di Emilio Drudi
Afewerki è un
ragazzo di Asmara. Ha lo stesso nome del dittatore che opprime il suo paese.
Forse per questo, non solo perché è più “facile”, ora che è in Italia ha
chiesto agli amici di chiamarlo Tony. E’ passato anche lui da Lampedusa,
arrivando dalla Libia, al termine di una fuga avventurosa. Non era sul barcone
che è affondata, giusto sei mesi fa, a poche centinaia di metri dall’isola,
portando con sé in fondo al mare oltre 380 profughi, quasi tutti eritrei come
lui, con tantissime donne e bambini. Ha conosciuto, però, parecchi dei superstiti
e ne ha raccolto i racconti drammatici, condividendone la pena. Ora vive in un
centro di accoglienza siciliano, in attesa che finalmente la commissione
ministeriale si decida ad esaminare la sua domanda di asilo. E’ andato almeno
un paio di volte ad Agrigento, a pregare sulle tombe di quei giovani disperati
che la morte ha strappato al loro sogno di libertà, quando già erano a un passo
dalla salvezza. A pregare, ma anche a ricordare e a riflettere. “In quei giorni
di dolore – dice – sono state fatte mille promesse. Tutti prendevano impegni. Parlavano
di coscienza. Dicevano che dopo Lampedusa nulla sarebbe più stato come prima. Che
l’Italia e l’Europa non potevano non farsi carico della tragedia dei profughi.
E invece tutto è ancora come prima. Ci si è già dimenticati. Dei morti e dei
vivi…”.
Già, a sei mesi dal
disastro quasi nessun impegno è stato mantenuto. Né per i morti, né per i vivi.
Proprio come dice Tony-Afewerki.
I morti. Erano stati
promessi funerali di Stato e lutto nazionale. E poi la restituzione delle salme
ai familiari, a spese del nostro governo. Qualche parlamentare si è spinto
addirittura a ipotizzare un volo umanitario per riportare in Eritrea tutte le
vittime, con l’idea magari di seppellirle insieme in un unico sacrario, come
insieme erano morte proprio nell’ultima tappa della loro lunga “fuga per la
vita”. Le promesse mancate sono iniziate da lì. Niente funerali di Stato,
niente restituzione delle salme. Solo una cerimonia frettolosa ad Agrigento,
praticamente senza neanche la presenza di parenti e amici. In compenso c’era
l’ambasciatore eritreo, il rappresentante in Italia di quello Stato dal quale
quei giovani, uomini e donne, erano scappati per sottrarsi a guerra e
persecuzioni. Quello Stato che, se li avesse ripresi, li avrebbe gettati in
galera o anche peggio e che non di rado, per scoraggiare gli espatri, sottopone
a rappresaglie i congiunti più stretti dei fuggiaschi. Da allora è calato il
silenzio. Nessuno si cura di quelle povere tombe scavate in tutta fretta, quasi
a nascondere la vergogna di una tragedia annunciata: una mattanza provocata
anche dall’assurda, colpevole politica italiana che, blindando a riccio i
confini, consegna di fatto migliaia di profughi e migranti in cerca di
protezione ai trafficanti di uomini. A quei mercanti di morte che continuano ad
arricchirsi organizzando la traversata del Sahara e del Mediterraneo verso
l’Europa: solo nei primi tre mesi di quest’anno hanno fatto sbarcare sulle
coste siciliane circa 10 mila altri disperati.
