di Emilio Drudi
Sei mesi fa la
tragedia di Lampedusa: 380 profughi morti, trascinati in fondo al mare nel
naufragio del vecchio barcone con cui avevano sperato di raggiungere la libertà
in Europa. Erano quasi tutti eritrei. Una sciagura assurda, avvenuta a 800
metri dalla riva. Il mondo intero si è commosso per queste centinaia di vite
spezzate e di storie interrotte, in maggioranza di donne e bambini, a due passi
dalla salvezza. Lacrime, dolore, impegni da parte di governi e politici
italiani ed europei. Tutti d’accordo nel dire che dopo Lampedusa nulla sarebbe
stato più come prima. Una delle poche che ha riportato tutti alla realtà,
diffidando del coro di promesse, è stata Giusi Nicolini, il sindaco-donna
dell’isola, quando, alle parole di cordoglio che il premier Enrico Letta le
aveva fatto pervenire da Roma, ha risposto senza mezzi termini: “Venga qui a
contare i morti con me…”. Come a richiamare il Governo, lo Stato stesso, alle
sue pesanti responsabilità, per quella che era una strage preparata anche dalle
politiche sull’immigrazione adottate dall’Italia e dall’Europa.
Quella coraggiosa
frustata del sindaco ha avuto il merito di scuotere le coscienze di molti.
Passata l’eco dei primi giorni, però, non della politica e delle istituzioni.
Se ne è avuta la prova già un mese dopo quando, disatteso l’impegno di
celebrare funerali di Stato, le salme sono state sepolte nel corso di una
cerimonia organizzata in tutta fretta ad Agrigento. Tanto in fretta da apparire
quasi clandestina: buona parte dei corpi non erano stati ancora identificati e
non c’erano in pratica neanche i parenti e gli amici delle vittime: solo
pochissimi lo avevano saputo e si sono presentati, accompagnati da giovani
eritrei della diaspora. C’era, in compenso, contestatissimo come il ministro
dell’Interno Angelino Alfano, artefice di quella cerimonia, l’ambasciatore
eritreo, il rappresentante in Italia di quel governo di Asmara dal quale quei ragazzi
morti, uomini e donne, erano scappati per sottrarsi a guerra e persecuzioni.
Quel Governo che, se li avesse ripresi, li avrebbe gettati in carcere o anche
peggio e che non di rado, per scoraggiare gli espatri verso la libertà,
sottopone a rappresaglie i congiunti più stretti dei fuggiaschi. Da allora è
calato il silenzio. Nessuno si cura di quelle povere tombe le quali, anziché
obbedire a un gesto di pietà, sembrano piuttosto scavate per nascondere la
vergogna di una tragedia annunciata. Quasi per cancellarne la memoria stessa. E
infatti la memoria si va perdendo: resta viva, dolorosa come una ferita sempre
aperta, solo tra i familiari e gli amici delle vittime, che spesso non hanno
neanche una sepolcro, un corpo su cui pregare.
“A distanza di tanti
mesi – denuncia don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – ci sono
ancora centinaia di salme non identificate. E’ un altro dei tanti impegni presi
in quei giorni ma incomprensibilmente disattesi. Secondo quanto ci hanno
assicurato allora, a Roma come ad Agrigento, doveva essere la Croce Rossa a
prendersi cura di questo compito, procedendo rapidamente all’esame del Dna di
tutte le vittime senza nome. Nulla ancora è stato fatto. E’ passato già mezzo
anno, la politica è rientrata nella routine di sempre, gli sbarchi sono ripresi
a migliaia ed è tutto come all’indomani di quella frettolosa inumazione
collettiva”.
I familiari non si
rassegnano: “Noi continuiamo a chiedere rispetto allo Stato italiano. E’
cambiato il governo. Ora c’è un altro premier, ma c’è una continuità etica e
politica delle istituzioni, che non possono non assumersi la responsabilità
delle promesse che ci sono state fatte in quei giorni terribili di fine autunno
dello scorso anno. Per noi è un calvario. Per trovare una tomba dove pensiamo
ci sia uno dei nostri cari o un amico, sulla quale piangere, pregare o portare
un fiore, abbiamo soltanto un numero. Con quel numero impresso nella mente e
nel cuore, dobbiamo vagare da un posto all’altro, tra mille difficoltà e
incertezze. Bisogna dare al più presto un nome a quei morti. Non crediamo di
chiedere molto. E’ una questione di dignità: per i morti e per i vivi”.
Poi, la restituzione
delle salme alle famiglie. E’ un’altra delle promesse fatte in quell’ottobre di
dolore: avrebbe dovuto occuparsene il Governo a sue spese. Qualche parlamentare
si è spinto addirittura a ipotizzare un volo umanitario per riportare in
Eritrea tutte le vittime, con l’idea magari di inumarle insieme in un unico
sacrario, come insieme erano morte proprio nell’ultima tappa della loro lunga
fuga per la vita. Parole al vento. Il mancato riconoscimento è il primo
ostacolo. Ma non si è fatto nulla finora nemmeno per i morti che è stato
possibile identificare. Eppure padri, madri, mogli, fratelli hanno da tempo
inoltrato una richiesta formale alle istituzioni italiane, sia locali che
“romane”.
