di Emilio Drudi
Il vertice Ue di
Parigi di fine agosto ha approvato in pieno la politica italiana sul “blocco
dei migranti”. Il presidente francese Emmanuel Macron si è spinto ad affermare
che gli accordi tra Roma e la Libia volti a impedire altri sbarchi in Europa
vanno presi a modello. Giudizi analoghi sono venuti dal vicepresidente della
commissione europea Frans Timmerman in occasione del Forum di Cernobbio, una
settimana dopo. Era prevedibile. Parigi ha rappresentato il sigillo finale per
il programma di respingimento inaugurato dall’Unione Europea oltre dieci anni
fa ed attuato in più fasi, con l’obiettivo di esternalizzare i confini della
Fortezza Europa, spostandoli il più a sud possibile e affidandone la custodia a
Stati terzi, in Africa o nel Medio Oriente.
La prima fase è
stato il Processo di Rabat, firmato dalla Ue e da 27 Governi del versante
occidentale dell’Africa nel 2006 ed ormai entrato pienamente a regime. E’
l’accordo che ha praticamente chiuso la rotta del Mediterraneo occidentale, dal
Marocco verso la Spagna, dirottando i flussi dei migranti verso altre vie di
fuga. La seconda tappa si è concretizzata grazie all’intesa sottoscritta con la
Turchia nel marzo 2016. Sulla scia dei trattati di Malta (novembre 2015), che
prevedono di fermare i profughi in mare o prima dell’imbarco e di rimandare
indietro quelli che sono riusciti ad arrivare in Europa, Ankara, in cambio di 6
miliardi di euro, ha sbarrato il Mediterraneo Orientale, la via più battuta nel
2015, con circa 850 mila arrivi in Grecia. Rimaneva aperta, a questo punto,
solo la rotta del Mediterraneo Centrale, dalla Libia e dall’Egitto verso
l’Italia. Ora si è chiusa anche questa, attuando in sostanza il Processo di
Khartoum, l’accordo simile al Processo di Rabat che, fortemente voluto dall’Italia
e sottoscritto nel novembre 2014, è entrato lentamente ma progressivamente a
regime grazie a tutta una serie di patti bilaterali stretti tra l’Italia e vari
Stati africani: l’atto conclusivo, quello che ha sancito il blocco definitivo
anche di questa via di fuga, è stato il
memorandum firmato con la Libia di Fayez Serraj il 2 febbraio scorso. Non a
caso, insieme a Francia, Germania, Spagna e Italia, al vertice di Parigi
c’erano rappresentanti della Libia, del Niger e del Ciad, gli Stati ai quali è
appaltato in concreto il compito di fermare i richiedenti asilo prima ancora
che arrivino alle sponde del Mediterraneo.
La giustificazione
addotta da Parigi, Berlino, Madrid e Roma è che si sarebbe di fronte a una
autentica “invasione” che l’Europa non è in grado di sostenere: verranno
accolti – si è detto – soltanto coloro che fuggono da guerra e persecuzioni
mentre le porte dovranno restare chiuse per i “migranti economici”. A leggere i
dati senza pregiudizi, però, non si profila alcuna invasione. Quest’anno, fino
al 31 agosto, sono arrivati in Europa 129.446 migranti, pari allo 0,02 per
cento della popolazione dell’intera Ue. La maggior parte, poco più di 98 mila,
sono sbarcati in Italia ma si tratta ugualmente di una cifra più che
sostenibile (lo 0,16 per cento della popolazione italiana) e facilmente
gestibile con un adeguato sistema di accoglienza, sia su base nazionale che
europea. E’ chiaro, insomma, che parlare di “invasione” non ha senso. A meno
che non si voglia alimentare un clima isterico di allarme.
Del tutto
pretestuosa appare anche la distinzione tra “perseguitati” in fuga dalla guerra
e “migranti economici”. E’ difficile capire, infatti, perché mai morire di fame
o travolti dalla carestia dovrebbe essere molto diverso dal morire ammazzati
dagli sgherri di un dittatore o sotto le bombe di una guerra. Quella della
stragrande maggioranza delle donne e degli uomini che si rivolgono all’Europa è
una “fuga per la vita”: questa è la realtà, anche se a Parigi, per l’ennesima
volta, le cancellerie europee non hanno voluto vederla.