Ecco, i vivi. Anche
nei loro confronti non è cambiato nulla in questi sei mesi. I confini restano
blindati e, grazie ai trattati bilaterali siglati prima da Berlusconi (2009),
poi da Monti (2012) e infine da Letta (2013), la sorveglianza continua ad
essere affidata alla Libia. La Libia che non ha mai firmato la convenzione di
Ginevra sui diritti di rifugiati e migranti e tratta da criminali tutti coloro
che ne varcano la frontiera senza documenti. La Libia dei centri di
detenzione-lager, dove i profughi sono costretti a condizioni di vita
spaventose, in balia di carcerieri che li tormentano con mille angherie,
umiliazioni, soprusi, violenze, stupri. La Libia dove si è sviluppato un
autentico business del dolore: una catena di arresti e di taglie per la
scarcerazione, che è diventata una delle principali fonti di finanziamento per
gruppi di miliziani ribelli o per clan di banditi dai sistemi mafiosi. La Libia
disgregata e, secondo molti osservatori, sull’orlo di una frantumazione
“balcanica”, sotto la spinta di formazioni separatiste sempre più forti.
Basterebbe anche uno solo di questi fattori per mettere in discussione e
revocare il trattato bilaterale inaugurato quasi cinque anni fa. Invece no.
Nessuno in Italia lo contesta quel trattato. Anzi, si continua a cercare di
“spostare” sempre più a sud il confine blindato dell’Italia e dell’Europa. Con
Berlusconi e Monti è stato portato di fatto sulle coste africane; con Letta si
è cominciato a parlare di chiudere anche la frontiera meridionale della Libia,
in pieno Sahara, come ha promesso a Roma, nel luglio dello scorso anno, Alì
Zeidan, il premier di Tripoli ora deposto. Senza curarsi delle conseguenze
drammatiche di questa scelta.
“Si è creato un
circolo vizioso – denuncia don Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – Appena
sono catturati mentre cercano di varcare il confine sahariano o in una
qualsiasi delle province libiche, per i miliziani o i poliziotti corrotti i
profughi diventano ‘merce’ da sfruttare nel traffico di esseri umani. Il primo
passo è la taglia pretesa per lasciarli andare, in genere non meno di mille
dollari. Per chi non paga c’è una detenzione fatta di pestaggi, torture,
minacce. Una volta fuori, l’odissea non finisce. C’è sempre il rischio di
essere catturati da una banda diversa. Chi arriva alla costa, poi, precipita
nel giro degli scafisti. Spesso, anzi, c’è un collegamento diretto: sono gli
stessi miliziani del carcere a indirizzare verso un particolare clan di
scafisti. Inizia così il secondo ricatto: mille, duemila dollari, ma anche di
più, per la traversata del Canale di Sicilia, sempre col pericolo di finire di
nuovo in carcere se si viene sorpresi dalla polizia sul litorale o la barca
viene intercettata dalla guardia costiera di Tripoli dopo la partenza. E per
chi torna in carcere il sistema di ricatti ricomincia. Quasi all’infinito.
Eppure in Italia si continua a tacere su tutto questo”.
A tacere e a
perpetuare l’accordo bilaterale. Il neopremier Matteo Renzi sembra guardarsi
bene dal rottamarlo. Non ne ha neanche fatto cenno. Come non ha detto una sola
parola concreta su una eventuale nuova politica di accoglienza per i rifugiati
e, più in generale, sull’emigrazione. Peggio: ha abolito persino il ministero
dell’integrazione che, introdotto da Monti, si è mosso tra mille incertezze e
contraddizioni, ma era comunque un segnale importante di cambiamento e di una
sensibilità diversa rispetto al passato.
Rischia di rivelarsi
un bluff anche la “revoca” del reato di clandestinità. Il governo Renzi si
vanta di averlo abolito. In realtà il Parlamento ne ha votato solo la
depenalizzazione nell’ambito del decreto svuota carceri, tramutandolo in
illecito amministrativo. Per abolirlo davvero Sel aveva presentato un
emendamento specifico, ma a favore hanno votato, oltre ovviamente a quelli di
Sel, soltanto i deputati grillini. “E tra l’altro – sottolinea Andrea Scanzi
sul Fatto Quotidiano – si tratta dell’ennesima legge delega che contiene di
tutto. Il Governo ha ora otto mesi di tempo per depenalizzare questo reato insieme
ad altri. Ma al momento non ha depenalizzato un bel nulla. E’ solo una
promessa. Un’altra delle tante”.
