mercoledì 4 marzo 2015

Sudan e Libia: profughi “regalati” a predoni e scafisti


di Emilio Drudi

Continuano ad arrivare a migliaia, nella loro “fuga per la vita”, da vari paesi sub sahariani e dal Corno d’Africa. In particolare dall’Eritrea. Sanno bene, questi profughi, uomini e donne per lo più molto giovani, spesso minorenni, che la Libia è ormai in preda al caos, totalmente fuori controllo. Non a caso l’hanno abbandonata in fretta e furia anche gli ultimi europei, incluso tutto il personale dell’ambasciata italiana, la sola rimasta aperta quando le varie cancellerie occidentali hanno deciso di smantellare le loro rappresentanze diplomatiche. E sanno altrettanto bene che tutto il percorso da affrontare, prima attraverso il Sahara sudanese e poi oltre il confine libico, è una terra di nessuno, dove disperati come loro sono facile preda di trafficanti di uomini, banditi senza scrupoli, clan tribali, miliziani pronti a spararti per un niente, poliziotti e militari corrotti, sia filo governativi che anti governativi. Ma non hanno scelta: quello che si lasciano alle spalle li spaventa più di tutto questo. Per avere una chance di vita e di libertà, quella di tentare comunque la sorte è una scelta obbligata. Anche se sono sempre di più a cadere lungo quello che dovrebbe essere un cammino della speranza.
L’agenzia Habeshia è uno dei pochissimi punti di riferimento rimasti a questi “ultimi tra gli ultimi”, come li ha definiti papa Francesco. Le notizie che continuano ad arrivare via cellulare a don Mussie Zerai e ai suoi collaboratori sono terribili. Le raccontano con voce rotta dal dolore e dalla paura gli stessi profughi o qualche loro familiare. Parlano di sequestri, ricatti, pestaggi, torture, violenze continue. Donne e uomini ridotti a una condizione di “res nullius”: schiavi, oggetti umani a disposizione di tutti, tenuti in vita spesso soltanto perché possono ancora essere scambiati e venduti. Merce su cui far soldi.
Il Sudan, in particolare, è diventato quello che fino a qualche anno fa era il Sinai: la base principale dei trafficanti di uomini che sequestrano, torturano, ricattano, minacciano chi non riesce a pagare di metterlo sul mercato degli organi per i trapianti clandestini. Tutto lascia credere, anzi, che proprio qui, in territorio sudanese, tra il confine con l’Eritrea e l’area di Shagarab, siano state trasferite le centrali operative dei Rashaida, la grossa tribù beduina che ha fatto un business enorme del traffico di profughi-schiavi. Esattamente con la stessa tecnica adottata alle soglie della frontiera con Israele, prima che fosse chiusa da Tel Aviv con una barriera invalicabile di cemento, filo spinato e sensori elettronici. Ci sono già state diverse segnalazioni nei mesi passati. In particolare per il rapimento, in almeno due riprese, di una trentina di giovani eritrei che stavano cercando di raggiungere Khartoum. Ora si ha notizia che la stessa sorte è toccata ad altri numerosi profughi, forse qualche decina: l’hanno denunciato i familiari di alcuni prigionieri, contattati al telefono per chiedere il riscatto, 10 mila dollari a testa.
“Il sequestro è avvenuto proprio sulla via di Shagarab – ha raccontato uno dei ragazzi catturati, lanciando una drammatica richiesta di aiuto – Stavamo viaggiando su un grosso pick-up, un autocarro. Un gruppo di uomini armati ci ha fermato: hanno picchiato l’autista e noi siamo stati costretti a scendere dal piano di carico dove eravamo ammassati. Impossibile opporsi: avevano le armi spianate. Sembrava che ci aspettassero…”. Un vero e proprio agguato: probabilmente stavano seguendo le loro mosse da quando avevano varcato il confine eritreo. Li hanno subito portati via sotto scorta, rinchiudendoli poi in una prigione improvvisata, da qualche parte nel Sahel, tra Shagarab e la frontiera. Non manca mai, in questi casi, qualche pestaggio a caso, tanto per “dare l’esempio” e soffocare sul nascere ogni volontà di resistenza. Qualche giorno dopo sono iniziate le telefonate-ricatto ai familiari, in Eritrea ma anche in Europa. Spesso mentre le vittime venivano torturate, in modo che le loro urla di dolore rendessero più “efficace” la richiesta di denaro, cancellando ogni dubbio sulle intenzioni dei sequestratori: per chi non paga è la fine.
Ad Ajdabiya, un centro di detenzione per profughi sulla costa, 150 chilometri a sud di Bengasi, accade qualcosa di simile. Il campo dipende formalmente dal ministero degli interni. In Libia, però, con due governi e due parlamenti che si fanno la guerra, a Tripoli e a Tobruch, non esiste più alcuna forma di autorità e controllo del paese. Il complesso di Ajdabiya è nelle mani di trafficanti libici e sudanesi che si sono spartiti l’affare: 1.600 dollari da ciascun prigioniero per il tragitto a terra da Khartoum, via Sahara, ed almeno altrettanti per la traversata del Mediterraneo su un barcone a perdere. Spesso di più. Totale: da un minimo di 3.200 dollari in su. Chi non riesce a pagare l’intera cifra non ha speranza di uscire. E viene pestato praticamente ogni giorno: c’è chi non riesce quasi più a muoversi dopo la scarica di botte.
Non va meglio a Misurata. Qui anzi i detenuti sono anche di più, circa 350, tutti eritrei. Fino a qualche giorno fa c’erano anche dei somali, ma sono stati portati a Tripoli, non si sa esattamente dove, in attesa di essere imbarcati. Il campo è uno dei più tristemente famosi. E’ in balia da anni di miliziani formalmente schierati con il governo di Tripoli ma che in realtà, come gran parte dei gruppi armati libici, agiscono quasi sempre in piena autonomia. L’estate scorsa, durante la battaglia per il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, più volte guardie armate hanno prelevato di forza numerosi prigionieri, per usarli come portatori-schiavi di armi e munizioni fin sulla linea del fuoco. Parecchi, a quanto hanno raccontato vari testimoni, sarebbero morti o sarebbero rimasti feriti. Di certo, in tanti non hanno mai fatto ritorno al campo. Le condizioni di vita sono terribili: cibo scarso, poca acqua, maltrattamenti continui. Ogni minimo segno di resistenza viene punito a bastonate. Non mancano giochi crudeli: “Talvolta i carcerieri – ha raccontato un giovane ad Habeshia – scelgono uno o più prigionieri e si divertono a strappargli di dosso gli abiti a colpi di coltello. Se uno prova anche solo a ritrarsi, parte un pestaggio feroce”. Ogni giorno è un incubo. L’unico modo per venirne fuori è pagare 1.200 dollari: a tanto ammonta il riscatto per essere trasferiti a Gasr Garabulli o in un’altra delle spiagge nei dintorni della capitale da cui partono i battelli verso l’Italia.
“In questa Libia ormai completamente preda della violenza – dice con Mussie Zerai – i profughi sono diventati carne da macello. Gli occidentali sono fuggiti tutti e non c’è più nessuno che possa aiutarli. Si tratta di centinaia di migliaia di persone. Alcune stime dicono 400 mila, altre addirittura 600 mila. Forse si poteva pensare a un piano di evacuazione via terra, verso la Tunisia o l’Egitto, come ai tempi della rivolta anti Gheddafi. Invece sono stati lasciati lì, in trappola”. L’unica possibilità di andarsene, così, resta quella di sottostare al ricatto dei trafficanti i quali, una volta incassato dai migranti il pedaggio per la traversata del Canale di Sicilia, pensano solo a disfarsi di loro il più presto possibile, magari costringendoli ad imbarcarsi anche con il mare forza 8 e su gommoni semi sgonfi, come è accaduto in occasione degli ultimi naufragi, costati la vita a quasi 350 persone.

