Lampedusa, 5 anni dopo la strage del 03 Ottobre 2013
Cinque anni fa, la
tragedia di Lampedusa: 368 giovani vite spezzate a poche centinaia di metri
dalla spiaggia, quando la libertà e un futuro migliore sembravano ormai a un
passo.
Il quinto
anniversario di questa tragedia arriva proprio all’indomani del nulla osta del
Consiglio dei Ministri a un decreto che erige l’ennesima barriera di morte in
faccia a migliaia di altri rifugiati e migranti come i ragazzi spazzati via in
quell’alba grigia del 3 ottobre 2013. Non sappiamo se esponenti di questo
governo e questa maggioranza o, più in generale, se altri protagonisti della
politica degli ultimi anni, intendano promuovere o anche solo partecipare a
cerimonie ed eventi in memoria di quanto è accaduto. Ma se è vero, come è vero,
che il modo migliore di onorare i morti è salvare i vivi e rispettarne la
libertà e la dignità, allora non avrà senso condividere i momenti di
raccoglimento e di riflessione, che la data del 3 ottobre richiama, con chi da
anni costruisce muri e distrugge i ponti, ignorando il grido d’aiuto che sale
da tutto il Sud del mondo. Se anche loro voglio “ricordare Lampedusa”, che lo
facciano da soli. Che restino soli. Perché in questi cinque anni hanno
rovesciato, distrutto o snaturato quel grande afflato di solidarietà e umana
pietà suscitato dalla strage nelle coscienze di milioni di persone in tutto il
mondo.
Che cosa resta,
infatti, dello “spirito” e degli impegni di allora? Nulla. Si è regrediti a un
cinismo e a una indifferenza anche peggiori del clima antecedente quel
terribile 3 ottobre. E, addirittura, nonostante le indagini in corso da parte
della magistratura, non si è ancora riusciti a capire come sia stato possibile
che 368 persone abbiano trovato la morte ad appena 800 metri da Lampedusa e a meno
di due chilometri da un porto zeppo di unità militari veloci e attrezzate, in
grado di arrivare sul posto in pochi minuti.
La vastità della tragedia
ha richiamato l’attenzione, con la forza enorme di 368 vite perdute, su due
punti in particolare: la catastrofe umanitaria di milioni di rifugiati in cerca
di salvezza attraverso il Mediterraneo; il dramma dell’Eritrea, schiavizzata
dalla dittatura di Isaias Afewerki, perché tutti quei morti erano eritrei.
Al primo “punto” si
rispose con Mare Nostrum, il mandato alla Marina italiana di pattugliare il
Mediterraneo sino ai margini delle acque territoriali libiche, per prestare
aiuto alle barche di migranti in difficoltà e prevenire, evitare altre stragi
come quella di Lampedusa. Quell’operazione è stata un vanto per la nostra
Marina, con migliaia di vite salvate. A cinque anni di distanza non solo non ne
resta nulla, ma sembra quasi che buona parte della politica la consideri uno
spreco o addirittura un aiuto dato ai trafficanti. Sta di fatto che esattamente
dopo dodici mesi, nel novembre 2014, Mare Nostrum è stato “cancellato”,
moltiplicando – proprio come aveva previsto la Marina – i naufragi e le
vittime, inclusa l’immane tragedia del 15 aprile 2015, con circa 800 vittime, il
più alto bilancio di morte mai registrato nel Mediterraneo in un naufragio. E,
al posto di quella operazione salvezza, sono state introdotte via via norme e
restrizioni che neanche l’escalation delle vittime è valsa ad arrestare, fino
ad arrivare ad esternalizzare sempre più a sud, in Africa e nel Medio Oriente,
le frontiere della Fortezza Europa, attraverso tutta una serie di trattati
internazionali, per bloccare i rifugiati in pieno Sahara, “lontano dai
riflettori”, prima ancora che possano arrivare ad imbarcarsi sulla sponda sud
del Mediterraneo. Questo hanno fatto e stanno facendo trattati come il Processo
di Khartoum (fotocopia del precedente Processo di Rabat), gli accordi di Malta,
il trattato con la Turchia, il patto di respingimento con il Sudan, il ricatto
all’Afghanistan (costretto a “riprendersi” 80 mila profughi), il memorandum
firmato con la Libia nel febbraio 2017 e gli ultimi provvedimenti di questo
Governo. Per non dire della criminalizzazione delle Ong, alle quali si deve
circa il 40 per cento delle migliaia di vite salvate, ma che sono state
costrette a sospendere la loro attività, giungendo persino a fare pressione su
Panama perché revocasse la bandiera di navigazione alla Aquarius, l’ultima nave umanitaria rimasta in tutto il
Mediterraneo.
Con i rifugiati
eritrei, il secondo “punto”, si è passati dalla solidarietà alla derisione o
addirittura al disprezzo, tanto da definirli – nelle parole di autorevoli
esponenti dell’attuale maggioranza di governo – “profughi vacanzieri” o
“migranti per fare la bella vita”, pur di negare la realtà della dittatura di
Asmara. E’ un processo iniziato subito, già all’indomani della tragedia, quando
alla cerimonia funebre per le vittime, ad Agrigento, il Governo ha invitato
l’ambasciatore eritreo a Roma, l’uomo che in Italia rappresenta ed è la voce
proprio di quel regime che ha costretto quei 368 giovani a scappare dal paese.
Sarebbe potuta sembrare una “gaffe”. Invece si è rivelata l’inizio di un
percorso di progressivo riavvicinamento e rivalutazione di Isaias Afewerki, il
dittatore che ha schiavizzato il suo popolo, facendolo uscire dall’isolamento
internazionale, associandolo al Processo di Khartoum e ad altri accordi,
inviandogli centinaia di milioni di euro di finanziamenti, eleggendolo, di
fatto, gendarme anti immigrazione per conto dell’Italia e dell’Europa.
Sia per quanto
riguarda i migranti in generale che per l’Eritrea, allora, a cinque anni di
distanza dalla tragedia di quel 3 ottobre 2013, resta l’amaro sapore di un
tradimento.
– Traditi la memoria
e il rispetto per le 368 giovani vittime e tutti i loro familiari e amici.
– Traditi le
migliaia di giovani che con la loro stessa fuga denunciano la feroce, terribile
realtà del regime di Asmara, che resta una dittatura anche dopo la recente
firma della pace con l’Etiopia per la lunghissima guerra di confine iniziata
nel 1998.
– Tradito il grido
di dolore che sale dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa da
parte di un intero popolo di migranti costretti ad abbandonare la propria
terra: una fuga per la vita che nasce spesso da situazioni create dalla
politica e dagli interessi economici e geostrategici proprio di quegli Stati
del Nord del mondo che ora alzano barriere. Tradito, questo grido di dolore,
nel momento stesso in cui si finge di non vedere una realtà evidente: che cioè
“…lasci la casa solo / quando la casa non ti
lascia più stare / Nessuno lascia la casa a meno che la casa non ti cacci /
fuoco sotto i piedi / sangue caldo in pancia / qualcosa che non avresti mai
pensato di fare / finché la falce non ti ha segnato il collo di minacce…” (da Home, monologo di Giuseppe Cederna.)
Ecco: ovunque si
voglia ricordare in questi giorni la tragedia di Lampedusa, sull’isola stessa o
da qualsiasi altra parte, non avrà alcun senso farlo se non si vorrà trasformare
questa triste ricorrenza in un punto di partenza per cambiare radicalmente la
politica condotta in questi cinque anni nei confronti di migranti e rifugiati.
Gli “ultimi della terra”.
Agenzia Habeshia
Agenzia Habeshia
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