di Emilio Drudi
E’ tra i protagonisti del
centesimo Giro d’Italia. Si chiama Daniel Teklehaimanot, viene dall’Eritrea e
corre per la squadra sudafricana di Dimension Data. Anzi, ne è il leader. E’
esploso fin dalle primissime tappe, conquistando subito la maglia azzurra della
classifica per gli scalatori. Non è stato un exploit occasionale. Tutte le
tappe disputate ne hanno confermato la forza atletica e le capacità tecniche: è
ancora tra i primissimi, al terzo posto, per la maglia azzurra e al sesto per
la maglia ciclamino della speciale classifica a punti che esalta i ciclisti con
il migliore spirito agonistico. I cronisti specializzati, elencando i successi
che ha collezionato in passato al Tour de France o in varie corse nel
continente nero, come il Tour del Rwanda o quello del Gabon, ne descrivono il
carattere combattivo con immagini fantasiose ma efficaci, come “professione
fuggitivo” o “il diamante grezzo di una nuova frontiera del ciclismo”. In
sintesi, “il miglior esponente del ciclismo africano”. Non per niente ha fatto
parte della nazionale eritrea nel 2011, nel 2013 e nel 2016.
Sulla scia di quanto sta
facendo al Giro, è probabile che venga convocato per la nazionale anche
quest’anno: è una “perla” che difficilmente il regime di Asmara si lascerà
sfuggire, impegnato com’è da tempo a presentare un volto rassicurante e
vincente del Paese. Non ci sarebbe da stupirsene: la storia è piena di
dittatori che hanno sfruttato lo sport per costruirsi un’immagine vincente e
accattivante. Ci sono però campioni dello sport che raccontano una vicenda
diversa dell’Eritrea. Una vicenda dolorosa, fatta di sofferenza, persecuzione,
galera, esilio. E’ il caso di sette tra i migliori quattordici ciclisti eritrei,
tutti potenziali candidati alla maglia nazionale, fuggiti in Etiopia il 19
ottobre del 2015. Non sono una novità le fughe in Etiopia o in Sudan dall’Eritrea.
Anche di personaggi in vista, insieme a migliaia di giovani, donne e uomini,
che ogni anno cercano di sottrarsi alla dittatura. Ma quella dei sette ciclisti
dell’ottobre 2015 ha destato uno scalpore e un interesse particolari, sia per
la popolarità dei protagonisti, sia per il modo rocambolesco con cui è stata
portata a termine. Stando alle informazioni diffuse dalla diaspora e riprese da
diversi giornali africani, infatti, i sette sono scappati proprio in
bicicletta, tutti insieme: hanno finto un lungo giro di allenamento nella zona
vicina al confine con la regione etiopica del Tigrai e, sfidando le fucilate
della polizia, hanno passato la frontiera pedalando in gruppo, come in una
corsa. Asmara ne ha subito preteso il rimpatrio, ma Addis Abeba ha rispettato
la loro volontà, accogliendoli come richiedenti asilo, in considerazione del
fatto che, una volta costretti a “rientrare”, avrebbero rischiato di sparire in
qualche carcere militare, come è accaduto a centinaia di oppositori al regime.
Ora vivono da esuli in Etiopia.
C’era un motivo in più
perché la dittatura di Asmara ce l’avesse in maniera particolare con quei sette
ciclisti in quell’ottobre del 2015. Appena quattro giorni prima della loro
fuga, il 15, anche la squadra nazionale di calcio si era quasi interamente
dileguata. A offrire l’occasione per quest’altra defezione in massa era stata
la partita di qualificazione per il campionati mondiali disputata in Botswana.
Ben dieci giocatori, al termine dell’incontro, si sono rifiutati di rientrare
in Eritrea, eludendo la sorveglianza degli accompagnatori, abbandonando
l’albergo dove erano alloggiati e chiedendo asilo politico alle autorità
locali. Immediate le pressioni di Asmara, ma anche stavolta gli atleti hanno
tenuto duro, insistendo con forza sulla loro domanda d’asilo e il Governo di
Goborone ha dovuto prenderne atto. In questo caso, però, la questione non si è
ancora risolta. L’Eritrea torna a sollecitare periodicamente l’espulsione di
quei ragazzi e le istituzioni del Botswana non hanno preso una decisione
definitiva sulla loro posizione. Finora si è andati avanti con dei permessi
provvisori e il timore è che prima o poi, anziché ottenere l’asilo politico o
comunque una forma di protezione internazionale, siano riconsegnati ad Asmara.
L’ultimo appello lanciato concordemente da tutti e dieci risale a qualche mese
fa: chiedono la certezza di poter restare in Botswana come rifugiati oppure la
possibilità di raggiungere un altro Stato disposto ad accoglierli.
E’ una “battaglia” che conta
diversi precedenti. Più volte, a partire dai primi anni duemila, team sportivi o
singoli atleti si sono rifiutati di tornare in Eritrea dopo aver partecipato a
competizioni all’estero. L’episodio forse più clamoroso risale al 2013, quando
ben 15 giocatori e il medico ufficiale della nazionale di football sono rimasti
in Uganda, ottenendo l’asilo politico. Allora vanno benissimo i complimenti e
magari le iperboli sulle imprese sportive di Daniel Teklehaimanot. Forse però,
parlando di questo grande ciclista, varrebbe la pena che i giornali ricordassero
anche altri campioni dello sport eritreo, che hanno scelto una strada diversa.
Molto più in salita. Per non assecondare, magari con i lustrini delle vittorie
sportive, un regime che opprime il Paese da più di vent’anni e denunciarne
invece il vero volto di violenza e di oppressione.
Tratto da: Buongiornolatina