a cura di Emilio Drudi
Un ennesimo programma
di chiusura e respingimento: è questo, in buona sostanza, il Migration Compact,
il piano presentato da Matteo Renzi a Bruxelles per affrontare la cosiddetta
“crisi migratoria”. Non è una novità. Sono anni che l’Italia e l’Europa
costruiscono muri e non ponti per affrontare la tragedia dei profughi, con una
escalation di provvedimenti-barriera sempre più fitta: prima una serie di trattati
bilaterali tra singoli Governi Ue e vari Stati del Nord Africa, poi il Processo
di Rabat (2006) e poi, via via a seguire, il Processo di Khartoum (28 novembre
2014), gli accordi di La Valletta a Malta (11 novembre 2015), l’accordo da 6
miliardi di euro con la Turchia (siglato inizialmente alla fine di novembre del
2015 e perfezionato in via definitiva nel marzo 2016). Ecco, il Migration
Compact si inserisce perfettamente in questa lunga scia di egoismo,
indifferenza e incomprensione: è una riproposizione, in chiave africana (e in
particolare libica), dell’intesa raggiunta tra Bruxellese e Ankara. Un’intesa
condannata come una palese violazione dei diritti umani dalla stessa Unhcr
(l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite), oltre che dalle
principali organizzazioni umanitarie internazionali, a cominciare da Amnesty e
da Human Rights Watch. Proprio Human Rights Watch ha anzi appena documentato
l’autentica, crudele deportazione-prigionia a cui sono stati costretti, tra
mille angherie, gran parte dei profughi espulsi dalla Grecia verso la Turchia
in base agli ultimi accordi.
Al contrario di
quanto lascia intendere la linea della politica italiana ed europea
sull’immigrazione, la stragrande maggioranza dei migranti arrivati negli ultimi
anni e che continuano ad arrivare, fuggono da “situazioni estreme”. Si tratta
cioè, non di persone indotte ad emigrare da motivazioni puramente economiche
ma, in almeno l’80 per cento dei casi, di disperati costretti a una autentica
“fuga per la vita”, per salvarsi da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni
o magari per sottrarsi a condizioni di vita impossibili a causa di carestie,
land grabbing, fame e miserie endemiche provocate assai spesso proprio dagli
interessi e dalle scelte fatte dalla “realpolitik” dell’Europa e, in generale,
del Nord del Mondo. Lo conferma, tra l’altro, il fatto che ad affrontare questa
odissea sono sempre più spesso intere famiglie, alle quali non è rimasta altra
via di salvezza se non quella, dolorosissima, dell’esilio, tagliandosi tutti i
ponti alle spalle.
E’ proprio qui il
punto: il Migration Compact – come tutti gli accordi e i provvedimenti di
“politica migratoria” che l’hanno preceduto – si ostina a non voler vedere e a
non prendere atto che, appunto, c’è questa fuga per la vita alla base della
catastrofe umanitaria a cui stiamo assistendo. E’ un problema enorme, esploso
negli ultimi anni e che potrà trovare una vera soluzione solo con un cambio
radicale della politica del Nord nei confronti del Sud del mondo, ponendo le
basi per pacificare e stabilizzare le regioni africane e del Medio Oriente da
cui scappano i profughi. E’ una strada lunga, ma proprio per questo nel
frattempo, invece di alzare muraglie, occorre aprire le porte della Fortezza
Europa, ampliando le motivazioni alla base del diritto d’asilo previste dalla
Convenzione di Ginevra del 1951, poiché certamente non bastano le timide
integrazioni apportate con la tutela “umanitaria” o “sussidiaria” in vigore
attualmente. Gli interventi previsti, invece, vanno esattamente nella direzione
contraria e, messi tutti insieme, creano le condizioni per attuare veri e
propri respingimenti di massa, in contrasto con il diritto internazionale, con
la Convenzione di Ginevra, con i principi basilari del diritto d’asilo e con la
stessa Costituzione italiana.
Può sembrare
assurdo, alla luce delle frequenti dichiarazioni di “apertura” fatte ai massimi
livelli della politica europea ed italiana, ma proprio tutto questo emerge
dall’analisi dei capitoli principali del Migration Compact.
– Progetti d’investimento. E’ il primo punto del piano. L’ostinazione a
chiudere gli occhi di fronte alla vera natura del problema emerge già da qui,
con la previsione di “progetti di investimento” per creare (a prescindere se i
finanziamenti verranno trovati attraverso Ue-Africa bonds o altri sistemi)
opere di “alto impatto sociale e infrastrutturale”, da individuare assieme al
paese partner. In sostanza, programmi di cooperazione allo sviluppo, che
dovrebbero bloccare o quanto meno frenare l’ondata migratoria. Per l’ennesima
volta, dunque, si ignora che le cause primarie di questo esodo che sta
coinvolgendo milioni di persone, non sono economiche ma politiche, e che i
“partner” a cui si fa riferimento rischiano di essere proprio i dittatori che hanno
devastato la libertà e l’economia del proprio paese, riducendolo a una prigione
da cui non resta altra via di scampo che la fuga.
