di Emilio Drudi
Quando li hanno trovati,
all’inizio di luglio, erano morti ormai da giorni: 48 migranti, tutti uomini,
intrappolati nel deserto, nel distretto di Ajdabiya, poco dopo essere entrati
in Libia dall’Egitto. Alcuni sono stati identificati grazie al passaporto
egiziano trovato nelle loro tasche. Gli altri erano senza documenti, ma si
presume che l’intero gruppo fosse composto di egiziani, decisi a entrare in
Libia per cercarvi lavoro o magari per tentare di imbarcarsi da una delle
spiagge a ovest di Tripoli, dopo che i porti del Delta del Nilo sono stati
blindati dalla polizia del generale Al Sisi.
La notizia è stata data
dalla Mezzaluna Rossa, che ha provveduto a recuperare i corpi, senza
specificare però le circostanze della tragedia. Nulla si sa anche dei mezzi su
cui viaggiavano i 48 migranti: non sembra che siano stati trovati pick-up o
camion nelle vicinanze. O, comunque, non è stato comunicato e la stessa stampa
libica non ha fornito particolari. Nessuna traccia dei trafficanti a cui si
erano affidati. D’altra parte, non essendoci superstiti, una ricostruzione
dettagliata è pressoché impossibile. L’ipotesi più accreditata è che il gruppo,
seguendo piste poco battute, si sia spinto molto a sud dei check-point
istituiti lungo la statale B-11 tra Tobruk e Ajdabiya, in modo da sfuggire ai
controlli, e che poi si sia perso o sia stato abbandonato in pieno deserto:
senza scorte d’acqua e di cibo, con temperature che in questa stagione arrivano
anche a 50 gradi, non hanno avuto scampo.
Con questi 48, salgono a
quasi 150 i migranti morti nel Sahara nell’arco di un mese circa, dalla fine di
maggio ai primi di luglio. Quelli “accertati”, perché potrebbero essere anche
di più, come sembrano confermare numerosi profughi che, arrivati in Libia, hanno
raccontato di aver notato dei cadaveri abbandonati lungo le piste. Il 25 maggio
i corpi di 51 giovani, in maggioranza uomini ma anche diverse donne, sono stati
trovati a nord di Agadez, nella regione di Bilma, in Niger, su indicazione di
alcuni compagni che erano andati in cerca di aiuto e sono stati intercettati
casualmente da una pattuglia di soldati nigerini. Facevano parte di un gruppo
di 76 migranti partiti da Agadez su due pick-up, per raggiungere la frontiera
libica e poi – come hanno raccontato i superstiti – abbandonati dai trafficanti
nel cuore del Sahara. Poco dopo i soccorsi è morto per disidratazione anche uno
dei 25 giovani incontrati dai militari, sicché le vittime risultano in tutto
52. Due settimane prima, il 31 maggio, erano morti di sete e di stenti altri 44
migranti, partiti anche loro da Agadez e rimasti bloccati un centinaio di
miglia prima della frontiera libica per un guasto del camion su cui erano stati
stipati dai trafficanti. Anche in questo caso la scoperta della strage è stata
casuale, dopo che sei giovani del gruppo, tra cui una donna, sono riusciti a
raggiungere a piedi il villaggio di Achegour, dove hanno dato l’allarme,
segnalando che decine di loro compagni erano rimasti indietro, in un punto
imprecisato del deserto.
Tragedie di questo genere
sono sempre più frequenti a sud del confine sahariano della Libia o
dell’Algeria. Un rapporto dell’Oim pubblicato il 30 giugno a Niamey segnala che
nei tre mesi precedenti, cioè dall’inizio di aprile, “oltre 600 migranti
partiti dall’Africa Occidentale alla volta dell’Europa sono stati salvati nel
deserto del Niger, dove erano stati abbandonati dai trafficanti”. Salvataggi
effettuati sempre in condizioni estreme e solo grazie a circostanze fortuite.
Come quello di un gruppo di oltre 50 giovani subsahariani trovati casualmente,
quando erano ormai allo stremo, su una pista molto poco battuta, da una
pattuglia dei reparti militari nigerini incaricati della vigilanza nel deserto.
Lo stesso è accaduto, il 16 giugno, per un gruppo ancora più numeroso, oltre
100 persone, provenienti dall’Africa Occidentale, partite da Agadez su una
colonna di pick-up e scaricate dai trafficanti, sotto la minaccia delle armi,
dopo circa due giorni di viaggio, in un punto sperduto nel nulla: ancora poche
ore – hanno dichiarato i medici dell’ospedale di Agadez – e si sarebbe compiuto
l’ennesimo massacro.
Di episodi analoghi sono
rimasti vittime schiere di richiedenti asilo intrappolati tra il confine
blindato del Marocco e quello dell’Algeria. L’ultimo caso, nel mese di maggio,
è quello di una quarantina di siriani arrivati in qualche modo ad Algeri e che
hanno poi cercato di varcare il confine per potersi imbarcare per l’Europa
sulla costa marocchina oppure chiedere asilo a Ceuta o a Melilla, le due
enclave spagnole nel Nord Africa. Erano intere famiglie, con donne e bambini,
ma le guardie di frontiera sono state irremovibili nel respingerle, isolandole
nella terra di nessuno tra le due linee di confine.
