Gentile presidente Dott. Conte,
le scriviamo, a nome
dell’Agenzia Habeshia, in vista della visita che farà alla metà del mese di
ottobre in Eritrea.
Quello di Asmara,
come certamente sa, è uno dei regimi politici più duri del mondo, una dittatura
che ha soppresso ogni forma di libertà, annullato la costituzione del 1997,
soppresso di fatto la magistratura, militarizzato l’intera popolazione per
quasi tutta la vita. Una dittatura che, in una parola, ha creato uno Stato
prigione. Lo denunciano ormai da vent’anni i numerosi, dettagliati rapporti
pubblicati da varie istituzioni e organizzazioni internazionali e dalle più
prestigiose Ong e associazioni umanitarie. Valgano per tutti le due relazioni
finali delle inchieste condotte dalla Commissione per i diritti umani delle
Nazioni Unite – rese ufficialmente note a Ginevra rispettivamente nel giugno
2015 e nel giugno 2016 – nelle quali si afferma senza mezzi termini che il
regime ha eletto a sistema il terrore, rendendo schiavo il suo stesso popolo.
Non a caso, nel rapporto 2016, si arriva alla conclusione che ci sono fondati
elementi per deferire i principali responsabili del Governo di fronte alla
Corte penale internazionale.
Confermano questo
quadro terribile le migliaia di profughi che da anni giungono in Italia dall’Eritrea,
a meno che non sia anche lei dell’opinione che gli eritrei sarebbero “profughi
vacanzieri”, come hanno più volte dichiarato autorevoli esponenti della
maggioranza che sostiene l’attuale Governo, con un cinismo che offende la
verità e un disprezzo inaccettabile per le sofferenze che quei giovani
patiscono ed hanno patito.
Comprendiamo bene
che un Governo, uno Stato, deve avere rapporti anche con dittature come quella
di Asmara. E’ nell’ordine logico della politica internazionale. Il punto non è questo.
Il punto è “come” vengono impostati questi rapporti. Si può fare finta di
nulla, chiudendo gli occhi di fronte alla realtà – e definire, appunto,
“profughi vacanzieri” i giovani eritrei costretti ad abbandonare la propria
terra – in nome di interessi geostrategici ed economici magari inconfessabili.
Oppure si può dare voce e contenuto con forza ai valori di libertà, democrazia,
giustizia, solidarietà sanciti dalla Costituzione Repubblicana. Si tratta, in
altre parole, di non aprire, con la dittatura di Asmara, rapporti “al buio”,
senza cioè alcuna condizione preliminare, ma di tenere ben ferma, come requisito
irrinunciabile e invalicabile, la questione del rispetto dei diritti umani,
anteponendola ad ogni altro genere di interessi.
Le chiediamo allora
due cose, strettamente connesse ed anzi inscindibili, perché scinderle, o anche
appannarne una soltanto, significherebbe svuotarle entrambe di valore. Due
richieste che, oltre tutto, potranno misurare la concreta efficacia della pace
appena firmata con l’Etiopia, dopo 20 anni di guerra, per un cambiamento della
situazione in Eritrea: la reale volontà del regime di lasciare il passo alla
democrazia.
La prima è la
necessità di sollevare la questione del rispetto dei diritti umani (anche alla
luce dei due rapporti dell’Onu), ponendo sul tavolo di discussione alcuni
problemi fondamentali, tanto più che è ormai caduto il vecchio alibi della
guerra e del “nemico alle porte”: la liberazione dei prigionieri politici, il
libero accesso di commissioni internazionali nelle carceri, la garanzia del
ritorno immediato di ogni forma di libertà, a cominciare da quella politica e
quella religiosa, violate anche di recente con nuovi arresti di oppositori, con
la chiusura di scuole cattoliche e islamiche, con la chiusura di otto centri
medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca della chiesa ortodossa Abune Antonios,
fermato nel 2004, si trova ancora confinato dopo ben 14 anni.
La seconda è il
consenso ed anzi la possibilità pratica di riportare in Eritrea le salme delle
vittime della strage verificatasi il 3 ottobre 2013 a Lampedusa e di tutti gli
altri giovani profughi annegati nel Mediterraneo e sepolti in Italia. Finora
c’è stato un palleggiamento di responsabilità. Asmara dice che è l’Italia a
sollevare difficoltà; Roma sostiene che l’Eritrea non ha mai mostrato una vera
disponibilità. E’ tempo di superare queste controversie, in nome di un
principio umano di grande significato: dare alle famiglie un luogo dove pregare
e deporre un fiore in memoria dei loro cari perduti. L’Italia non ha mai fatto
in modo che i resti di numerosissimi ascari e soldati eritrei, caduti
combattendo sotto le sue bandiere, su diversi fronti africani, fossero
riportati in patria: occorre impedire che la stessa, grave ingiustizia si
ripeta con i loro figli e nipoti. Riteniamo però che questa iniziativa di umana
pietà non possa prescindere e restare isolata dal contesto più generale del
rispetto dei diritti, indicato nella nostra prima richiesta. Perché il modo
migliore di onorare i morti è senza dubbio il rispetto della libertà e della
vita stessa dei vivi. Dimenticare o trascurare questa stretta connessione
rischierebbe di trasformare un doveroso, auspicabile, atteso gesto di carità
nell’ennesimo strumento di propaganda in favore del regime.
Confidiamo che vorrà
tener conto di queste nostre considerazioni. Grazie per il tempo che ha voluto
dedicarci e per quanto potrà fare.
Cordiali saluti,
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