Don Zerai non sa
capacitarsene. “Questo aspetto – protesta, a nome delle famiglie e degli
eritrei della diaspora – è ancora più assurdo. Ci sono le richieste dei
congiunti, quei poveri morti sono stati identificati con certezza, ma è tutto
fermo. Intanto si è fatta avanti anche l’ambasciata eritrea di Roma, che punta
il dito contro il governo italiano per il mancato rientro delle salme. Si sta
arrivando al paradosso che Asmara, colpevole di aver costretto quei ragazzi a
scappare, assuma la veste di paladina delle sue stesse vittime. Anche per questo
servono risposte chiare da Palazzo Chigi. Ma subito. Non tra un mese, tra sei
mesi, tra un anno…”.
E’ uno sfogo di
getto. Poi, dopo una breve pausa, don Zerai riprende: “Non ha senso tutto
questo. Ma sono tante le cose che non hanno senso nel rapporto tra Roma ed
Asmara. Adesso queste fughe per la vita a cui i giovani eritrei sono costretti,
qualcuno le chiama ‘viaggi della speranza’. Lo conferma il tema di un convegno
convocato a Roma per il prossimo giugno: ‘Eritrea e Italia: dal colonialismo ai
viaggi della speranza. E’ un bel tema. Solo che tra i relatori, dunque tra i
protagonisti dell’incontro, figura anche l’ambasciatore eritreo Zemede Tekle
Woldetatios. Allora, se è vero, come è vero, che l’Eritrea è governata da una
dittatura con la quale tutte le cancellerie occidentali hanno chiuso i
rapporti, qualcuno mi deve spiegare il senso di questa iniziativa. L’Italia è
l’unico paese europeo che ha mantenuto aperta la sua ambasciata ad Asmara, su
richiesta specifica delle altre nazioni dell’Unione, per non chiudere tutti i
canali diplomatici. Questo è comprensibile. Ma non mi risulta che tra i suoi
compiti ci sia anche l’organizzazione di convegni in collaborazione con regimi
come quello di Isaias Afewerki. Così come, ad esempio, non ne organizza, per
quanto ne so, con la Corea del Nord. La responsabilità di un paese democratico
consiste anche nel combattere contro i sistemi tirannici che soffocano il loro
popolo. Qui invece si dà spazio a regimi che tentano di giustificare i soprusi
e mistificare i fatti. Mi lascia molto perplesso che il sindaco di Roma ospiti
e patrocini l’iniziativa. Proprio Marino, lo scorso ottobre, si è offerto di
ospitare per un certo periodo i superstiti di Lampedusa. Quasi tutti quei
giovani oggi non sono più a Roma e in Italia. Ma se fossero ancora qui,
sicuramente farebbero sentire la loro protesta. Anche a nome dei compagni che
non ce l’hanno fatta. Quei 380 uomini, donne e bambini sepolti ad Agrigento.
Spesso senza neanche la dignità di un nome”.
E senza che nessuno
abbia cercato eventuali responsabilità dirette di quella tragedia. C’è un altro
aspetto evidenziato dagli eritrei della diaspora, oltre che dall’agenzia
Habeshia: le due navi “fantasma” che avrebbero avvicinato il barcone in
difficoltà poco prima del naufragio, per poi allontanarsi a tutta forza, senza aiutare
quella “carretta” carica di umanità disperata e senza neanche segnalarne la
presenza alla Capitaneria di Porto o alle altre forze di polizia di Lampedusa,
per organizzare i soccorsi. Ne hanno parlato diversi superstiti, rilasciando
dichiarazioni giurate per la magistratura. Secondo il loro racconto, anzi, la
tragedia sarebbe la conseguenza diretta proprio della manovra di quelle due
navi, della stazza di una grossa motovedetta o di un rimorchiatore d’altura.
Vedendo infatti che stavano prendendo il largo dopo aver girato loro intorno e
pensando che non li avessero visti, alcuni profughi hanno dato fuoco a un
telone intriso di benzina, provocando un incendio che ha spinto le centinaia di
uomini e donne che erano in coperta a spostarsi tutti insieme sul lato opposto
del barcone, provocandone il ribaltamento e il conseguente affondamento. E’ una
ricostruzione verosimile, ribadita più volte in deposizioni ufficiali. Ma, per
quanto è dato sapere, in questi sei mesi non è mai stata aperta un’inchiesta
formale. Quelle due navi comparse all’improvviso nell’oscurità restano
misteriose come fantasmi. Eppure ricostruire la verità sarebbe il modo migliore
per onorare davvero la memoria di quei 380 profughi.
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