Agenzia Habeshia. Comunicato
stampa
Appello alla comunità
internazionale
“Siamo abbandonati
da oltre una settimana. Anche i funzionari dell’Unhcr non si sono più visti. Da
tre giorni, intanto, infuria la battaglia a pochissima distanza dal luogo dove
siamo accampati: ne udiamo il fragore, quando è buio ne vediamo i bagliori
degli spari e dei fuochi. Siamo soli, indifesi. Terrorizzati per quanto può
accadere. Molti rifugiati dell’Africa Centrale che erano con noi hanno lasciato
il campo di notte: sono fuggiti senza dirci nulla. Noi, fuori da qui, non
sappiamo dove andare: siamo costretti a restare, ma non c’è alcuna protezione.
I militari di passaggio saccheggiano tutto ciò che trovano. Noi non possiamo
opporci: dobbiamo subire e basta. E il pericolo cresce di giorno in giorno.
Siamo tanti, un centinaio almeno, con molte donne e bambini…”.
C’è tutta la
disperazione di chi non vede vie di scampo in questa richiesta di aiuto che un
profugo eritreo ha fatto arrivare all’agenzia Habeshia dal Sud Sudan. Un dramma
in più nel dramma enorme della guerra civile esplosa dal 2013 tra le milizie
dinka del presidente Salva Kiir e quelle nuer dell’ex vicepresidente Riek
Mashar. Una guerra feroce che ha provocato decine di migliaia di morti, circa
due milioni di profughi costretti a fuggire dalla propria casa, dentro o fuori
i confini, e sta aprendo le porte a una carestia spaventosa che, secondo
un’indagine dell’Unione Africana, potrebbe interessare non meno di 4,5 milioni
di persone.
Una situazione
estrema eppure trascurata o addirittura totalmente ignorata dai media
occidentali, nonostante i ripetuti, allarmanti rapporti di Human Rights Watch e
di Amnesty International. E meno che mai, in questo strano clima di
“silenziamento”, si parla dei profughi “stranieri” rimasti intrappolati in una
guerra non loro: soprattutto eritrei, etiopi e somali entrati in Sud Sudan come
“zona di transito” o, al massimo, di prima sosta, durante la fuga dal proprio
paese. Come, appunto, il centinaio che sono riusciti a raggiungere Habeshia con
un cellulare.
Si tratta di 101
persone: 70 eritrei, 2 somali e 29 etiopi di etnia oromo, in fuga, questi
ultimi, dalle persecuzioni del governo di Addis Abeba che anche di recente –
rileva un rapporto di Human Rights Watch – ha represso con estrema violenza e una
raffica di arresti la protesta di numerosi giovani contadini contro il rischio di essere sfrattati dalla loro
terra. Si trovano da oltre quattro mesi nel campo profughi di MAKPANDU, posto
sotto le insegne dell’Unhcr, l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, nel
comprensorio di Yambiyo, una città con meno di 40 mila abitanti, lontana 600
chilometri da Juba, la capitale, ma al centro di una zona strategica
importante: passa da qui una delle principali strade che conducono al confine
con il Congo, distante una quarantina di chilometri. Forse proprio per questo tutta
quell’area è fortemente contesa tra le truppe ribelli e quelle filo-governativi.
La battaglia si è avvicinata progressivamente al campo, fino ormai a lambirlo.
Nel timore di essere
presi tra i due fuochi o che addirittura il campo venga a trovarsi al centro
dei combattimenti, molti profughi sono fuggiti. Ma per questi cento eritrei,
etiopi e somali anche la fuga è un azzardo enorme. A differenza di quelli
provenienti dal Centro Africa, non sanno dove andare: indietro non possono
tornare e fuori dal campo di MAKPANDU per loro c’è il nulla: nessuna meta con
un minimo di sicurezza da raggiungere, almeno finché tutt’intorno infuria la
battaglia. E poi, soprattutto, sono un gruppo estremamente vulnerabile: tra i
70 eritrei ci sono 17 donne e ben 20 bambini; tra i 29 etiopi oromo altri 9
bambini e 6 donne, di cui una in stato di gravidanza piuttosto avanzata. “A un
certo punto abbiamo anche pensato di andarcene, ma non possiamo esporre i nostri
piccoli e le nostre donne a una marcia senza prospettive, a piedi, su piste
estremamente pericolose, senza scorte di cibo adeguate e, in definitiva, senza
un luogo preciso dove dirigerci: non ci resta che rimanere nel campo. E sperare
che qualcuno ci venga finalmente in aiuto”, ha spiegato ad Habeshia il giovane
eritreo che è riuscito a telefonare.
Habeshia si appella
ora alla comunità internazionale. Al Commissariato Onu per i rifugiati, in
particolare: “Tutto il Sud Sudan è un inferno. Non a caso Human Rights Watch ha
denunciato più volte che crimini di guerra continuano ad essere commessi da
entrambe le parti in lotta. Ma la situazione segnalata al campo di MAKPANDU appare di un’urgenza estrema anche rispetto a questo caos di sangue e di
violenza. Ogni giorno, ogni ora che passa può essere fatale. Occorre
organizzare un canale umanitario per portare in salvo prima possibile questi
profughi. Poi, una volta al sicuro, l’Unhcr dovrà trovare il modo di attuare
per loro un programma di reinsediamento, perché possano essere accolti in un
paese in grado di garantire una forma di protezione internazionale: sono donne,
uomini e bambini in cerca solo di pace e di dignità”.
don Mussie Zerai
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