi vive in Canada, dove si occupa solo di attività pastorale. Almeno per ora perché, dice, «neanche qui è tutto rose e fiori, anche se almeno esiste un sistema di accesso legale».
Don Mussie, cosa ricorda del momento in cui ha ricevuto la notizia?
Mi si è gelato il sangue. Mi hanno detto: è successo un disastro, accendi la tv. Ricordo le immagini dei corpi che venivano recuperati. Agghiaccianti. E poi l’incontro con i sopravvissuti e i familiari, quelle 368 persone chiuse dentro le bare in fila. Una sofferenza immane.
Raggiunse subito Lampedusa. Cosa la colpì?
Lo strazio, le urla, il dolore dei parenti. Lo spaesamento e i pianti continui dei sopravvissuti. Poi la solidarietà dei lampedusani, che avevano accolto i migranti in casa. I residenti soffrivano insieme a chi era arrivato da lontano.
Dieci anni dopo esiste una verità giudiziaria?
C’è stato un processo all’uomo individuato come lo scafista e sono state identificate le due barche di pescatori che si erano avvicinate senza prestare soccorso né lanciare l’allarme. Ma resta ancora molto da scoprire. È impossibile che un’imbarcazione con 500 persone sia arrivata sotto costa senza che le autorità se ne accorgessero. C’è qualcosa che non è stato detto anche sui ritardi dei soccorsi. Sopravvissuti e familiari non sono contenti di come è stata gestita la cosa: vogliono piena luce e giustizia.
Il governo non partecipa alle iniziative di ricordo del 3 ottobre. E non è la prima volta.
Il parlamento italiano ha fatto bene a istituire la «Giornata della memoria e dell’accoglienza», che speriamo diventi europea, ma le celebrazioni retoriche non servono a nulla. Ciò che causa davvero dolore è che ancora oggi si continui a morire. Né l’Italia né l’Ue hanno un dispositivo di ricerca e soccorso. Non capisco come paesi che si dicono civili, democratici, di antica tradizione umanistica e cristiana possano permetterlo. Familiari, sopravvissuti e coloro che in questi anni non hanno smesso di battersi non vogliono passerelle politiche, ma azioni concrete per proteggere la vita delle persone in fuga. Sono i paesi che hanno chiuso le porte a costringere i migranti ad affidarsi ai sensali di carne umana, ai trafficanti.
Lei come è arrivato in Italia?
Con un visto. Ho preso un aereo e sono atterrato a Roma. Nel 1992 si poteva fare. Mi considero un privilegiato perché per migliaia e migliaia di africani, anche miei connazionali, è impossibile. Manca la volontà politica di affrontare seriamente l’argomento. Si parla tanto di sicurezza, ma se vogliamo garantire sia quella di chi accoglie che quella di chi viene accolto occorre aprire dei canali legali. I discorsi sulla sicurezza non reggono finché non si fa qualcosa per ambedue le parti.
Nel 2013 dopo i naufragi di Lampedusa fu varata Mare Nostrum. Nel 2023 dopo la strage di Cutro una stretta sull’immigrazione. L’unica missione navale europea in discussione servirebbe a respingere le persone, non a salvarle. Cosa è successo all’Italia e all’Europa?
Hanno tradito i loro principi fondamentali. Le loro carte costituzionali garantiscono il diritto d’asilo. Solo pensare di respingere in mare le persone prima di analizzarne le richieste di protezione è una negazione dei principi su cui si fonda la democrazia. Comunque l’Italia respingeva già prima, tra il 2009 e il 2010 per esempio. Infatti è stata condannata dalla Corte Ue.
Abbiamo visto cadaveri galleggiare e corpi sbattuti a riva oppure saputo di uomini e donne inghiottite dal mare senza alcun testimone. Eppure si continua a non intervenire. Cosa genera l’assuefazione?
La disumanizzazione di queste persone. Chiamate clandestini, vacanzieri, finti profughi e quant’altro. Si è detto di tutto e si è cercato di negare le vere motivazioni per cui rischiano la vita. Sono demonizzate e criminalizzate ancor prima che tocchino terra, equiparate a criminali o eserciti invasori. L’emozione e l’empatia generate dai naufragi del 2013 sono finite nel nulla. Ha vinto la criminalizzazione dei profughi e di chi li aiuta.
Lei è stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Cosa le contestavano?
Ricevevo telefonate da persone disperate che si trovavano in mezzo al Mediterraneo. Loro chiedevano aiuto e io avvisavo le autorità competenti. Dal 2003 al 2014 la guardia costiera italiana, quella maltese, l’Unhcr. Poi anche le Ong, arrivate per colmare il vuoto lasciato dagli Stati. Se vedi qualcuno ferito per terra chiami l’ambulanza, è normale. Ciò che è assurdo è essere denunciati per questo. Poi le accuse sono state archiviate, ma il danno era fatto.
Che partita si sta giocando il governo Meloni sull’immigrazione?
Pensano che prendendosela con i più fragili, deboli e vulnerabili possano fermare i flussi. Ma se non curi le cause alla radice, cioè le ragioni che spingono le persone a rischiare la vita, non le fermerai con multe, ostacoli burocratici o violazioni dei loro diritti. Così aumenti solo le loro sofferenze. Democrazie mature dovrebbero difendere i più vulnerabili, non accanirsi contro di loro.

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