di Emilio Drudi
Don Mussie Zerai,
fondatore e presidente dell’agenzia Habeshia, è tra i candidati al Premio Nobel
per la Pace. Il suo nome è stato proposto da Kristian Berg Harpiken, direttore
dell’Istituto di ricerca internazionale di pace di Oslo, per l’opera che svolge
da anni, proprio attraverso Habeshia, in difesa dei diritti e della vita stessa
dei richiedenti asilo e dei migranti in fuga da guerre, dittature, terrorismo,
persecuzioni, fame e miseria.
E’ solo il primo
gradino verso il prestigioso riconoscimento, che verrà assegnato nel prossimo
mese di dicembre. Lo stesso Harpiken getta acqua sul fuoco: “Spesso i primi
nomi che circolano vengono bruciati e quasi mai le previsioni sono rispettate”.
Ma il fatto in sé di aver ricevuto la “nomination” conferma come l’attività
condotta da don Zerai e da Habeshia abbia attirato l’attenzione ai più alti
livelli. Anche se, in verità, più in Europa e negli Stati Uniti che in Italia,
dove pure l’agenzia è stata fondata, ha mosso i passi iniziali e continua a
operare in prima linea.
La notizia della
nomination ha raggiunto don Zerai a Zurigo, dove svolge la sua missione
pastorale per la comunità eritrea ed etiopica riparata in Svizzera. Non si è
scomposto più di tanto. Non è nel suo stile, del resto. “Mi fa piacere, è ovvio
– ha dichiarato – ma fermiamoci qui… Ci sono decine di candidati. A cominciare
da papa Francesco, che ha sicuramente molti più titoli e meriti di me. Ammesso
che io abbia meriti tali da essere proposto addirittura per il Nobel. In
realtà, io faccio solo ciò che ritengo giusto. Mi limito a cercare di attuare
quello che proprio il Papa ha indicato fin da quando si è insediato: andare
verso le periferie e schierarsi dalla parte degli ultimi della terra, per
guardare ai problemi con i loro occhi. Niente di più. E se tutto questo è
riconosciuto degno del Nobel, allora mi auguro che serva a spingere il Nord del
mondo, i potenti della terra come dice papa Bergoglio, ad abbattere le mura
della Fortezza Europa arrivando a un sistema di accoglienza unico, accettato e
condiviso da tutti gli Stati dell’Unione, e a cambiare finalmente la politica
condotta nel Sud del mondo. Perché spesso è proprio questa politica a
costringere milioni di giovani ad abbandonare la propria casa”.
Non ha voluto
aggiungere altro. La proposta di Harpiken, tuttavia, non sembra arrivare per
caso, dopo un anno, il 2014, nel quale la tragedia dei profughi è esplosa
drammatica come mai in precedenza, con quasi 170 mila sbarchi in Italia, oltre
3.600 morti nel Mediterraneo e una escalation continua che, secondo gli ultimi
dati dell’Unhcr, ha portato a 53 milioni il numero delle persone costrette nel
mondo a una ‘fuga per la vita’ dal proprio paese. Un esodo enorme, mai
registrato prima nella storia, ma che, visto il continuo moltiplicarsi delle
situazioni di crisi, segna non il culmine ma solo l’inizio di un problema
terribile, con cui l’intero pianeta dovrà fare i conti.
Il punto è proprio
qui. Don Zerai è il simbolo di questo problema epocale. Non a caso è noto come
“l’angelo dei profughi”. Un appellativo che si è guadagnato sulla stampa
internazionale per tutto quello che ha fatto in questi anni, mettendosi senza
riserve al servizio delle vittime di una tragedia che, come lui stesso ripete
spesso, affonda le radici anche nel pregiudizio, nell’opportunismo, nel
conformismo, nell’indifferenza di milioni di uomini e donne che hanno la
fortuna di essere nati e di vivere nella “parte privilegiata” della terra.
Anche don Zerai ha
un passato di profugo. Nato in Eritrea, ad Asmara, è espatriato fortunosamente
in Italia nel 1992, appena diciassettenne, come rifugiato politico. E’ una
vicenda che non ha mai dimenticato e che gli ha anzi segnato la vita fin da
quella mattina di primavera che, ridestandosi finalmente libero a Roma dove era
arrivato la sera prima, ha sentito l’obbligo morale di mettere la sua
esperienza e le sue forze a servizio di altri giovani come lui. Diventare
attivista per i diritti umani è stato lo sbocco naturale di questa scelta, che
ha poi confermato e rafforzato negli anni degli studi: filosofia a Piacenza dal
2000 al 2003, teologia nei cinque anni successivi e poi morale sociale presso
l’Università Pontifica Urbaniana fino al 2010, quando è stato ordinato
sacerdote.