E’ già accaduto anche
di recente con la dittatura eritrea, alla quale sono stati destinati 312
milioni di euro dal Fes (Fondo Europeo per lo Sviluppo) e altri 200 in base al
Processo di Khartoum. Centinaia di euro concessi “al buio”, senza alcuna reale
possibilità di controllo sul loro utilizzo e, soprattutto, senza alcuna richiesta
preliminare e inderogabile, pena la revoca dei fondi, sull’avvio di riforme e
concessioni democratiche da parte di Asmara, a cominciare, ad esempio, dalla
liberazione delle migliaia di prigionieri politici fatti sparire nelle carceri
del regime. Un caso analogo riguarda il Sudan guidato dal presidente Omar al
Bashir, colpito da un ordine di cattura internazionale per genocidio e crimini
contro l’umanità: proprio in questo primo scorcio del 2016, il commissario
europeo per lo sviluppo, Nevem Mimica, ha discusso con il governo di Khartoum un
progetto da 100 milioni contro “l’instabilità economica”, mentre altri 40
milioni sono stati previsti per il miglioramento del “management migratorio” e
più di 15 per programmi di aiuto in favore dei rifugiati provenienti
dall’Eritrea.
– Sicurezza. Si prevedono forme di cooperazione e interventi
comuni sia di “border control” che per la lotta contro la criminalità, fornendo
in particolare addestramento, mezzi ed equipaggiamenti. In un capitolo
successivo si aggiunge, come richiesta specifica rivolta dall’Unione Europea ai
paesi africani partner, la necessità di intensificare la vigilanza ai confini
per la riduzione dei flussi di immigrazione, anche con interventi coordinati
tra le forze locali e quelle europee, a cominciare dalla nuova Guardia di
Frontiera Ue. Sembra la conferma che, ancora una volta, si tende ad
esternalizzare le frontiere della “Fortezza Europa” spostandole sempre più a
sud e affidando ad altri il lavoro sporco di bloccare i profughi in fuga, in
modo che non riescano ad arrivare neanche alla sponda meridionale del
Mediterraneo.
E’ il criterio già attuato
con il Processo di Rabat (l’accordo tra l’Unione Europea e 27 Stati della
fascia occidentale del continente africano) il quale, entrato a regime dopo
qualche anno di “rodaggio”, attraverso l’azione combinata delle forze di
polizia di Spagna, Marocco, Mauritania e Senegal sbarra ormai quasi totalmente
ai migranti ogni via di accesso al nord del Marocco e, dunque, alla possibilità
di imbarcarsi verso la Penisola Iberica. E, grazie al Processo di Khartoum, ora
lo stesso principio comincia ad essere applicato anche nella fascia orientale:
basti ricordare i 40 milioni stanziati mesi fa per “potenziare” la vigilanza
sulle frontiere e finiti di fatto anche alle forze di sicurezza di regimi come
quello di Al Bashir in Sudan, dove la polizia è stata più volte accusata di
essere in combutta con i trafficanti di uomini,
o come quello di Afewerki in Eritrea, dove le milizie sparano a vista
contro chiunque tenti di varcare il confine. E di morti ammazzati alle
frontiere o durante tentativi di fuga dai centri di detenzione quest’anno ce ne
sono stati già 37: 16 in Eritrea, 16 tra la Turchia e la Siria, 5 in Libia.
– Reinsediamenti. E’ previsto un programma di “compensazione”
riservato ai paesi di transito o prima sosta che si impegnano a stabilire
sistemi di asilo per i profughi. Anche questa proposta non è nuova: obbedisce,
in sostanza, al criterio “soldi in cambio di uomini” stabilito con gli accordi
di Malta e subito sperimentato con la Turchia. Uomini da bloccare prima che
emigrino verso l’Europa o da riprendersi dopo che l’Europa li ha respinti.
Senza preoccuparsi minimamente della sorte di sofferenza e spesso di morte a
cui questa scelta di deliberata chiusura li espone.
– Gestione
dei flussi dei rifugiati. Si parla di “strutture di accoglienza” da
realizzare “con il sostegno locale”: hub
di soggiorno e smistamento, dove identificare chi ha diritto a ottenere l’asilo
o comunque una forma di protezione internazionale. Può sembrare la premessa per
aprire vie legali di immigrazione per i rifugiati. Ma se non cambiano i criteri
per la concessione del diritto d’asilo e si continuano a considerare “sicuri”
anche paesi sconvolti dalla guerra o soggiogati da regimi dittatoriali, si
tratterà di vie chiuse in partenza. Non solo. Strutture di questo genere, in
realtà, in Africa già ci sono, proprio sotto l’egida dell’Unhcr, con la quale
si dice di voler collaborare. Il punto – proprio alla luce dell’esistente – è dunque
come assicurare condizioni di vita dignitose e sicure agli ospiti di questi
centri, quelli già aperti ed eventualmente quelli nuovi. La realtà è che gli hub programmati rischiano di diventare
la copia esatta di quelli attuali, cioè enormi campi profughi, pressoché
ingestibili e dove accade di tutto. C’è da credere che ci si affiderà alla tutela
della polizia e dell’esercito dei governi locali. Ma questi governi sono spesso
feroci dittature e le loro forze di sicurezza risultano a dir poco
inaffidabili. Allora si rischia di aggravare il problema anziché risolverlo.