Non solo. Con
l’ultimo giro di vite attuato da Roma, il blocco riguarda tutti, anche i
richiedenti asilo che a parole l’Europa si dice disposta ad accogliere perché
“in fuga dalla guerra”. Migliaia di donne, uomini, ragazzi nei confronti dei
quali si stanno attuando sistematicamente dei respingimenti di massa,
effettuati per mano della polizia libica, sudanese, egiziana, ciadiana,
nigerina. Confinati in Libia o in pieno Sahara, nessuno di loro ha la
possibilità di presentare una richiesta di asilo. A Parigi, rilanciando una
promessa fatta ormai tante volte da essere ormai inflazionata, si è detto che
saranno previsti in Africa hot spot dove esaminare la posizione di ogni singolo
richiedente asilo. Ma non si è spiegato in alcun modo dove e come questi hot
spot dovrebbero essere realizzati, in che tempi, sotto quale gestione, con
quali garanzie di sicurezza, tutela e condizioni di vita dignitose. Finora si è
pensato solo a respingere e basta. Quanto a tutto il resto, in concreto non c’è
nulla. Nemmeno per chi scappa, ad esempio, dalla dittatura eritrea (associata,
peraltro, nel Processo di Khartoum), dalle stragi del Sud Sudan, dai massacri
del Darfur in Sudan, dal caos ultraventennale della Somalia, dallo Yemen
sconvolto da una guerra che colpisce indiscriminatamente e sistematicamente
anche obiettivi civili come ospedali e scuole e da una micidiale epidemia di
colera. O, ancora, nemmeno per chi ha dovuto abbandonare il Mali, dove la
guerra iniziata con la rivolta tuareg nel 2012, non è mai davvero finita e
segna anzi una nuova escalation. Oppure, per chi cerca scampo dalla ferocia
delle bande di Boko Haram in Nigeria.
Niente di niente. Da
mesi sono tutti respinti indiscriminatamente. E si vanta il risultato che anche
sulla rotta del Mediterraneo Centrale il flusso ora è in calo. Ma quanti di
questi “respinti” sono morti o stanno morendo intrappolati in Libia o nel
Sudan? Quanti sono ormai spariti nell’orrore dei lager libici o sudanesi?
Quanti sono stati riconsegnati ai miliziani o alla polizia che opera spesso in
combutta con i trafficanti? Quanti sono stati rimessi nelle mani delle
dittature da cui sono fuggiti? Nessuno lo saprà mai con esattezza. Il quadro si
sta però già delineando almeno in parte grazie alle testimonianze che
cominciano a filtrare. Sono sempre più numerosi gli eritrei della diaspora, ad
esempio, che ricevono richieste di aiuto da fratelli, familiari, amici bloccati
dalla Guardia Costiera libica e rimessi spesso nei centri di detenzione dove,
prima di imbarcarsi, hanno subito ogni genere di maltrattamenti, fino a vere e
proprie torture. “E’ una situazione terribile – denuncia Abraham, a nome del
Coordinamento Eritrea Democratica – si tratta di migliaia di persone che in
Europa non possono più arrivare, che in Eritrea non possono tornare per non
cadere in balia della dittatura messa sotto accusa dalla loro stessa fuga e che
sono costrette, dunque, a restare nel caos della Libia, in quei centri di
detenzione descritti da decine di rapporti come autentici gironi infernali.
Persone che, oltre tutto, non hanno più neanche un soldo per cercarsi altre vie
di fuga o persino per sopravvivere: abbiamo notizia di madri costrette a
elemosinare per cercare di sfamare i propri bambini…”. Appelli analoghi
arrivano dal Sudan, dove vengono segnalati centinaia di giovani gettati in
carcere dalla polizia in attesa del rimpatrio forzato in Eritrea.
I protagonisti del
vertice di Parigi non possono non essere al corrente di tutto questo. Ma non ne
sembrano impressionati. Appellandosi al fatto che comunque la maggioranza dei
richiedenti asilo sarebbe formata da “migranti economici”, se la sono cavata
promettendo che verranno messe in campo politiche di sostegno e sviluppo nei
paesi d’origine “sicuri”. Ma cosa si intenda per “paesi sicuri” lo dimostra il
ricatto fatto dalla Ue all’Afghanistan nell’ottobre 2016, quando Kabul è stata
costretta ad accettare il rientro di 80 mila profughi in cambio dei 3,5 miliardi
di euro promessi da tempo per la ricostruzione del paese. Ecco, una delle
giustificazioni addotte da Bruxelles era che tutto sommato l’Afghanistan
sarebbe ormai “sicuro”. Peccato che pochi giorni dopo un rapporto dell’Onu
abbia definito il 2016 l’anno peggiore e con il più alto numero di vittime
civili dall’inizio della guerra nel 2001. I dati degli ultimi cinque anni sono
eloquenti: 7.590 vittime civili tra morti e feriti nel 2012 e poi, via via,
8.638 l’anno successivo, 10.535 nel 2014, oltre 500 di più, 11.034, nel 2015
per arrivare poi a 11.418 (di cui 3.498 morti e 7.920 feriti) nel 2016. E nel
2017 il trend è ancora spaventoso: 5.243 vittime fino al 30 giugno, con 1.662
morti e 3.581 feriti. Non a caso, dall’inverno scorso, di fronte alla
prospettiva di essere costretti a rimpatriare, si sono moltiplicati i suicidi
tra i giovani profughi afghani. Ha suscitato grande eco, ad esempio, la
sequenza di ben sette casi in pochi giorni in Svezia, nel mese di febbraio.
