di Emilio Drudi
E’ una strage annunciata quella dei circa 400 migranti, uccisi dal freddo o inghiottiti dal mare, mentre cercavano di raggiungere l’Italia dalla costa africana su quattro fragili gommoni, nonostante il Canale di Sicilia fosse sconvolto da una bufera tremenda, con onde alte nove metri, raffiche di vento gelato fortissime, temperature vicine allo zero. Annunciata dalla ulteriore barriera innalzata dalla Fortezza Europa con la fine dell’operazione Mare Nostrum e il varo del progetto Triton, che si limita a pattugliare una fascia di 30 miglia, poco più delle acque territoriali. E annunciata, ancora, dal caos denso di morte in cui la guerra di tutti contro tutti che infuria da anni ha gettato la Libia.
“Con un mare così brutto – dicono alcuni profughi rifugiati in Italia dall’Eritrea, il paese da cui verosimilmente venivano molte delle vittime – tutti quei disperati non si sarebbero certamente imbarcati se non fossero stati costretti. Alcuni superstiti lo hanno confermato: li hanno obbligati a partire, sotto la minaccia delle armi, i trafficanti di uomini ai quali si erano affidati. Quei predoni i soldi per la traversata li avevano già incassati e ai loro occhi quelle vite non avevano alcun valore. Non è un mistero. In Libia non c’è più nemmeno un’ombra di autorità statale in grado di garantire un minimo di sicurezza. Così hanno campo libero clan criminali senza scrupoli, veri e propri racket legati alle varie milizie che si contendono il potere, inclusi i jihadisti fondamentalisti. E il traffico dei profughi-schiavi è diventato una delle fonti privilegiate e più redditizie di autofinanziamento, oltre che un business mafioso. Ci sono decine, forse centinaia di migliaia di migranti intrappolati nel paese. Tenendo conto che un solo imbarco rende fino a 2.000 dollari e il riscatto per essere rilasciati dai centri di detenzione almeno mille, è facile fare i conti: è un affare da milioni di dollari. Le istituzioni libiche non possono o non vogliono fare nulla. E’evidente, allora, che di questo problema deve farsi carico l’Europa. In particolare quegli Stati che nel 2011 si sono schierati in armi con la ‘primavera araba’, promettendo tutto il loro impegno per la costruzione di un paese libero e democratico”.
Questo quadro di disperazione è confermato dalle notizie giunte nelle ultime settimane all’agenzia Habeshia. Oltre ai profughi bloccati da tempo in Libia, continuano ad arrivarne a migliaia dal Sudan. “Lungo il tragitto – hanno raccontato alcuni testimoni – molti muoiono nel deserto, abbandonati dai mercenari che hanno organizzato il trasferimento o vittime del fuoco dei miliziani da cui vengono intercettati. I posti di blocco lungo le strade sono frequenti. Gli uomini armati che li presidiano, poliziotti o militari, non esitano a sparare al minimo cenno di fuga”. Così è uno stillicidio continuo di morti e feriti. Uno di questi è Hassan, costretto a camminare con le stampelle dopo che gli hanno sparato. E’ detenuto in un grosso capannone vicino a Tripoli insieme ad altre 400 persone, tra cui circa 150 donne e 50 bambini. Da lì è riuscito a telefonare all’agenzia Habeshia. “Siamo circondati da uomini armati – ha raccontato – Non possiamo uscire. La promiscuità è spaventosa. Non c’è neanche un bagno: la gente è costretta a fare i propri bisogni lì dove vive. L’aria è irrespirabile per il fetore. Parecchi di noi sono malati e sette donne sono in stato di gravidanza terminale, ma non si è mai visto un medico. Per questo inferno ciascuno di noi ha dovuto versare 1.800 dollari ai trafficanti, che sono in combutta con le milizie che controllano Tripoli. E situazioni analoghe si ripetono lungo tutto il tragitto che abbiano fatto dal Sudan fino a Tripoli. Ovunque ci sono profughi trattenuti dai miliziani: soltanto chi paga può proseguire il viaggio. Si sente sparare continuamente: raffiche ma anche armi pesanti. Abbiamo paura che il nostro capannone venga colpito da qualche bomba: sarebbe un massacro”.
Non c’è da stupirsi di tutto questo. La Libia è totalmente fuori controllo. Il governo “laico” scaturito dalle ultime, disertate elezioni, è costretto a rimanere trincerato aTobruck, in una zona militarizzata vicino al porto: nei momenti di maggiore tensione ha dovuto addirittura rifugiarsi su una nave ancorata in rada. Il governo islamico moderato, che non si è mai dimesso e non ha mai riconosciuto la validità delle elezioni, non riesce a garantire la sicurezza nemmeno nel perimetro urbano di Tripoli. Lo dimostra il recente assalto condotto contro il Corinthia Hotel, nel centro della città, da una cellula di terroristi, ennesimo gradino della escalation delle forze dell’Isis, che hanno già stabilito da tempo nel comprensorio di Derna, in Cirenaica, un califfato collegato a quello di Iraq e Siria e che si preparerebbero ora a fare lo stesso a Tripoli. Come riferisce Guido Ruotolo sulla Stampa, anzi, secondo stime di ambienti vicini al governo “laico” di Tobruck, l’appello per questa nuova conquista sarebbe stato accolto finora da oltre 6 mila miliziani jihadisti, che si troverebbero già in Libia, provenienti da vari paesi.