Resta bloccato anche
il vecchio sistema di accoglienza. Nulla per migliorare le condizioni di vita
nei vari centri di soggiorno e assistenza per i rifugiati. Nulla per abbreviare
le procedure di esame delle richieste di asilo. Anzi, proprio in questi giorni
il Ministero degli Interni ha parlato di “rischio collasso” o comunque ha
manifestato il timore che i tempi, che già ora arrivano mediamente a un anno,
possano addirittura raddoppiare. Mancano, si afferma, fondi e personale per
poter fronteggiare la prossima ondata di rifugiati che, secondo le stime, nel
2014 dovrebbe attestarsi attorno a 45-50 mila persone. Grossomodo come nel
2013. Ma sono stime al ribasso: da gennaio a fine marzo sono già sbarcati sulle
coste siciliane più di 10 mila uomini e donne, contro i mille circa dei primi
tre mesi dell’anno scorso. E, ancora, nulla si è fatto perché coloro che hanno
ottenuto una forma di protezione internazionale possano vivere dignitosamente
in Italia: restano abbandonati a se stessi, senza casa e condannati a diventare
braccia per il lavoro nero. Non persone destinate a ingrossare il “popolo degli
invisibili” che affollano palazzi in disuso occupati abusivamente, baraccopoli,
alloggi di fortuna.
Nulla, infine, dei
“corridoi umanitari” per favorire l’immigrazione regolare e sottrarre vittime ai
trafficanti di uomini. Se ne è parlato a lungo nei giorni immediatamente
successivi alla tragedia di Lampedusa. Un sistema da organizzare in
collaborazione tra Commissariato dell’Onu, ambasciate e consolati europei, in
modo da esaminare le richieste di asilo direttamente in Africa, nei paesi di
transito e di prima sosta dei fuggiaschi. Ovviamente trasformando gli attuali
campi profughi africani in centri di accoglienza vivibili, sotto il controllo
diretto dell’Onu stessa e dell’Unione Europea. Cessato il clamore della strage,
però, è calato il silenzio: il progetto è sparito dalla discussione politica.
Anzi, in diversi consolati si moltiplicano le difficoltà anche per rilasciare i
documenti di viaggio per i ricongiungimenti familiari, nonostante il Ministero
degli Interni abbia già concesso il nulla osta attraverso le prefetture delle province
di residenza dei congiunti in Italia. “E’ un atteggiamento incomprensibile –
denuncia l’agenzia Habeshia – Accade in Etiopia, in Sudan e in Uganda,
soprattutto nei confronti degli eritrei, in genere donne e bambini, giovani
madri con i figli piccoli o magari in stato di gravidanza”.
In compenso si
continua ad esaltare l’operazione Mare Nostrum: il pattugliamento del Canale di
Sicilia affidato a una flotta di navi da guerra. Mascherando il fatto che anche
questa è, in sostanza, una ulteriore blindatura dei confini, che costa dai 10
ai 12 milioni al mese e che prescinde dalla sorte dei profughi e dalle cause
che li hanno spinti a fuggire. L’ennesimo capitolo, insomma, di una visione
emergenziale del problema. Ecco, è proprio questo il punto. Quello dei profughi
è da anni un problema “strutturale” che si può risolvere solo con interventi
“strutturali”: nel breve periodo con un sistema di accoglienza più aperto ed
efficiente; nel medio e lungo periodo, cercando di eliminarne le cause
attraverso una politica diversa, più equa e più attenta ai diritti
fondamentali, da parte dei “potenti della terra” nei confronti del Sud del
mondo. E’ proprio questo il significato dell’appello lanciato da papa Francesco
a Lampedusa nel luglio scorso. Un appello che governi e politici di tutta
Europa, Italia in testa, hanno condiviso ed esaltato. Salvo dimenticarsene
appena è cessata l’eco degli applausi.
Nessun commento:
Posta un commento