Basti pensare ai traffici, alle razzie e persino ai pogrom registrati in certi
campi di raccolta del Sudan o nei cosiddetti centri di accoglienza in Libia.
Forse, per garantire la sicurezza dei rifugiati, si pensa di inviare in quei
paesi contingenti militari europei, magari sotto le insegne della Nato? Non sembra
fattibile: per ragioni organizzative, di bilancio ma, soprattutto, per la
prevedibile opposizione dei paesi interessati, che vedrebbero questa opzione
come una ingerenza esterna ed una violazione della sovranità nazionale.
– Lotta ai trafficanti. Vengono proposte operazioni congiunte di
polizia tra Europa e Stati africani e un incremento della collaborazione
giudiziaria. Nient’altro: due righe in tutto. Occorre certamente una maggiore
collaborazione e un coordinamento transnazionale delle indagini. Ma non è solo
una “questione di polizia”. Anzi, insistere soltanto su questo aspetto rischia
di essere fuorviante. La vera soluzione per eliminare il traffico di esseri
umani può venire unicamente dalla politica, creando vie di immigrazione legali
per rifugiati e richiedenti asilo, a cominciare da una serie di canali
umanitari per le situazioni più gravi e pericolose. Nel Migration Compact, a
proposito di opportunità di migrazione legale, si fa cenno invece solo alla
“creazione di strumenti per l’accesso di lavoratori al mercato europeo”, che è
certamente importante, ma è tutt’altra cosa rispetto all’esodo di milioni di
profughi costretti a fuggire per motivi politici, guerre, persecuzioni, ecc.
Non stupisce, allora, che manchi qualsiasi riferimento anche all’altro aspetto
fondamentale del problema: la necessità di creare un sistema unico europeo di
accoglienza, condiviso ed applicato da tutti gli Stati membri dell’Unione, in
modo da attuare una vera politica di reinsediamento e ricollocamento, con
identici criteri di trattamento, possibilità di inclusione e inserimento
sociale.
– La Libia. L’ultimo capitolo riguarda la necessità di
stabilizzare la Libia, considerata una “priorità strategica” per far fronte ai
flussi di rifugiati.
Appare evidente che si vuole attribuire alla
Libia, nella rotta del Mediterraneo centrale, lo stesso ruolo di controllo
dell’immigrazione affidato nell’Egeo alla Turchia, con il recente accordo da 6
miliardi. Questa scelta si scontra con l’attuale realtà del paese. E infatti
vengono proposti interventi a sostegno della sicurezza, della guerra al
terrorismo, della lotta ai trafficanti, di programmi volti a garantire al
governo la capacità di controllo dell’intero territorio nazionale. E’ evidente
che il governo a cui si fa riferimento è quello di Unità Nazionale voluto
dall’Onu e guidato da Fayez al Serraj, che gode del favore dell’Unione Europea
e degli Stati Uniti ma non è riconosciuto né dal Governo e dal Parlamento di
Tobruk, né dalla contrapposta Assemblea tripolina, tanto che, fin da suo sbarco
a Tripoli, proveniente dalla Tunisia, Serraj è in pratica trincerato nella base
militare della Marina. Il timore è che, per il fatto stesso che il Governo di
Unità è arrivato in qualche modo a stabilirsi a Tripoli, si consideri la situazione
in via di “stabilizzazione” e, dunque, la Libia un partner affidabile e
addirittura “sicuro”, a prescindere dal caos in cui è da anni immerso il paese.
Un caos mortale nel quale sarebbero condannati a restare intrappolati le
centinaia di migliaia di rifugiati arrivati dal Corno d’Africa o dall’Africa
sub sahariana e attualmente in balia dei trafficanti oppure rinchiusi in presunti
centri di accoglienza teoricamente controllati da istituzioni statali ma che
sono, in realtà, durissimi centri di detenzione o addirittura veri e propri
lager in mano ai miliziani delle varie fazioni e dove le condizioni di vita
sono letteralmente impossibili.
Il punto è, in
estrema sintesi, che ancora una volta si sta affrontando il problema non
mettendo al centro i diritti e le esigenze dei profughi e dei richiedenti asilo,
ma alzando una serie di muri invalicabili a tutela delle paure immotivate della
Fortezza Europa. Senza considerare che questa politica di pressoché totale chiusura,
che consegna deliberatamente migliaia di persone a un destino di sofferenza e
di morte, configura un crimine di lesa umanità, negando e calpestando diritti
umani fondamentali, a cominciare da quelli alla vita stessa e alla libertà. E senza
accorgersi che negare questi diritti significa minare alla base i principi
della nostra democrazia: il nostro stesso modo di “stare insieme”.
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