Ricorre oggi il decimo anniversario del naufragio avvenuto al largo delle coste di Lampedusa il 3 ottobre 2013 e nel quale sono morte 368 persone, la maggior parte eritrei. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori (uno solo accompagnato dalla famiglia). Quella di Lampedusa è stata una delle più gravi catastrofi marine del XXI, certamente una delle più grandi tragedie della migrazione attraverso il Mar Mediterraneo. Altre ne sono seguite, non ultima quella più recente di Cutro, ma quel naufragio rimane uno dei punti più dolenti della storia perché fu il primo di quelle dimensioni e quello che più è rimasto impresso nella memoria collettiva.
Eppure la strage poteva essere evitata. L’imbarcazione era un peschereccio lungo una ventina di metri ed era salpato dal porto libico di Misurata il 1º ottobre 2013. La barca era giunta a mezzo miglio dalle coste lampedusane quando i motori si sono bloccati poco lontano dall’Isola dei Conigli. Due imbarcazioni di pescatori erano passate poco lontano e l’assistente del capitano, per attrarre la loro attenzione aveva dato fuoco a uno straccio imbevuto di carburante. Quando lo straccio era quasi completamente bruciato, il marinaio, per non ustionarsi la mano, l’ha lasciato cadere sul ponte. Il legno imbevuto di carburante ha preso fuoco. I passeggeri, spaventati, si sono spostati da una parte dell’imbarcazione, che si è rovesciata . La barca ha girato su se stessa tre volte prima di colare a picco. Chi si trovava sul ponte è riuscito a gettarsi in mare. Chi era sottocoperta, soprattutto, donne e bambini, non ce l’ha fatta.
Nei giorni successivi al naufragio, le famiglie dei migranti si sono trovate in difficoltà. Non riuscivano a capire se tra i morti ci fossero i loro cari. «I sopravvissuti – ricorda oggi abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo da anni vicino ai migranti – raccontavano che i passeggeri a bordo dell’imbarcazione erano quasi tutti eritrei e tra essi c’erano solo pochi etiopi. Il governo italiano, guidato allora da Enrico Letta, si è subito offerto di organizzare uno o più voli per far rimpatriare le salme in Eritrea. Ma qui sono sorte le prime complicazioni». Il governo di Asmara allora cercava di sminuire il flusso dei migranti in uscita dal Paese probabilmente per motivi di orgoglio nazionale o di prestigio internazionale. In Eritrea, dopo la strage, la dittatura ha così vietato l’affissione dei manifesti funebri con i nomi delle vittime. Non solo, ma il governo eritreo non si è detto disponibile ad accettare il rientro dei corpi se non fosse stato accertato, con un esame del Dna, che fossero realmente eritrei. «Per l’identificazione delle salme sono giunti da tutta Europa i parenti – osserva abba Mussie -, ma è stato difficile, ad eccezione di un centinaio di corpi, identificarne l’origine. Le bare sono così state seppellite in vari cimiteri della Sicilia».
In seguito al naufragio è nato il Comitato 3 Ottobre che ha lavorato duramente per redigere il «Protocollo d’intesa per favorire il riconoscimento dei corpi senza identità dei naufragi di Lampedusa”, documento firmato dallo stesso Comitato e dal ministero degli Interni italiano. «A dieci anni dalla tragedia – commenta amaro Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre – non possiamo dire che quel protocollo sia stato applicato. In Italia sono in vigore procedure particolari, ma diverse da quelle di altri Paesi. Non c’è uniformità nel riconoscimento delle vittime. Ciò è triste, soprattutto per le famiglie».
Per i morti del naufragio si è tenuta alla fine di ottobre 2013 una cerimonia funebre ad Agrigento, ma senza bare. «Quella cerimonia è stata una beffa per le stesse vittime – dice abba Mussie -. Oltre ai religiosi cattolici, ortodossi e musulmani sono stati invitati gli esponenti del governo di Asmara. Quello stesso governo dal quale i migranti fuggivano e che non riconoscevano i morti come eritrei. Non abbiamo potuto opporci, ma è stato un momento doloroso».
Il governo italiano, scosso dall’evento, ha poi dato vita a Mare Nostrum, una missione della Marina Militare che, negli anni, ha salvato centinaia di vittime.
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