“Abbiamo notizia da Tripoli – riprende a questo proposito don Zerai – che sulla costa ci sono circa 2.500 eritrei ed etiopi ed altrettanti somali e sudanesi ammassati in alcuni capannoni. Hanno già pagato il ‘ticket’ per il posto su un natante qualsiasi. Verranno sicuramente imbarcati nei prossimi giorni. A prescindere dalle condizioni del mare e del tempo. Tutto dipenderà probabilmente dalla eventuale necessità di fare spazio, nei capannoni dove quei poveretti sono rinchiusi, ad altri disperati come loro. Così il rischio di morire nel Mediterraneo aumenta. Anzi, se l’attuale operazione di pattugliamento navale resterà soltanto un programma di vigilanza o addirittura di respingimento, senza piani precisi di soccorso, c’è da aspettarsi un’autentica strage. Mi chiedo come l’Italia e l’Europa possano accettare tutto questo. E la stessa domanda vale per l’indifferenza mostrata dal Consiglio di Bruxelles e da tutti i governi degli Stati membri dell’Unione Europea per quanto sta accadendo in Sudan. E’ stato firmato di recente il cosiddetto Processo di Khartoum, presentato come un accordo decisivo per una nuova gestione dell’emigrazione, nel rispetto dei diritti e della sicurezza di profughi e richiedenti asilo. L’iniziativa è stata sostenuta con forza soprattutto dall’Italia. Allora chiediamo al governo italiano di mobilitarsi subito per pretendere da Khartoum la liberazione dei migranti sequestrati e ricattati dai predoni e la protezione di tutti i rifugiati che entrano nel territorio sudanese. E’ assurdo che le bande di trafficanti possano operare indisturbate, quasi sotto gli occhi della polizia, dei militari e delle massime autorità, visto che i sequestri avvengono lungo una delle strade più battute del paese, quella che dal confine meridionale conduce verso la capitale. Ma forse il punto è proprio qui: forse è quell’accordo che non sta in piedi, per tutta una serie di motivi. A cominciare dall’inaffidabilità già dimostrata da buona parte dei firmatari. In particolare, proprio dal Sudan”.

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