di Emilio Drudi
Continuano ad
arrivare a migliaia, nella loro “fuga per la vita”, da vari paesi sub sahariani
e dal Corno d’Africa. In particolare dall’Eritrea. Sanno bene, questi profughi,
uomini e donne per lo più molto giovani, spesso minorenni, che la Libia è ormai
in preda al caos, totalmente fuori controllo. Non a caso l’hanno abbandonata in
fretta e furia anche gli ultimi europei, incluso tutto il personale
dell’ambasciata italiana, la sola rimasta aperta quando le varie cancellerie
occidentali hanno deciso di smantellare le loro rappresentanze diplomatiche. E
sanno altrettanto bene che tutto il percorso da affrontare, prima attraverso il
Sahara sudanese e poi oltre il confine libico, è una terra di nessuno, dove
disperati come loro sono facile preda di trafficanti di uomini, banditi senza
scrupoli, clan tribali, miliziani pronti a spararti per un niente, poliziotti e
militari corrotti, sia filo governativi che anti governativi. Ma non hanno scelta:
quello che si lasciano alle spalle li spaventa più di tutto questo. Per avere
una chance di vita e di libertà, quella di tentare comunque la sorte è una
scelta obbligata. Anche se sono sempre di più a cadere lungo quello che
dovrebbe essere un cammino della speranza.
L’agenzia Habeshia è
uno dei pochissimi punti di riferimento rimasti a questi “ultimi tra gli
ultimi”, come li ha definiti papa Francesco. Le notizie che continuano ad
arrivare via cellulare a don Mussie Zerai e ai suoi collaboratori sono
terribili. Le raccontano con voce rotta dal dolore e dalla paura gli stessi
profughi o qualche loro familiare. Parlano di sequestri, ricatti, pestaggi,
torture, violenze continue. Donne e uomini ridotti a una condizione di “res
nullius”: schiavi, oggetti umani a disposizione di tutti, tenuti in vita spesso
soltanto perché possono ancora essere scambiati e venduti. Merce su cui far
soldi.
Il Sudan, in
particolare, è diventato quello che fino a qualche anno fa era il Sinai: la
base principale dei trafficanti di uomini che sequestrano, torturano,
ricattano, minacciano chi non riesce a pagare di metterlo sul mercato degli
organi per i trapianti clandestini. Tutto lascia credere, anzi, che proprio
qui, in territorio sudanese, tra il confine con l’Eritrea e l’area di Shagarab,
siano state trasferite le centrali operative dei Rashaida, la grossa tribù
beduina che ha fatto un business enorme del traffico di profughi-schiavi.
Esattamente con la stessa tecnica adottata alle soglie della frontiera con
Israele, prima che fosse chiusa da Tel Aviv con una barriera invalicabile di
cemento, filo spinato e sensori elettronici. Ci sono già state diverse
segnalazioni nei mesi passati. In particolare per il rapimento, in almeno due
riprese, di una trentina di giovani eritrei che stavano cercando di raggiungere
Khartoum. Ora si ha notizia che la stessa sorte è toccata ad altri numerosi
profughi, forse qualche decina: l’hanno denunciato i familiari di alcuni
prigionieri, contattati al telefono per chiedere il riscatto, 10 mila dollari a
testa.
“Il sequestro è
avvenuto proprio sulla via di Shagarab – ha raccontato uno dei ragazzi
catturati, lanciando una drammatica richiesta di aiuto – Stavamo viaggiando su
un grosso pick-up, un autocarro. Un gruppo di uomini armati ci ha fermato: hanno
picchiato l’autista e noi siamo stati costretti a scendere dal piano di carico
dove eravamo ammassati. Impossibile opporsi: avevano le armi spianate. Sembrava
che ci aspettassero…”. Un vero e proprio agguato: probabilmente stavano
seguendo le loro mosse da quando avevano varcato il confine eritreo. Li hanno subito
portati via sotto scorta, rinchiudendoli poi in una prigione improvvisata, da
qualche parte nel Sahel, tra Shagarab e la frontiera. Non manca mai, in questi
casi, qualche pestaggio a caso, tanto per “dare l’esempio” e soffocare sul
nascere ogni volontà di resistenza. Qualche giorno dopo sono iniziate le
telefonate-ricatto ai familiari, in Eritrea ma anche in Europa. Spesso mentre
le vittime venivano torturate, in modo che le loro urla di dolore rendessero
più “efficace” la richiesta di denaro, cancellando ogni dubbio sulle intenzioni
dei sequestratori: per chi non paga è la fine.
Ad Ajdabiya, un
centro di detenzione per profughi sulla costa, 150 chilometri a sud di Bengasi,
accade qualcosa di simile. Il campo dipende formalmente dal ministero degli
interni. In Libia, però, con due governi e due parlamenti che si fanno la
guerra, a Tripoli e a Tobruch, non esiste più alcuna forma di autorità e
controllo del paese. Il complesso di Ajdabiya è nelle mani di trafficanti
libici e sudanesi che si sono spartiti l’affare: 1.600 dollari da ciascun
prigioniero per il tragitto a terra da Khartoum, via Sahara, ed almeno
altrettanti per la traversata del Mediterraneo su un barcone a perdere. Spesso
di più. Totale: da un minimo di 3.200 dollari in su. Chi non riesce a pagare
l’intera cifra non ha speranza di uscire. E viene pestato praticamente ogni
giorno: c’è chi non riesce quasi più a muoversi dopo la scarica di botte.