In questa situazione si è diffusa la voce che sarebbe sul punto di essere chiusa anche l’ambasciata italiana, la sola rimasta a Tripoli tra tutte le diplomazie occidentali. La notizia non ha trovato conferma alla Farnesina e fonti parlamentari assicurano che i nostri uffici diplomatici continuano a funzionare, mantenendo contatti equidistanti con tutte le forze in campo e risultando di fatto, per ammissione di entrambi i “governi” libici, l’unico deterrente all’implosione definitiva dello Stato. Ma la situazione è in rapida evoluzione e non è da escludere che possano maturare condizioni di minaccia tali da indurre a ritirarsi. Incluso un attacco dell’Isis o una situazione di guerra con interventi sul campo anche occidentali.
Appare chiaro, allora, che il “caso” Libia non può più essere ignorato dall’Unione Europea. Per la situazione generale ma, in particolare, come primo punto, proprio per la tragedia infinita dei profughi intrappolati nel paese, che sono “l’effetto collaterale” più grave e urgente del caos che si trascina da anni. Gli appelli a Bruxelles perché affronti finalmente il problema si fanno sempre più numerosi. Il primo lo ha lanciato il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, che dalla fine di Mare Nostrum si trova di nuovo sulla “linea del fuoco” ed ha contestato senza mezzi termini che la strage dell’ottobre 2013 sembra non aver lasciato traccia nei cuori e nelle menti. Identico il tono degli interventi di numerose organizzazioni umanitarie e dei vescovi: “E’ una tragedia lancinante – ha dichiarato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei – che pesa sulla coscienza dell’intera Europa”.
Va diretto al nocciolo del problema anche don Mussie Zerai. “Questo ennesimo massacro è il risultato di una Unione Europea che ha preferito voltarsi dall’altra parte per non vedere il dramma che si sta consumando nel Mediterraneo. Non serve sfilare davanti alle bare e non serve dire belle parole di fronte alle vittime e ai loro familiari: servono fatti, scelte politiche in grado di prevenire queste tragedia”, ha detto il presidente di Habeshia, proposto qualche giorno fa come candidato al Premio Nobel per la Pace. E, ammonendo che quanto è accaduto tra domenica e lunedì potrebbe essere soltanto l’inizio di una strage infinita, ha aggiunto alcune indicazioni per fronteggiare la nuova catastrofe che si profila: “Stando alle notizie che ci giungono dalle coste libiche, ci sono migliaia di disperati in procinto di partire. C’è il rischio concreto che il massacro di questo inizio settimana si ripeta già nei prossimi giorni perché i miliziani che gestiscono il traffico costringono a partire con le armi in pugno centinaia di giovani, uomini e donne, dopo essersi fatti pagare una media di 1.800 dollari da ognuno. Allora, proprio perché la Libia è sprofondata in questo caos, chiediamo con forza al Governo Italiano e all’Unione Europea di ripristinare il progetto Mare Nostrum, almeno fino alla stabilizzazione politica del paese. A fronte dell’emergenza causata dallo strapotere dei trafficanti di esseri umani, che continueranno a mandare allo sbaraglio i profughi caduti nelle loro mani, occorre trovare subito una soluzione d’emergenza. Mare Nostrum può essere la risposta. Lo dimostra quanto ha fatto nei dodici mesi in cui ha operato. Di sicuro, invece, i pattugliamenti previsti dall’operazione Triton non sono né adeguati né efficaci. E non ha senso dire, come fanno il premier Matteo Renzi e il ministro degli interni Angelino Alfano, che anche con Mare Nostrum si moriva. Ovvio che poi la radice del problema sono le situazioni disastrose non solo della Libia ma dei paesi dai quali i profughi sono costretti a scappare per salvarsi la vita. Ma chi le ha create o comunque favorite questa situazioni? Non c’entrano forse la politica e gli interessi del Nord del mondo? Il punto adesso è salvare quante più vite possibile. Mare Nostrum ha provato a farlo, spingendo le sue navi sino ai limiti delle acque territoriali libiche. Triton è soltanto un piano di polizia teso a chiudere le frontiere europee”.
La necessità di ripristinare Mare Nostrum è stata sottolineata anche dall’ex premier Enrico Letta che l’ha varato: “Anche a costo di perdere voti”, ha sottolineato, come monito al governo Renzi. Dello stesso avviso è l’onorevole Erasmo Palazzotto, presidente del Comitato Africa, che introduce anzi una novità: proporrà al Parlamento di rilanciare Mare Nostrum con la collaborazione dell’Unione Europea ma, soprattutto, chiedendo di metterlo sotto l’egida dell’Onu. Come aveva indicato mesi fa anche la Marina Italiana.
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