L’ultimo caso si è verificato in questi giorni in Italia, a Milano.
Non solo. Mentre
promettono interventi per “aiutare i migranti a casa loro”, Parigi, Berlino,
Roma e Madrid fingono di ignorare che gran parte delle situazioni di crisi,
guerre, carestie, fame endemica da cui quei migranti fuggono sono provocate
proprio dalle scelte fatte dalle cancellerie europee e occidentali in genere.
Per aiutare davvero i migranti “a casa loro” sarebbe necessario cambiare
totalmente la politica del Nord nei confronti del Sud del mondo. Un segnale
concreto in questo senso potrebbe essere, ad esempio, un “piano Marshall” per
l’Africa. Ma, per ammissione degli stessi vertici Ue, non ce n’è traccia. E
ognuno degli Stati presenti a Parigi persegue in Africa e nel Medio Oriente
politiche che obbediscono a propri, precisi interessi economici e
geostrategici, assai spesso in armonia con i governi dai quali i migranti
fuggono. Governi che sono non di rado vere e proprie dittature ma anche sistemi
di democrazia formale i cui leader, però, sono in realtà lontanissimi dalla
gente, élites che hanno privatizzato o addirittura patrimonializzato lo Stato e
le sue istituzioni ad ogni livello, per il proprio interesse personale o di
clan, condannando la popolazione ad un limbo senza prospettive e ricorrendo magari
alla violenza contro chi tenta di ribellarsi.
E’ questo il punto.
L’Europa, il continente più ricco del mondo, pretende in sostanza che il
problema dei profughi sia scaricato sui paesi di transito e prima sosta. Così
urla all’invasione per alcune decine di migliaia di sbarchi, che sono un’inezia
di fronte, ad esempio, al milione e passa di profughi ospitati in Uganda, il
milione e 200 mila rifugiati in Libano, gli oltre 900 mila accolti in Etiopia,
le centinaia di migliaia del Kenya. E sulla scia di questa isteria ha deciso di
arroccarsi come in una fortezza di fronte ai disperati che bussano alle sue
porte in cerca di aiuto. C’è chi dice, riferendosi alle ultime scelte del
governo italiano, che adesso almeno si prospetta una “gestione del problema”,
largamente approvata a livello europeo. Può essere vero: da qualche mese è più
netta e decisa la “gestione” condotta da Roma. Ma è una gestione costruita
sulla pelle, anzi, sulla vita stessa dei migranti. D’intesa con Bruxelles. In
tutti i vertici europei degli ultimi anni, infatti, anche se il tema erano i
migranti e i rifugiati in realtà non si è mai parlato di migranti e rifugiati.
Non si è cercato di capire chi sono, da quali condizioni fuggono e perché, come
sottrarli al ricatto dei trafficanti magari istituendo canali legali di
immigrazione, come adeguare i sistemi di accoglienza alle esigenze che si sono
profilate. E meno che mai si è deciso di verificare se i criteri per la
concessione dell’asilo o di altre forme di tutela internazionale siano ancora
adeguati o vadano invece rivisti e ampliati alla luce dei nuovi problemi emersi
nel tempo: ad esempio, per i migranti ecologici e ambientali o magari per le
vittime degli effetti devastanti del land grabbing, la rapina delle migliori
terre coltivabili da parte di grandi società sovranazionali, che ha
moltiplicato gli effetti della carestia in molti paesi, riducendone la capacità
di produrre per il fabbisogno alimentare interno della popolazione.
Nulla di tutto
questo. Si è sempre e solo discusso di come fermarli, i migranti, prima che
possano arrivare in Europa. L’incontro di Parigi non si è sottratto a questa
regola. Allora quell’ipocrita “aiutiamoli a casa loro” suona piuttosto come un
“aiutiamoli a morire a casa loro”. Ignorando i fondamenti della nostra
democrazia. Già, la nostra democrazia. Il ministro Marco Minniti è arrivato a
dichiarare di aver temuto che la “crisi dei migranti” potesse mettere a rischio
la tenuta democratica del Paese: è da questo timore che sarebbero state dettate
le misure di chiusura e respingimento adottate. E’ vero: la nostra democrazia,
i principi del nostro “stare insieme”, sono a rischio. Ma non per la pretesa
invasione di migranti, come sostiene Minniti. Sono a rischio proprio per i
provvedimenti presi negli ultimi anni da Roma e da Bruxelles, calpestando i
diritti umani più elementari e i valori di libertà, uguaglianza, solidarietà,
giustizia che sono la base della Costituzione Repubblicana e dell’idea stessa
di Europa.
Tratto da: Tempi Moderni
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