- Intervista a Don Mussie Zerai, l'angelo dei profughi
Anche se i motivi delle migrazioni dai paesi africani verso le spiagge europee sono ben noti, il racconto di un’esperienza diretta è sempre più esplicativo. Come mai ha lasciato l’Eritrea?
Ho lasciato il mio paese all’età di 16 anni in cerca di libertà e per fuggire lontano dal rumore della guerra. Sono nato e cresciuto durante la guerra e non ho conosciuto altro che paura, militari, coprifuoco, sospetti e spie. Ero stufo di tutto questo, volevo avere un futuro diverso dal presente in cui stavo crescendo. Ecco le motivazioni che mi hanno spinto a lasciare l'Eritrea (molte informazioni potrete trovarle nel mio libro Padre Mosè).
Durante la conferenza sulla migrazione tenutasi presso la USI di Lugano nel giorno 1 marzo lei ha parlato dell’importanza di aiutare i popoli africani nel proprio paese o agevolarne l’accoglienza nei paesi limitrofi. Cosa può essere fatto concretamente?
Aiutarli a casa loro è uno slogan di moda negli ultimi 20 anni, ma di fatto si è tradotto in sfruttiamoli a casa loro. Bisogna cambiare tutto questo. 1. Serve un piano di prevenzione di conflitti e guerre. 2. Serve un’etica nei rapporti commerciali che premia quei paesi più virtuosi che portano avanti un processo di democratizzazione nel paese, si sforzano di garantire i diritti fondamentali per la loro popolazione, e che quindi evitano il sostenimento di dittatori al potere solo per tutelare gli interessi delle multinazionali occidentali. 3. Avere un piano di protezione in caso di emergenza nei paesi limitrofi. Non basta allestire campi in mezzo al nulla, ma bisogna creare tutte le infrastrutture necessarie per garantire ai profughi l’accesso alla sanità, alle scuole, alle università, a case dignitose, e al lavoro, invece di abbandonarli nei campi profughi per anni. 4. Serve un canale di ingresso legale con visti umanitari, ricongiungimento famigliare, visti per studio, cure mediche, per sottrarre queste persone dalle mani di trafficanti e faccendieri che approfittano della loro disperazione.
Qual è la percezione che hanno gli aspiranti migranti dei paesi europei, specialmente dell’Italia in quanto uno dei porti più vicini? Esiste una sorta di “sogno europeo” o è solo il meno peggio?
L’Italia è solo un paese di transito, il 90% non vorrebbe restare, se non fosse costretto dall’accordo di Dublino. Il sogno europeo c’è, ed è stato alimentato per decenni dalla cooperazione internazionale finalizzata a creare consumatori finali, da tutto il retaggio coloniale, mass media ed i social network. Il tarlo che è stato insinuato in Africa è l’importanza di possedere, non essere. Quindi per sentirsi realizzati bisogna avere una casa piena di beni come TV, frigorifero, tutte le varie tecnologie domestiche, la macchina, ed altre cose come queste. Ma non si può avere tutto questo guadagnando un dollaro al giorno. Ecco che scatta la voglia di andare a cercare altrove. Ma non tutti partono per queste ragioni anzi la maggioranza parte per dare un futuro alla propria famiglia, garantire ai figli un’educazione, salute e pasti regolari. Poi ci sono i migranti forzati che lasciano la propria casa a causa di guerre o persecuzioni o calamità naturali come la desertificazione che avanza. Loro non hanno altra scelta se non migrare.
Sono circa 2,7 milioni gli immigrati di diverse provenienze che hanno un contratto di lavoro regolare in Italia (circa l’11% della forza lavoro del paese). Crede che questo sia un dato che sottolinea una buona integrazione?
Queste persone producono il 9% del pil nazionale, pagano circa 11 miliardi di contributi all’Inps, grazie a loro 650 mila italiani prendono la pensione. Tutto questo è un contributo al bene comune dell’Italia. In cambio, però, loro non ricevono quasi nulla - solo l'1,75% di queste risorse gli vengono restituite in termini di (dis)servizi, perché le cose non funzionano come dovrebbero. Integrazione non significa avere lavoro e reddito, bisogna vedere che tipo di inclusione sociale, economico e culturale sia stata fatta: che spazio hanno queste persone nella vita sociale? sono consultati nelle decisioni che prede un’amministrazione? La risposta è no. I mass media non parlano del loro contributo, solo di cronaca. Quindi siamo ancora lontani da poter dire integrazione riuscita.
Concludendo, c’è un consiglio che vuole lasciare per gli accoglienti nel modo di porsi verso gli accolti?
L’accoglienza non è fare elemosina, ma riconoscere l’altro come portatore degli stessi diritti e dignità che hai tu. Gli devono essere garantite, quindi, le stesse cose che sono riconosciute ad un autoctono. L’altro che arriva è una persona con il suo passato, la sua cultura, fede, sogni per il futuro. Bisogna quindi trattarlo come soggetto avente il diritto di autodeterminare il proprio futuro, non come oggetto da sistemare da qualche parte senza mai tenere in conto le sue esigenze personali. Rispetto!
