Agenzia Habeshia. Comunicato
stampa
L’Unione Europea,
attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa, finanzierà un primo progetto da 20
milioni di euro per la ricostruzione delle strade che collegano l’area di
confine con l’Etiopia ai porti di Massawa e Assab. Lo ha comunicato il
commissario Ue per la cooperazione internazionale, Neven Mimica, incontrando
prima il premier etiope Abyi Ahmes ad Addis Abeba e poi il presidente Isaias
Afewerki ad Asmara.
“L’unione Europea –
ha specificato Mimica, secondo quanto riferiscono vari organi di stampa etiopici
– è impegnata a sostenere Eritrea ed Etiopia nel mettere in atto il loro
storico accordo di pace, che ha messo fine a venti anni di conflitto. Per farlo
siamo pronti a lanciare un programma da 20 milioni di euro per costruire le
strade che collegano i due Paesi. Questo consentirà di rafforzare i commerci,
di consolidare la stabilità e di portare chiari benefici ai cittadini di
entrambi i Paesi con la creazione di una crescita stabile e di posti di
lavoro”.
Va da sé che è da
considerare positivo ed, anzi, una conquista, tutto quello che va nella
direzione di rafforzare la pace, dopo una guerra disastrosa, costata tra 80 e
100 mila morti. Ma è difficile pensare a una vera pace, in Eritrea, senza
componenti essenziali, vitali, come il rispetto pieno della libertà e dei
diritti, Senza, cioè, una vasta operazione di verità e giustizia su quanto è
accaduto negli ultimi vent’anni nel paese: una sorta di resa dei conti pacifica
ma radicale, che evidenzi le gravi responsabilità del regime e ne consenta il
superamento. Perché il vero problema, in Eritrea, prima ancora che la guerra, è
sempre stato ed è tuttora il regime. Il quale, anche dopo la firma della pace
con l’Etiopia, non ha mosso un solo passo verso la democrazia ma, anzi, ha
presentato la fine della guerra come una
propria vittoria, traendone elementi per rafforzarsi. Senza cambiare nulla.
Senza, cioè, che nulla sua cambiato nella vita del popolo eritreo.
L’apertura di
fiducia “al buio” in atto negli ultimi tempi, nei confronti di Asmara, ad opera
di gran parte della comunità internazionale e soprattutto dell’Unione Europea,
offre a quella che è sempre stata considerata una delle più feroci dittature
del mondo, ulteriori elementi per rafforzarsi e mostrare un cambiamento che in
realtà non c’è. Se non saranno vincolati a precise, attente garanzie, rischiano
di andare nella stessa direzione anche progetti come quello annunciato dal
commissario Neven Mimica: un favore al regime, che ne trarrà forza e
legittimazione.
Con questo, non si
vuole affermare, ovviamente, che i progetti proposti non debbano essere
attuati. Al contrario. Il punto, però è il “come”. Si parla, in particolare,
della prospettiva che l’attuazione dei progetti annunciati possa “creare una
crescita stabile e posti di lavoro”. In Eritrea, però, per lavori di questo
genere – cantieri stradali, edilizia, miniere, ecc. – vengono impiegati i
soldati di leva e i fondi, di fatto, sono incassati dal
regime. E’ lo Stato stesso, cioè, a fornire la manodopera con i soldati del
cosiddetto Servizio Nazionale. Teoricamente dovrebbero percepire un salario di
circa 4 mila nakfa al mese (poco più di 200 euro) ed è questa, in effetti, la
cifra teorica che compare sulle buste-paga che i militari sono costretti a
firmare. Nella realtà, però, quella cifra si riduce a soli 400 nakfa, appena il
10 per cento. Il resto lo trattiene lo Stato. L’Unione Europea, allora, se non
vigilerà attentamente su come verranno gestiti i cantieri e la manodopera,
rischia di rendersi complice di questo sfruttamento che rasenta il lavoro
schiavo.
Ben vengano, allora,
questo progetto appena annunciato dal commissario Neven Mimica ed altri
progetti simili, ma alla precisa, rigida, radicale condizione che sia l’Unione
Europea stessa a controllare, con propri ispettori autonomi, sia la conduzione
dei cantieri e l’avanzamento dei lavori, sia la scelta, la gestione e il
trattamento del personale e della manodopera a tutti i livelli. Ispettori, ben
inteso, liberi di muoversi e incontrare chiunque vogliano, con la massima
riservatezza e la massima tutela delle persone eventualmente contattate. Ed
appare ovvio, in questo contesto, che la prima, inderogabile condizione da
porre è la libertà da ogni obbligo militare per tutto il personale impiegato
nella progettazione e nei cantieri (tecnici, operai, manovalanza, ecc.).
Quello annunciato,
con 20 milioni di investimenti, ha una valenza economica tutto sommato non di
grande portata. Ma può diventare un capitolo importante per mettere alla prova
il regime e cominciare davvero a muovere qualche passo verso la libertà e il
rispetto dei diritti in Eritrea. Qualche primo passo verso quel cambiamento di
cui finora non si è vista traccia e che in realtà il regime non vuole, conscio
com’è che ogni passo verso il cambiamento ne accelera la fine. Sta all’Unione
Europea decidere se vuol stare al gioco delle finte aperture mostrate dalla
dittatura o se invece vuole schierarsi con quella “nuova Eritrea” a cui
guardano milioni di donne e uomini, dentro e fuori dal paese.
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