La missione che ha
voluto darsi si è intensificata in particolare proprio dopo che ha preso i
voti, in concomitanza con l’aggravarsi della vicenda dei profughi a causa di
tutta una serie di situazioni di crisi esplose in Africa e nel Medio Oriente.
E’ stato tra i primi, in quegli anni, a partire dalla tarda estate del 2010, a segnalare
la tratta degli schiavi nel Sinai. E’ una piaga tuttora aperta: centinaia di
giovani catturati nel deserto, verso il confine di Israele, da bande di predoni
beduini collegate a organizzazioni criminali internazionali, che pretendono per
ogni prigioniero riscatti saliti rapidamente da 8-10 mila a 40-50 mila dollari
e che minacciano di consegnare chi non riesce a pagare al mercato degli organi
per i trapianti clandestini. Le sue denunce, fatte attraverso l’agenzia
Habeshia, insieme a quelle di altre organizzazioni umanitarie, hanno destato
sensazione in tutto il mondo, ma l’eco si è spenta in poche settimane, senza
che la comunità internazionale si sia mai fatta davvero carico di questa che
appare un’autentica emergenza umanitaria.
Da allora c’è stato
un crescendo di orrore. Il traffico di schiavi nel Sinai è diminuito ma non è
mai cessato. Nemmeno dopo che Israele ha chiuso nel 2012 la sua frontiera con
l’Egitto, innalzando una barriere impenetrabile di filo spinato e sensori
elettronici. E’ solo cambiata la strategia criminale: anziché attendere i
migranti nel Sinai, i predoni ora li adescano con il miraggio di un espatrio in
Europa o addirittura li rapiscono direttamente nei centri di soggiorno
provvisorio sparsi tra il Sudan e l’Etiopia. Anzi la mafia dei trafficanti ha
esteso e radicato i suoi tentacoli lungo tutte le vie di fuga dei migranti, sia
nei paesi di transito verso l’Europa che in quelli di prima accoglienza:
Etiopia, Egitto, Libia. Il Sudan, soprattutto, dove le bande beduine hanno
trasferito dal Sinai le proprie basi operative. Mentre le crisi, le rivolte, le
guerre, le carestie esplose dal 2010 ad oggi, continuano a produrre fuggiaschi
e richiedenti asilo e, dunque,
“materiale umano” da sfruttare per i trafficanti di morte.
Don Zerai è
diventato un punto di riferimento per le vittime di tutto questo: prima a Roma,
dove ha esercitato la fase iniziale del suo sacerdozio, ed ora in Svizzera. I
suoi recapiti, dai telefoni cellulari personali ai numeri dell’agenzia Habeshia,
sono ormai considerati un’ancora di salvezza per i giovani prigionieri dei
predoni, per le famiglie che non hanno più notizie dei loro cari, per i
richiedenti asilo relegati nei lager libici, per i migranti dimenticati nelle
carceri egiziane o nei campi profughi del Sudan, per i rifugiati abbandonati a
se stessi in Italia. Disperati dei quali spesso non si occupa nessuno. E lui,
oltre a fare il possibile per organizzare una rete di aiuto diretto, continua a
documentare e a battersi perché questa tragedia entri come prioritaria nell’agenda
dell’Onu, dell’Unione Europea e di tutte le cancellerie occidentali.
La sua voce non è
rimasta inascoltata: è stato più volte sentito dall’Alto Commissariato dell’Onu
per i rifugiati; nel giugno 2012 ha avuto un’audizione ufficiale con l’allora segretario
di stato americano Hillary Clinton a Washington; è stato convocato dalle
commissioni affari interni e per i diritti dell’uomo dell’Unione Europea alle
quali ha consegnato in particolare, all’inizio del novembre 2012, un rapporto
sulle terribili condizioni dei centri di detenzione in Libia; nel 2013 e lo
scorso anno ha avuto tre incontri a Bruxelles sulla situazione in Libia e nel
Mediterraneo e un confronto sul traffico di esseri umani con il commissario Ue
Cecilia Malmstron. Un anno fa ha affrontato questo stesso problema in Vaticano,
nel corso di un colloquio con Luis de Baca, del Dipartimento di Stato
americano. I suoi dossier sono diventati in diversi casi la base per inchieste
della magistratura internazionale o dei singoli paesi ed è stato più volte contattato
come “esperto” da vari parlamentari europei e italiani.
“Ma è ancora soltanto
l’inizio di un lavoro lungo e difficile – continua a ripetere – Questa enorme
tragedia troverà soluzione, come ha ammonito papa Francesco, solo quando i
potenti della terra cambieranno la loro politica nei confronti del Sud del
Mondo. Degli ultimi della terra”.
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