Ho lasciato il mio paese all’età di 16 anni in cerca di libertà e per fuggire lontano dal rumore della guerra. Sono nato e cresciuto durante la guerra e non ho conosciuto altro che paura, militari, coprifuoco, sospetti e spie. Ero stufo di tutto questo, volevo avere un futuro diverso dal presente in cui stavo crescendo. Ecco le motivazioni che mi hanno spinto a lasciare l'Eritrea (molte informazioni potrete trovarle nel mio libro Padre Mosè).
Durante la conferenza sulla migrazione tenutasi presso la USI di Lugano nel giorno 1 marzo lei ha parlato dell’importanza di aiutare i popoli africani nel proprio paese o agevolarne l’accoglienza nei paesi limitrofi. Cosa può essere fatto concretamente?
Aiutarli a casa loro è uno slogan di moda negli ultimi 20 anni, ma di fatto si è tradotto in sfruttiamoli a casa loro. Bisogna cambiare tutto questo. 1. Serve un piano di prevenzione di conflitti e guerre. 2. Serve un’etica nei rapporti commerciali che premia quei paesi più virtuosi che portano avanti un processo di democratizzazione nel paese, si sforzano di garantire i diritti fondamentali per la loro popolazione, e che quindi evitano il sostenimento di dittatori al potere solo per tutelare gli interessi delle multinazionali occidentali. 3. Avere un piano di protezione in caso di emergenza nei paesi limitrofi. Non basta allestire campi in mezzo al nulla, ma bisogna creare tutte le infrastrutture necessarie per garantire ai profughi l’accesso alla sanità, alle scuole, alle università, a case dignitose, e al lavoro, invece di abbandonarli nei campi profughi per anni. 4. Serve un canale di ingresso legale con visti umanitari, ricongiungimento famigliare, visti per studio, cure mediche, per sottrarre queste persone dalle mani di trafficanti e faccendieri che approfittano della loro disperazione.
Qual è la percezione che hanno gli aspiranti migranti dei paesi europei, specialmente dell’Italia in quanto uno dei porti più vicini? Esiste una sorta di “sogno europeo” o è solo il meno peggio?
L’Italia è solo un paese di transito, il 90% non vorrebbe restare, se non fosse costretto dall’accordo di Dublino. Il sogno europeo c’è, ed è stato alimentato per decenni dalla cooperazione internazionale finalizzata a creare consumatori finali, da tutto il retaggio coloniale, mass media ed i social network. Il tarlo che è stato insinuato in Africa è l’importanza di possedere, non essere. Quindi per sentirsi realizzati bisogna avere una casa piena di beni come TV, frigorifero, tutte le varie tecnologie domestiche, la macchina, ed altre cose come queste. Ma non si può avere tutto questo guadagnando un dollaro al giorno. Ecco che scatta la voglia di andare a cercare altrove. Ma non tutti partono per queste ragioni anzi la maggioranza parte per dare un futuro alla propria famiglia, garantire ai figli un’educazione, salute e pasti regolari. Poi ci sono i migranti forzati che lasciano la propria casa a causa di guerre o persecuzioni o calamità naturali come la desertificazione che avanza. Loro non hanno altra scelta se non migrare.
Sono circa 2,7 milioni gli immigrati di diverse provenienze che hanno un contratto di lavoro regolare in Italia (circa l’11% della forza lavoro del paese). Crede che questo sia un dato che sottolinea una buona integrazione?
Queste persone producono il 9% del pil nazionale, pagano circa 11 miliardi di contributi all’Inps, grazie a loro 650 mila italiani prendono la pensione. Tutto questo è un contributo al bene comune dell’Italia. In cambio, però, loro non ricevono quasi nulla - solo l'1,75% di queste risorse gli vengono restituite in termini di (dis)servizi, perché le cose non funzionano come dovrebbero. Integrazione non significa avere lavoro e reddito, bisogna vedere che tipo di inclusione sociale, economico e culturale sia stata fatta: che spazio hanno queste persone nella vita sociale? sono consultati nelle decisioni che prede un’amministrazione? La risposta è no. I mass media non parlano del loro contributo, solo di cronaca. Quindi siamo ancora lontani da poter dire integrazione riuscita.
Concludendo, c’è un consiglio che vuole lasciare per gli accoglienti nel modo di porsi verso gli accolti?
L’accoglienza non è fare elemosina, ma riconoscere l’altro come portatore degli stessi diritti e dignità che hai tu. Gli devono essere garantite, quindi, le stesse cose che sono riconosciute ad un autoctono. L’altro che arriva è una persona con il suo passato, la sua cultura, fede, sogni per il futuro. Bisogna quindi trattarlo come soggetto avente il diritto di autodeterminare il proprio futuro, non come oggetto da sistemare da qualche parte senza mai tenere in conto le sue esigenze personali. Rispetto!
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