Non ci vuole molto a
concludere che questa escalation di morte registrata negli ultimi mesi deve
essere legata alla blindatura della frontiera meridionale della Libia, in pieno
deserto, d’intesa con Egitto, Sudan, Ciad e Niger, sulla scia degli accordi
stipulati con l’Unione Europea e in particolare con l’Italia, per il controllo
dei flussi migratori dall’Africa Orientale e subsahariana. Lo stesso vale per
l’Algeria e il Marocco. Ne ha parlato esplicitamente don Mussie Zerai,
presidente dell’agenzia Habeshia, nel suo intervento alla sessione del
Tribunale Permanente dei Popoli (Tpp), convocata a Barcellona il 9 luglio.
“Dopo le intese raggiunte con la ‘Fortezza Europa’, che ha esternalizzato le
sue frontiere in pieno Sahara – ha detto – le polizie degli Stati subsahariani,
in particolare quelle del Niger, del Ciad e del Sudan, hanno intensificato i
controlli su tutte le principali strade o piste che conducono verso il confine
con la Libia o l’Algeria. Vengono tenuti sotto stretta sorveglianza i pozzi e i
possibili punti di rifornimento d’acqua e di cibo, inclusi i villaggi più isolati.
Per sottrarsi a questi check-point o alle pattuglie mobili, gli autisti dei
convogli o dei singoli pick-up su cui viaggiano i migranti, scelgono le vie più
insolite, spesso note soltanto a pochi contrabbandieri. Basta il minimo
incidente, allora, per trasformare la fuga in tragedia. Quando addirittura,
come accade a quanto pare sempre più spesso, non sono gli stessi trafficanti ad
abbandonare in pieno deserto i loro ‘clienti’, per il timore di incappare in
qualche reparto di soldati o per le difficoltà che prevedono in prossimità o al
passaggio della linea di confine”.
Conferma questa analisi la
situazione del Sudan, dove il Processo di Khartoum, firmato a Roma nel novembre
2014, è stato integrato dal patto di polizia sottoscritto il 3 agosto 2016 tra
il prefetto Gabrielli e il suo omologo sudanese. Il presidente Omar Al Bashir,
sotto accusa di fronte alla Corte internazionale dell’Aia per le stragi nella
regione del Darfur, ha affidato il compito di “gestire” i flussi di migranti
alla Forza di Intervento Rapido, le milizie tristemente note come “diavoli a
cavallo”, le stesse che hanno fatto terra bruciata proprio nel Darfur e che ora
operano lungo la frontiera con l’Egitto e con la Libia. In pochi mesi il
confine è stato blindato e migliaia di profughi, soprattutto eritrei ma anche
sud sudanesi, sono stati bloccati, arrestati e gettati in carcere in attesa di
essere rimpatriati contro la loro volontà. Lo hanno rivelato gli stessi
rapporti periodici pubblicati dai vertici della milizia a partire dal
maggio/giugno del 2016. E il muro, stando ai dati degli sbarchi, funziona bene:
negli anni passati i profughi eritrei erano tra i più numerosi a sbarcare in
Italia, mentre quest’anno ne sono arrivati finora solo poco più di 2.000. La
maggior parte, evidentemente, è bloccata in Etiopia, in Egitto ma soprattutto
in Sudan (strada obbligata, direttamente o indirettamente, per chi fugge
dall’Eritrea), con il rischio costante di un rimpatrio forzato.
Nessuno in Italia, al
momento di stipulare questi accordi con Khartoum, si è posto il problema che,
per ogni profugo eritreo, un rimpatrio forzato significa essere riconsegnato
nelle mani della dittatura da cui ha cercato di scappare. Ovvero, galera,
persecuzioni e anche peggio. La sorte a cui sono condannati i migranti “al di
là del muro”, del resto, sembra davvero l’ultima preoccupazione per l’Unione
Europea e per i singoli governi Ue, a cominciare dall’Italia. A parte il “caso
Eritrea”, infatti, è nel caos tutta la vasta, enorme regione a cavallo della
barriera fortificata che si sta costruendo nel cuore del Sahara: il Sud della
Libia e tutti i paesi confinanti, a cominciare dal Niger, dove si prevede di
realizzare il più vasto e importante hub di concentramento e smistamento dei
profughi in Africa. E’ eloquente quanto scrive Giordano Stabile, inviato del
quotidiano La Stampa: “Conflitti
tribali e lotta per l’arricchimento hanno creato una terra di nessuno che
abbraccia la Libia meridionale, il Nord del Ciad e del Niger, l’Est del Sudan,
il Darfur. Sono tutte regioni investite da guerre civili e che hanno anche
altri due fattori in comune: il dominio dei Tebu, una popolazione africana in
continuo attrito con le tribù arabe e tuareg, e la presenza di centinaia di
piccole miniere d’oro che attirano immigrati dai paesi dell’Africa nera
confinante. Con il collasso della Libia e in parte anche di Sudan, Ciad e
Niger, la gestione del territorio è passata alle tribù Tebu, che non conoscono
confini e controllano i traffici. L’oro viene esportato attraverso le stesse
rotte dei trafficanti di uomini e di armi, verso il Nord, i porti libici, e poi
in Europa…”.
Ecco, l’Europa e in
particolare l’Italia, con il memorandum sottoscritto a Roma il 2 febbraio
scorso con il governo di Tripoli, stanno intrappolando i migranti in questa
terribile “terra di nessuno”. A prescindere dal destino che li attende. Non per
niente anche nelle ultime riunioni, prima a Parigi e poi a Tallin, nonostante
il tema dichiarato fossero “i migranti”, in realtà di tutto si è discusso meno
che dei problemi dei migranti. Si è parlato, cioè, solo di come respingerli e
non farli imbarcare: non dei loro diritti, della loro libertà, del rispetto
della loro volontà, delle situazioni di crisi che li costringono a scappare, della
sorte a cui vengono consegnati.
Tratto da: Tempi Moderni
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