Non va meglio a
Misurata. Qui anzi i detenuti sono anche di più, circa 350, tutti eritrei. Fino
a qualche giorno fa c’erano anche dei somali, ma sono stati portati a Tripoli,
non si sa esattamente dove, in attesa di essere imbarcati. Il campo è uno dei
più tristemente famosi. E’ in balia da anni di miliziani formalmente schierati
con il governo di Tripoli ma che in realtà, come gran parte dei gruppi armati
libici, agiscono quasi sempre in piena autonomia. L’estate scorsa, durante la
battaglia per il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, più volte
guardie armate hanno prelevato di forza numerosi prigionieri, per usarli come
portatori-schiavi di armi e munizioni fin sulla linea del fuoco. Parecchi, a
quanto hanno raccontato vari testimoni, sarebbero morti o sarebbero rimasti
feriti. Di certo, in tanti non hanno mai fatto ritorno al campo. Le condizioni
di vita sono terribili: cibo scarso, poca acqua, maltrattamenti continui. Ogni
minimo segno di resistenza viene punito a bastonate. Non mancano giochi
crudeli: “Talvolta i carcerieri – ha raccontato un giovane ad Habeshia –
scelgono uno o più prigionieri e si divertono a strappargli di dosso gli abiti
a colpi di coltello. Se uno prova anche solo a ritrarsi, parte un pestaggio
feroce”. Ogni giorno è un incubo. L’unico modo per venirne fuori è pagare 1.200
dollari: a tanto ammonta il riscatto per essere trasferiti a Gasr Garabulli o
in un’altra delle spiagge nei dintorni della capitale da cui partono i battelli
verso l’Italia.
“In questa Libia
ormai completamente preda della violenza – dice con Mussie Zerai – i profughi
sono diventati carne da macello. Gli occidentali sono fuggiti tutti e non c’è
più nessuno che possa aiutarli. Si tratta di centinaia di migliaia di persone.
Alcune stime dicono 400 mila, altre addirittura 600 mila. Forse si poteva
pensare a un piano di evacuazione via terra, verso la Tunisia o l’Egitto, come
ai tempi della rivolta anti Gheddafi. Invece sono stati lasciati lì, in
trappola”. L’unica possibilità di andarsene, così, resta quella di sottostare
al ricatto dei trafficanti i quali, una volta incassato dai migranti il
pedaggio per la traversata del Canale di Sicilia, pensano solo a disfarsi di
loro il più presto possibile, magari costringendoli ad imbarcarsi anche con il
mare forza 8 e su gommoni semi sgonfi, come è accaduto in occasione degli
ultimi naufragi, costati la vita a quasi 350 persone.
“Abbiamo notizia da
Tripoli – riprende a questo proposito don Zerai – che sulla costa ci sono circa
2.500 eritrei ed etiopi ed altrettanti somali e sudanesi ammassati in alcuni
capannoni. Hanno già pagato il ‘ticket’ per il posto su un natante qualsiasi.
Verranno sicuramente imbarcati nei prossimi giorni. A prescindere dalle
condizioni del mare e del tempo. Tutto dipenderà probabilmente dalla eventuale
necessità di fare spazio, nei capannoni dove quei poveretti sono rinchiusi, ad
altri disperati come loro. Così il rischio di morire nel Mediterraneo aumenta.
Anzi, se l’attuale operazione di pattugliamento navale resterà soltanto un
programma di vigilanza o addirittura di respingimento, senza piani precisi di
soccorso, c’è da aspettarsi un’autentica strage. Mi chiedo come l’Italia e
l’Europa possano accettare tutto questo. E la stessa domanda vale per
l’indifferenza mostrata dal Consiglio di Bruxelles e da tutti i governi degli
Stati membri dell’Unione Europea per quanto sta accadendo in Sudan. E’ stato
firmato di recente il cosiddetto Processo di Khartoum, presentato come un
accordo decisivo per una nuova gestione dell’emigrazione, nel rispetto dei
diritti e della sicurezza di profughi e richiedenti asilo. L’iniziativa è stata
sostenuta con forza soprattutto dall’Italia. Allora chiediamo al governo
italiano di mobilitarsi subito per pretendere da Khartoum la liberazione dei
migranti sequestrati e ricattati dai predoni e la protezione di tutti i
rifugiati che entrano nel territorio sudanese. E’ assurdo che le bande di
trafficanti possano operare indisturbate, quasi sotto gli occhi della polizia,
dei militari e delle massime autorità, visto che i sequestri avvengono lungo
una delle strade più battute del paese, quella che dal confine meridionale
conduce verso la capitale. Ma forse il punto è proprio qui: forse è
quell’accordo che non sta in piedi, per tutta una serie di motivi. A cominciare
dall’inaffidabilità già dimostrata da buona parte dei firmatari. In
particolare, proprio dal Sudan”.
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